“Macchine come me”: ritratto di famiglia con androide

Macchine come me, Ian McEwan
(Einaudi, 2019 – trad. di S. Basso)

978880624184GRAGarry Kasparov è un russo abbastanza famoso per essere uno dei giocatori di scacchi più forti di sempre. È stato campione del mondo, ininterrottamente, dal 1985 al 2000, e in un giorno del 1996, quando sembrava che non ci fosse nessuno sulla faccia della terra in grado di batterlo, gli hanno messo davanti un grosso scatolone che si chiamava Deep Blue: si trattava di un computer progettato dalla IBM per giocare a scacchi: la funzione per cui era stato programmato era quella di vincere.

Stessa scena; tempo e luogo diversi. Siamo nel 2016. Lee Se-dol, diciotto volte campione del mondo di Go, un gioco estremamente più complesso degli scacchi in termini di configurazioni possibili di mosse, si trova di fronte ad AlphaGo, una creazione di Google. Stavolta si tratta, all’apparenza, di uno schermo sottile – molto più compatto dell’antenato Deep Blue – che si limita a far apparire in silenzio le indicazioni su dove l’anonimo esecutore deve collocare le pedine. Questa storia è gemella della precedente e indovinare come vanno a finire è piuttosto facile.

L’elemento a mio avviso più importante, più che il prevedibile finale, è una certa atmosfera: quella precisa sensazione di terrore che si prova al cospetto della volta celeste, di notte, in una spiaggia deserta – o più in generale di fronte a tutte le cose più grandi di noi, che non siamo in grado di controllare e talvolta neanche capiamo. L’incredibile fascino, per niente tecnico, del tutto umanistico, provocato dall’idea che ci possano essere entità superiori all’uomo, menti più vaste, capaci di arrivare autonomamente laddove noi abbiamo sempre fallito.

È questa la prospettiva che emoziona i fanatici dell’intelligenza artificiale – e c’è da dire che allo stato attuale si tratta di una previsione che appartiene ancora alla fantascienza: nel caso di Deep Blue e di AlphaGo, infatti, stiamo parlando di intelligenze di settore, in grado cioè di fare una sola cosa – in modo inarrivabile, superando di gran lunga le migliori facoltà umane, ma pur sempre solo quella cosa. Se si chiedesse a uno dei due di risolvere un indovinello o di scrivere un haiku non sarebbero in grado di farlo. Questo significa che siamo ancora lontani da una intelligenza artificiale generalista, in grado cioè di fare uno svariato numero di cose insieme, dotata di coscienza e autonomia di pensiero.

Dotata magari di sentimenti: proprio come Adam, l’androide sofisticatissimo di Macchine come me, del tutto umano all’apparenza fatta eccezione per l’iniziale incapacità di inserirsi con naturalezza negli schemi sociali e comportamentali umani: peraltro sensibilmente raffinata nel corso delle pagine grazie al cosiddetto machine learning. McEwan colloca questa creatura straordinaria in un passato ucronico, negli anni ’80 immaginari in cui Alan Turing è vivo, i Beatles suonano ancora e il Regno Unito perde la guerra delle Falkland (con tutte le dovute conseguenze su ogni piano, a partire da quello tecnologico fino a quello politico).

È un modo meraviglioso per trattare la questione: quello di non lanciarsi in grossolane previsioni del futuro – cosa che forse non sarebbe neanche alla portata di un narratore, per quanto colto e sofisticato come McEwan – ma di limitarsi a rielaborare il passato, a ricalcolarlo a partire dalla domanda su cosa sarebbe successo se fosse andata così. Il risultato è una storia dalle atmosfere particolarissime, inimitate, che nella sua stranezza si va a collocare molto bene nel continente narrativo di McEwan: chiunque abbia letto almeno un suo libro riconoscerà la sua impronta sin dalla prima pagina.

Non mi verrebbe tuttavia da consigliare questo romanzo a un appassionato di intelligenza artificiale. Qui le tematiche ben note a chi si occupa della questione sono presenti tutte – a partire dalla domanda: dobbiamo considerarli esseri umani?, cui peraltro McEwan dà una risposta, come suo solito, per nulla scontata. Tuttavia ho avuto la sensazione che la maggior parte delle problematiche principali fossero affrontate in modo un po’ didascalico, prendendo semplicemente ciò che gli esperti oggi dicono e riducendolo in narrazione. Si potrebbe tranquillamente leggere questo libro in modo antologico, come una guida in forma romanzesca di tutto ciò che c’è da sapere: sicuramente una modalità semplice, per chi non è al corrente, di aggiornarsi; per chi già sa, una ripetizione.

Il vero potere di questa storia sta piuttosto in un’altra caratteristica essenziale, e cioè la non scontata distanza che prende dalla fantascienza tradizionale. Questo non solo si vede dal fatto che il racconto sia ambientato nel passato e non nel futuro. Soprattutto, si vede dalla piega sorprendentemente intima, domestica: il replicante Adam si inserisce nel bel mezzo di una coppia nascente, diventa parte attiva del sentimento proprio come in un qualsiasi triangolo amoroso. Si tratta, a ben guardare, più che di un romanzo sull’intelligenza artificiale, di un romanzo d’amore con in mezzo una macchina: con tutte le conseguenze grottesche, inquietanti, tragiche e comiche del caso. Una via di mezzo tra Amsterdam e Chesil Beach, due pilastri (rispettivamente: il più acido e il più soffuso) di McEwan, che con il tempo dimostra di non aver esaurito le carte in mano.

Pierpaolo Moscatello

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