Una fede cieca: intervista a Giorgio Fontana

Prima di noi, Giorgio Fontana
(Sellerio, 2020)

11152-3Dopo dieci anni di ricerca e scrittura è finalmente uscito il nuovo romanzo di Giorgio Fontana: si chiama Prima di noi, è lungo novecento pagine e racconta la storia di una famiglia, i Sartori, dalla prima guerra mondiale fino ai giorni nostri. Tentare di riassumerlo in poche righe è impossibile; posso dire però che mi è piaciuto abbastanza da infilarmi in una sua presentazione al Circolo dei Lettori di Torino. Mi sono messo in coda per gli autografi, cercando di essere l’ultimo, e ho trovato il coraggio di chiedere a Giorgio di concedermi un’intervista: come risposta, mi ha scarabocchiato la sua mail personale sulla prima pagina del libro. Quella che trovate di seguito è la nostra conversazione via mail, durata circa una settimana – naturalmente non sarebbe stata possibile se Giorgio non fosse la persona disponibile e gentile che è.

PM: Partirei con una questione preliminare. Prima di noi è un grande contenitore di personaggi e di intrecci; soprattutto è un romanzo estremamente visivo. Ti è mai venuto il dubbio, durante la fase di costruzione, che invece di un romanzo avrebbe potuto essere una serie tv? In un’epoca in cui gli strumenti a disposizione di un narratore sono così tanti è legittimo chiederselo: domandarsi quali sono le specifiche del romanzo, perché stiamo dando a quella storia proprio la forma del romanzo.

GF: Mai, nemmeno per un istante: io sono un romanziere e ragiono da romanziere; e quando ho cominciato a pensare a Prima di noi, forma e contenuto sono stati fin da subito assolutamente inscindibili. Non avevo tutto chiaro in testa, certo, ma avevo già un’idea del fraseggio, del respiro, delle dimensioni: nulla che potesse essere contenuto nello spazio di un soggetto. Mi suona strano anche specificarlo, perché per me è un’ovvietà. Prendo un caso differente: Lamiere, un reportage a fumetti scritto a sei mani con Danilo Deninotti e Lucio Ruvidotti, non poteva che essere un fumetto: anche qui lo strumento formale non è stato aggiustato a posteriori all’idea. Diciamo che non riesco a ragionare in termini di storia separata dalla sua veste: e la veste con cui mi trovo più a mio agio, che abito da sempre, insomma la più “mia”, è senz’altro quella del romanzo.

Ciò detto, la domanda generale sulla specificità del romanzo è quanto mai opportuna. Perché ancora il romanzo? Ha senso scrivere ancora romanzi? In un intervento al Festivaletteratura di Mantova 2018 (poi pubblicato su Doppiozero) ho provato a ragionarci sopra; so che è un po’ spiacevole citarsi, e me ne scuso, ma non saprei come porre meglio la questione sollevata: “Non sfidare altre forme sul loro campo; non scrivere romanzi che “sembrano un film” o “ricordano le migliori serie televisive” (stilemi che attecchiscono in molte recensioni). E perché mai dovrebbero? Il testo letterario – proprio come ogni altro testo – richiede un livello di tecnica e conoscenza che non si improvvisa; è una macchina muta, senza visione e senza sonoro: e proprio per questo obbliga a immaginare, e insieme consente uno straordinario allargamento del proprio immaginario (e se c’è un tema urgente è proprio la restrizione del nostro immaginario).

PM: Però scrivere romanzi oggi implica indubbiamente una certa dose di coraggio. Ricordo che Marco Mancassola, in un incontro alla Scuola Holden di alcuni anni fa, disse che scrivere narrativa non gli portava niente, se invece fosse andato in porto un certo progetto di serie tv che aveva nel cassetto avrebbe cambiato casa a Londra. Non dobbiamo misurarci anche con questo? Tra l’altro una cosa simile l’ho sentita dire anche a Stephen Amidon: la letteratura aveva iniziato a pesargli; leggeva solo classici, mai nuove uscite, e piuttosto che scrivere preferiva lavorare alle sceneggiature insieme a Paolo Virzì. Tu invece hai scritto Prima di noi, che ti è costato un enorme sacrificio in termini di tempo e fatica, e sembra un atto di fiducia nella letteratura. Da dove ti viene questa fiducia? Non ti capita mai di sentirla affievolirsi?

