Beati gli inquieti: nel deserto fiorito della follia

Beati gli inquieti, Stefano Redaelli
(Neo. Edizioni, 2021)

La follia e il deserto hanno tre cose in comune: 1) l’abbandono, 2) la sconnessione, 3) lo spopolamento.

La follia è un deserto sterminato e immerso in un silenzio ovattato. È un ghiacciaio immobile ed eterno. È la voce di Dio, è il dono della profezia e della poesia; è il dono dell’innocenza e la dannazione della colpa. In una schizofrenia di metafore, Stefano Redaelli cerca di indagare la follia; per farlo, si serve dei corpi e delle voci di pazienti psichiatrici.

Il protagonista Antonio prende accordi con la direttrice dell’istituto “Casa delle farfalle” e, fingendosi anch’egli un paziente, trascorre alcune settimane insieme agli altri ospiti della struttura. L’iniziale scopo di Antonio è, per sua dichiarazione, osservare la follia, indagarla, comprenderla: si tratta, con le sue parole, di un «autoricovero a fini letterari».

Durante il suo soggiorno alla Casa delle farfalle, Antonio condivide la routine quotidiana degli altri pazienti: le medicine da assumere ogni giorno, le innumerevoli sigarette, i colloqui con la direttrice della struttura. Antonio è continuamente teso fra lo sforzo di mettersi allo stesso livello dei folli e la fiera rivendicazione di possesso di una prospettiva che a suo parere è l’unica da cui la follia può essere veramente osservata, capita e comunicata. Ben presto la tensione comunicativa non sarà più solo unidirezionale: a forza di cercare di comprendere i folli, il lettore nota che Antonio inizia via via a far suoi sempre di più i toni e i temi degli altri pazienti. L’io narrante comincia a parlare come Cecilia, a vedere complotti dappertutto come Angelo, a spogliarsi come Carlo e a iperleggere come Simone nello sforzo spasmodico di tenere la mente “sveglia”. È anche lui un re senza regno e sudditi perché gli pare di aver individuato una strada, per quanto confusa, che porta ben dentro la mente umana.

Questa sorta di progressiva mimesi del linguaggio parlato e pensato del narratore rispetto all’ambiente circostante è forse uno dei tratti più interessanti dell’opera di Redaelli, secondo solo all’introduzione di capitoli con struttura di copioni teatrali per descrivere scene di vita comune all’interno della “Casa delle farfalle”: è in fondo il più efficace elemento descrittivo, far sì che la forma dell’opera d’arte imiti il contenuto dell’opera stessa.

Il soggiorno alla casa di cura, da che era partito come mezzo per indagare gli altri, si rivelerà il momento decisivo in cui Antonio stesso tenterà, forse per la prima volta, di accettare una parte di sé che sino ad allora dà mostra di aver rifiutato; ed è proprio con la conclusione del libro che il cerchio si chiude, che anche ciò che sembrava incoerente acquista senso, e si amalgama col suo sfondo.

Nonostante l’innegabile merito di una forma pulita e originale e di scorci anche piuttosto affascinanti e immaginifici, l’opera scivola per certi versi in alcuni tropi narrativi di fin troppo sicura presa. Certo non si può non prendere in considerazione l’esperienza di Redaelli: come accademico e saggista si è occupato per molto tempo del rapporto tra letteratura e follia, e in preparazione alla stesura di Beati gli inquieti ha passato lunghi periodi a stretto contatto con i pazienti di un istituto psichiatrico di Lanciano. Inoltre, ha raccontato a più riprese1 che il libro è nato anche a partire da una serie di diari di veri pazienti psichiatrici, regalatigli da una conoscente. Certamente si può immaginare quanto debbano essere state genuine le testimonianze contenute in essi; è per questo che risulta tanto più spiacevole il fatto che nel libro di Redaelli questa genuinità sia ben poco presente.

A questo proposito, è curioso ricordare come Redaelli, per bocca del protagonista, scriva che la follia «è come la luna piena, più la guardi più ti attira più la trovi squallida»: tanto fulminante e veritiera come affermazione, quanto disattesa nell’effettiva costruzione del romanzo. Questo squallore non è visibile nell’opera: il lato della follia che risulta preponderante – e l’unico ad assumere una vera rilevanza complessiva – è quello del valore profetico della pazzia, col risultato paradossale di banalizzare l’approccio alla follia come se ad affrontarlo fosse qualcuno che l’ha incontrata soltanto tra le pagine dei libri.

Formalmente l’obiettivo dello scrittore è raggiunto: il movimento finale della forma che si chiude su se stessa è forse il maggior pregio e il tratto meglio riuscito dell’opera. Il secondo obiettivo che obbligatoriamente un’opera del genere si pone è quello dell’incisività del prodotto letterario, in primis a causa della pesantissima eredità che il tema della follia porta con sé: dalle origini omeriche della figura dell’emarginato sociale, che pur nella sua follia è profetico, al recente Bonfiglio Liborio di Remo Rapino, per citare soltanto alcuni casi. Il vantaggio di inserirsi nell’onda della nobile e antica tradizione di chi parla della follia è che si ha una scelta molto ampia di riferimenti a cui appoggiarsi e di spunti da cui partire; la sfida che si presenta allo scrittore, però, è quella di riuscire a far proprio questo tema con un’originalità che permetta alla sua opera di farsi strada nel magma degli altri prodotti letterari. Nel caso di Beati gli inquieti, questo obiettivo non si può considerare raggiunto: la possibile originalità di un discorso sulla follia risulta vanificata da un appiattimento che non è frutto di pigrizia, ma di una monodimensionalità, poiché l’autore finisce effettivamente per scivolare nel pensiero più gettonato e in un certo senso più comodo, quello secondo cui:

I matti dicono sempre una verità. Anche quando parlano di persone e cose che noi non vediamo, non sentiamo, che non esistono, proprio allora stanno dicendo una verità. I matti leggono l’anima. Quando ci guardano, non ci si può nascondere. D’un tratto dicono una cosa, magari assurda, non si sa che cosa c’entri eppure ci riguarda, parla di noi. Ci hanno visto. I matti spogliano. Non si può restare vestiti al loro cospetto.

Anche se in ultima battuta risulta ovvio che Antonio scrive che i matti dicono sempre la verità anzitutto perché ha un assoluto bisogno di crederci, i confini tra il pensiero dell’autore e il pensiero del protagonista su questo tema restano comunque sfocati, con l’effetto di una forzatura. È un topos letterario che conosciamo fin troppo bene, quello dell’emarginato sociale, dell’escluso, del pazzo che piomba addosso d’improvviso e urla una verità cristallina, evidentissima eppure non formulabile a parole da nessuno, se non da un folle; ed è proprio la presenza di una eredità così ingombrante che porta inevitabilmente a percepire i folli descritti da Redaelli come prodotti di una penna piuttosto che della realtà.

Se l’opera non convince del tutto, quindi, non è dovuto a difetti dell’aspetto formale né a una mancanza di armonia dell’intreccio, ma piuttosto all’assenza di un punto di vista assolutamente originale nella trattazione del contenuto, che avrebbe costituito, in questo caso, anche un salto di qualità.

Emma Cori

1 https://www.corrierenazionale.it/2021/03/06/redaelli-candidato-al-premio-strega-e-campiello/

In primo piano: un dipinto creato da Emma Cori, autrice dell’articolo.

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