Un falò gigantesco per riscattarsi

Murene, Manuela Antonucci
(ItaloSvevo, 2020)

Il 17 gennaio di ogni anno si festeggia la giornata di Sant’Antonio abate. In questa occasione, i paesani costruiscono un grande falò, e lo ardono in omaggio al Santo, affinché sciolga il gelo e permetta alla terra di fecondare, aprendo le porte alla primavera. Nelle zone pugliesi, questo falò viene chiamato fòcara, e non è cosa da scherzare: per quelle terre, fortemente dedite all’agricoltura e allo sfruttamento della natura, la fòcara di Sant’Antonio è un rituale da cui può dipendere la sopravvivenza di un’intera comunità. Lo sa bene Nino, che per la ricorrenza del 1951 vuole costruire la più grande e imponente fòcara di tutti i tempi.

Nino è ossessionato dal suo progetto: passa le notti sveglio a progettare la struttura del falò in modo che non collassi sul suo stesso peso. Sua moglie, Pietra, crede che abbia addosso “l’affascino”, un malocchio molto potente, che lo tiene incatenato a questa idea che, intanto, è giunta alle orecchie di tutti i paesani. Nel giro di pochissime pagine, Manuela Antonucci ha già dipinto tutto l’immaginario da cui trae origine la storia del suo romanzo d’esordio, Murene: quello proprio delle zone della Terra d’Arneo, quella parte del Salento a ridosso dell’insenatura ionica. Una realtà contadina e pescaiola, fatta di terra incastrata sotto le unghie, salsedine e una religiosità fortissima, superstiziosa.

Tra queste coordinate si muovono personaggi minimi, quasi fossero prodotti della terra e del mare: tra i tanti, Nino, malinconico pescatore di murene; Peppino, contadino analfabeta; la maciara Pietra, strega comune a cui il paese si rivolge per le preghiere e i malocchi, e tanti altri. Un immaginario letterario codificato ormai da decenni, statico, tipizzato, che però in Murene viene riproposto all’interno di una cornice storica mobile e dissestata: quella dell’occupazione dell’Arneo, avvenuta tra il 1950 e il 1951. Fu una protesta di migliaia di contadini, profondamente scontenti delle loro condizioni di lavoro: campi poco estesi, e i raccolti da devolvere quasi interamente al padrone. Nel libro della Storia, come in Murene, l’occupazione delle terre dei signori viene repressa con l’intervento della polizia, che non solo arresta centinaia di braccianti, ma incendia anche tutte le biciclette che avevano sistemato a mo’ di recinto.

Nonostante i canoni estetici già comuni alla narrativa sul Meridione, quelli che brulicano in Murene non sono semplici figure o macchie, ma monomani la cui esistenza è occupata da una lotta tanto interiore quanto esteriore. Si percepisce, qui, un’atmosfera quasi tozziana, con personaggi dalla volontà monca, già sconfitta ancora prima di concretizzarsi. Uomini e donne in rapporto sineddotico con la propria terra, dimenticata dalle istitutizioni, misera e sconfitta ancora prima di avere una coscienza. Soprattutto, gli abitanti dell’Arneo sembrano vivere rasoterra, come i microbi e i parassiti, non come esseri umani.

Una gramigna nera, che si attaccava alla pianta buona, lasciando tutto quanto a deperire; oppure una figura in bianco e nero, senza anima, stampata malamente sul quadro di una terra senza padri.

In questo senso, la costruzione di una gigantesca fòcara è accolta da tutti come un progetto di elevazione grandioso e necessario, spirituale, complementare alla conquista orizzontale, a livello del mare, politica ed economica: quella del latifondo. L’unica persona che sembra caricare su di sè il segno del cambiamento e del riscatto è Anna, in prima linea nella lotta dei diritti agricoli, generatrice di vita con la neonata Liberata, l’unica che si preoccupa dell’istruzione di Peppino. Ed è proprio Anna che, nel bel mezzo della protesta, scompare.

Il mistero intorno alla figura di Anna  persiste, e passano dieci anni dalla sua sparizione. Ora, i protagonisti sono i ragazzi, i figli dei contadini e dei pescatori, forza verde che si scontra con le proprie origini. È cambiato tutto per rimanere tutto uguale: sembra che il Meridione rimarrà intrappolato per sempre alla locuzione gattopardesca. Il futuro è un nuovo mistero che, però, sembra trascinare di nuovo le catene di un passato mai risolto né riscattato.

Murene riesce a ritagliarsi una propria dimensione all’interno dei romanzi del Meridione, e lo fa proprio nel modo in cui pesca a piene mani dall’immaginario del Sud. Il Salento e il suo folklore sono materie incredibilmente incandescenti e vischiose, che però, nel romanzo di Antonucci, non soffocano la freschezza narrativa del romanzo. Fungono, piuttosto, da sottofondo a quello che, grazie a questo abbassamento, si staglia con più forza: i nostri motivi universali della tragedia, della lotta, della passione e dell’ombra.

Michele Maestroni

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