GF: Credo che i due piani vadano distinti, benché non sia sempre facile farlo. Da un lato c’è una questione materiale – la letteratura può cambiarmi la vita dal punto di vista economico? – e dall’altro una questione artistica o formale – ha senso scrivere ancora letteratura oggi? Non sottovaluto minimamente la prima (tant’è che non ho mai pensato di campare scrivendo solo narrativa); dico solo che a mio avviso è bene non confonderla con la seconda: dopotutto facciamo molte cose che non hanno tornaconto, per amore o per interesse o perché semplicemente ci crediamo. Credo non ci alzeremmo nemmeno dal letto se ragionassimo in termini di puro ritorno sull’investimento.

Da questo punto di vista, no: non sento mai affievolirsi la mia fiducia nella letteratura in quanto tale. Posso dubitare delle mie capacità come scrittore, ma non della letteratura; e benché indubbiamente Prima di noi mi sia costato molto tempo e molto lavoro, non parlerei di sacrificio. Non ho sacrificato nulla per farlo; ho usato le mie forze proprio come ho voluto. Poi ovvio, resta una decisione individuale, e che si trascina dietro tanti altri fattori – non voglio ergermi a difensore di nessuna purezza artistica: soltanto, da qualche parte dobbiamo tracciare un confine. Quanto alla questione formale, si torna al punto di prima: io ho fede nel romanzo perché sono un romanziere, perché ci sono cresciuto dentro ed è la mia forma prediletta. Sarà anche una fede cieca e irriflessa e ignara dei tempi, ma quale fede non lo è?

PM: A tal proposito, mi viene in mente una cosa che fai scrivere a Gabriele Sartori in una recensione, nella parte degli anni ’30: che “un romanzo dovrebbe aspirare alla bellezza soltanto”. Mi sembra che stiamo parlando proprio di questo, di fede nella bellezza: da intendere nel senso più alto possibile – la bellezza in quanto tale non dà alcun tornaconto tangibile. Ma lo stesso Gabriele deve misurare la sua fede letteraria con un fattore concreto, e cioè la limitatezza del talento. Nel suo caso – senza anticipare troppo – questo talvolta genera frustrazione. Come lo vivi tu il rapporto tra fede e talento?

GF: Correggerei un poco il tiro dicendo che la bellezza può come non può dare tornaconti tangibili: dipende dal contesto sociale in cui un’opera è inserita, e da moltissimi altri fattori (Victor Hugo vendette un sacco di copie dei Miserabili, che è senz’altro un romanzo magnifico). Quanto alla questione del rapporto fra fede e talento: non ho mai pensato di avere un grande talento. In generale cerco di pensare il meno possibile alle capacità innate, perché preferisco concentrarmi sul lavoro quotidiano. Su quante cose ancora non vanno nella mia prosa. Il mio unico obiettivo è scrivere meglio, spostare l’asticella ogni volta un po’ più in alto: questo mi porta inevitabilmente a scontrarmi di continuo con i miei limiti – limiti che però mi rispediscono al lavoro. Certo, anch’io vorrei poter scrivere come Proust. Ma non sono Proust: mi tocca provare a essere una versione migliore di me stesso.

PM: Quali sono queste cose che non vanno nella tua prosa?

GF: È un discorso assolutamente privato.

PM: Tornando a Prima di noi, una delle cose che mi sono piaciute di più è il fatto che il romanzo inizi con un personaggio e finisca con un altro. A pagina uno empatizziamo con Maurizio Sartori, ma è chiaro che la sua centralità è destinata a svanire: lascerà il posto ai figli, che lasceranno il posto ai nipoti, che lasceranno il posto ai bisnipoti. Questo passaggio di testimone è sostenuto da una serie di espedienti narrativi e tematici che cuciono tutte le vite in un unico flusso assolutamente naturale – a posteriori, secondo me, si può dire che l’esperimento ti è riuscito alla perfezione. Ti è mai capitato però, nel corso delle varie stesure, di avere un momento di totale sfiducia? Di renderti conto che stavi cercando di mettere troppa carne a cuocere? Come l’hai superato?

GF: Ti ringrazio. Sì, eccome: ci sono stati diversi momenti di sfiducia, nel corso di tutti questi anni. Ne ricordo uno in particolare, l’unico davvero critico e che mi ha tenuto bloccato per un po’: poco oltre la metà della prima stesura, ho percepito davvero l’entità del lavoro – la sua lunghezza, il rischio che la storia mi si disfacesse tra le mani perdendo unità (senza unità narrativa e stilistica sei perduto), per non parlare delle imprecisioni che avevo lasciato indietro, e più in generale l’audacia del progetto. Mi sono proprio chiesto: “Ma cosa stai facendo?” Era come trovarsi a metà dell’attraversamento di uno stretto di mare, con i muscoli che cominciano a dolere: andare avanti o tornare indietro sembra equamente impossibile. Poi ho ricalibrato le forze e capito come proseguire.

