When the Rain Stops Falling, Andrew Bovell
(Luca Sossella Editore, 2019 – trad. M. Mauro)

I titoli in genere sono delle promesse, e When the Rain Stops Falling rispetta a pieno le promesse insite nel suo titolo. Aver lasciato il nome inglese nella traduzione potrebbe sembrare una mera questione di moda. Tuttavia, credo che qui si tratti piuttosto di una questione di rispetto nei confronti del senso originario – il verbo potrebbe tanto essere tradotto al presente quanto al futuro: When the Rain Stops Falling non promette solo di dirci cosa succeda quando la pioggia smette di cadere, ma anche quando smetterà di farlo. Ci si potrebbe chiedere perché l’autore non sia ricorso a un più comodo “When It Stops Raining”, ma nel testo del drammaturgo australiano Andrew Bovell la pioggia che accompagna i gesti degli attori, metafora del tempo e del suo ripetersi, è essa stessa motore dell’azione, personaggio che agisce al pari se non al di sopra degli altri.
Quella narrata in When the Rain Stops Falling potrebbe essere definita a pieno titolo una saga familiare. Le vicende dei Law e degli York spaziano all’interno di ben quattro generazioni, in un arco di ottant’anni (1959-2039) e in un’area geografica che va da Londra all’Uluru. L’albero genealogico che all’inizio del libro raffigura i rapporti tra i membri della famiglia ricorda, seppure in piccolo, lo schema esemplificativo con cui si è costretti a fare i conti quando si intraprende la lettura di Cent’anni di solitudine: nomi che ritornano, figli che prendono il nome dei padri, e intricate storie nascoste dietro quei nomi di per sé muti.
Il testo di Bovell propone una riflessione sulle conseguenze delle incomprensioni familiari, sul tempo nel suo ripetersi e sul passato nel suo ripercuotersi sul presente. Ma la vera e propria particolarità di questo copione teatrale, vincitore in Italia del Premio Ubu 2019 per il miglior nuovo testo straniero, sta nella sua struttura. La ricostruzione degli eventi che legano tra di loro Law e York non si dispone secondo un ordine puramente cronologico. Al contrario, Bovell slitta all’interno della propria storia con l’abilità di un dio onnisciente, viaggiando avanti e indietro sulla linea del tempo e da una scena all’altra, con una sorta di formula magica che d’improvviso trascina con sé il lettore in una situazione diversa – «e ci troviamo in:».
A fronte del doppio svantaggio di complicare comprensione e rappresentazione e di creare una certa distanza emotiva tra il pubblico e i personaggi, questa scelta drammaturgica porta anche il doppio vantaggio di essere motivata e di essere funzionale. Ben lungi dal voler mettere in scena un semplice espediente ad effetto, Bovell ha saputo realizzare un meccanismo narrativo che trae la propria forza e la propria ragione d’essere dall’associazione libera, da quella transizione tra due idee non immediatamente correlate che la stessa Gabrielle York definisce, con un termine musicale, un “segue”. In When the Rain Stops Falling non ci sono falshback o flashforward, ma un piano di narrazione che obbedisce a regole diverse da quelle più comuni.
Questo piano di narrazione permette a Bovell – abilità rara – di imbastire una rete di livelli tematici che va al di là della superficie del testo: il nucleo della pièce non si nutre della parola come questa si mostra nei dialoghi e nelle scene, ma delle associazioni che ne scaturiscono, ovvero si arricchisce di ulteriori spunti tramite quel sistema di associazioni libere su cui si regge l’intero funzionamento dello spettacolo. Se il fascino di una simile struttura risiede nel potere di trattare argomenti ordinari in maniera originale, la sua funzione ha un riscontro persino tra gli stessi argomenti che essa tratta: i continui andirivieni da una generazione all’altra, contrari a ogni legge temporale, rammentano la costante presenza del tempo e del suo reale agire nelle esistenze nostre e dei personaggi.
Di fatti, alla stregua di quanto avviene nelle Time Plays di J. B. Priestly, si potrebbe dire che il vero protagonista di When the Rain Stops Falling sia il tempo. Quest’ultimo entra in scena sotto le sembianze di una pioggia continua, torrenziale, simile ai diluvi perenni che si abbattono sulla città di Macondo. La pioggia è l’unico personaggio a non abbandonare mai il palco. Forse proprio per questo sarebbe facile identificare in lei quel narratore onnisciente che permette a Bovell di giocare a suo piacere con la linearità della vita. I Law e gli York invece non hanno il dono dell’onniscienza e, inconsapevoli dei risultati delle loro azioni, si adattano alla ripetitività del tempo – atmosferico e non – e si limitano a ripetere di generazione in generazione parole, gesti, errori, nonché, come già detto, nomi.
Le parole si organizzano in una sorta di “lessico famigliare” che riaffiora sulle labbra dei personaggi quando i rapporti tra di loro si guastano o si riallacciano dopo anni, e la conversazione si svuota a causa del troppo che vorrebbero dirsi senza avere il coraggio di farlo. I gesti quotidiani, come imbiancare o preparare una zuppa di pesce, prendono il valore di rituali catartici, la cui configurazione completa apre e chiude il testo. Gli errori infine vanno di pari passo con il ruolo familiare che ciascun personaggio riveste. Quello di padre, ad esempio, si materializza nella metafora di un cappello – quel cappello che il capostipite dei Law riceve quasi per caso e che il marito di Gabrielle York perde continuamente.
E alla fine, quando genitori e figli si riavvicinano e rimediano ai propri sbagli, quando cioè finalmente la pioggia smette di cadere, il passato si è fatto talmente pesante sotto la pressione di così tante incomprensioni da essere ormai irrecuperabile, rotto per sempre: nell’ultima scena l’ennesimo figlio di turno si vede porgere una valigia carica delle memorie di ottant’anni di famiglia, oggetti che solo il lettore-spettatore conosce. E tuttavia la vita ricomincia, sembra dirci Bovell nel suo messaggio di speranza: non sarà il maltempo, non saranno le avversità a impedirci di parlare, di dirci quel troppo che bisogna affrontare per non perdere i rapporti.
When the Rain Stops Falling è un testo che pare difficile poter rappresentare a teatro in mancanza di una regia particolarmente capace, a causa della sua struttura complicata. Un testo complesso, i cui dettagli potrebbero sfuggire se non si avesse la possibilità di voltare la pagina e cercare spiegazioni in quelle precedenti. Eppure, nonostante il procedere un po’ macchinoso della sua opera, Andrew Bovell riesce con la facilità di un linguaggio quotidiano e schietto a comporre un gioiellino della drammaturgia contemporanea – nella forma, un inno al potere immaginativo del teatro; nella sostanza, un’analisi profonda, poetica e insieme ragionata, articolata in tutte le sue sfaccettature.
Elisa Ciofini