PM: Finora avevi scritto romanzi piuttosto lineari e brevi. Superato questo stretto, pensi che il tuo approccio alla scrittura possa essere mutato? Alla fine, immagino che ogni libro che scrivi in qualche modo ti cambi: in che modo ti ha cambiato Prima di noi?

GF: Non so davvero. Da un lato il mio approccio generale alla scrittura è sempre lo stesso,  identico da sempre. Tuttavia Prima di noi mi ha cambiato molto, perché non mi ero mai confrontato con una tale dimensione e un tale respiro; ho imparato tantissimo scrivendolo, ma non credo mi verrà spontaneo concepire strutture simili in futuro. Forse sì, forse no: dipende sempre dalla storia: e in generale mi piace lasciare tutto aperto. Di certo è che ne sono uscito sfinito, e sarà necessario ripensare tante cose dopo questo libro – in termini linguistici e di immaginario.

PM: Parlando di cambiamenti, una cosa evidente rispetto al dittico della giustizia è uno spostamento dal pubblico al privato: prima Doni e Colnaghi, due magistrati che si trovano davanti a importanti dilemmi morali, poi i Sartori, che in qualche modo sembrano (parafrasando uno dei capitoli del romanzo) voler scappare dalla Storia: un disertore, uno che non è stato partigiano, una che non è stata anarchica. Come mai questo cambio di prospettiva?

GF: In realtà le cose sono più complesse: ad esempio, Eloisa è stata anarchica eccome – ma poi cambia idea, e comunque milita nei Radicali; e Renzo non è stato partigiano, ma poi si impegna in prima persona e a lungo nel PCI e nel movimento sindacale. In generale, penso ci sia un rapporto dialettico fra l’adesione alla e la fuga dalla Storia, a seconda dei personaggi e a seconda dei momenti (sia personali che storici: durante la Seconda guerra mondiale la Storia pesa di più che negli anni Dieci di questo secolo). Però è vero che rispetto al dittico della giustizia c’è una maggiore fluidità fra pubblico e privato, e che in Prima di noi l’elemento personale ed “esistenziale” ha un valore più forte. Credo dipenda anche dal diverso uso del tempo: l’azione di Per legge superiore si svolge in pochi mesi; e non molto di più durano le due aree temporali indagate in Morte di un uomo felice. Qui invece ho potuto seguire per la prima volta i personaggi dalla loro nascita alla loro eventuale morte: il campo delle loro possibilità (e delle loro mutazioni) si è allargato considerevolmente.

PM: Una cosa in cui non sei cambiato, anche rispetto al dittico: Milano, Saronno. Ti senti in qualche modo in dovere di raccontare i luoghi che conosci bene, o è più una questione di comodità? È più difficile o più facile rendere letterario un luogo in cui abbiamo vissuto a lungo?

GF: Un po’ tutte le cose insieme. Credo soprattutto siano luoghi adatti ai personaggi che amo raccontare; inoltre sono spazi che conosco bene e dei quali ho potuto sperimentare le storture e le bellezze (nel caso dell’hinterland, davvero poche). Ma per l’appunto qui c’è una difficoltà ulteriore, che va a scontrarsi con il trito luogo comune dello “scrivi di ciò che sai”: spesso diamo per scontati i luoghi dove abbiamo vissuto, pensando che – proprio perché “li sappiamo” – non necessitino di ricerca o approfondimento. Al contrario: per certi versi è stato più complesso scrivere della Milano contemporanea rispetto alla Udine degli anni Trenta. In entrambi i casi occorre la medesima cura.

PM: E sulla questione del dovere? Perché senti di dover raccontare com’è e com’è stata l’Italia? E soprattutto – al di là della pura bellezza di cui parlavamo prima – speri che serva a qualcosa?

GF: Non sento affatto di dover raccontare com’è o com’era l’Italia: la mia narrativa non funziona così, non ha altri fini se non le singole esistenze immaginarie messe in gioco. Poi lo sfondo storico che sta alle loro spalle è senz’altro importantissimo, ed è inevitabile che si intersechi con esse o che alla fine del libro il lettore si ritrovi ad avere attraversato quasi un secolo della nostra storia; ma ripeto, non è il fine primario e non sono partito a scrivere dicendo “Devo raccontare l’Italia”. Anche in tal senso non ho speranze di qualche tipo che non siano legate alla specificità del testo romanzesco.

Pierpaolo Moscatello

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