Senza sangue, Tito Faraci e Francesco Ripoli
(Feltrinelli Comics, 2019)
«Nella campagna, la vecchia fattoria di Mato Rujo dimorava cieca, scolpita in nero contro la luce della sera. L’unica macchia nel profilo svuotato della pianura. I quattro uomini arrivarono su una vecchia Mercedes. La strada era scavata e secca – strada povera di campagna. Dalla fattoria, Manuel Roca li vide.»
Fin dalla prima pagina, fin dalle prime righe (quelle riportate qui sopra) si percepisce chiaramente come lo stile adottato da Baricco in Senza sangue (Rizzoli, 2002) sia virtuoso, sì, ma anche lucido, essenziale. Con poche parole, lo scrittore dà vita a immagini che appaiono limpide nella nostra mente; in certi passaggi del libro sembra davvero di star leggendo una qualche forma di sceneggiatura. Può darsi che Tito Faraci abbia pensato esattamente questo quando si è trovato tra le mani il breve romanzo dello scrittore torinese, dal momento che ha deciso di trarne un fumetto pubblicato nel 2010 da Edizioni BD e poi riproposto nel 2019 in una nuova veste per Feltrinelli Comics (collana di cui Faraci stesso è curatore).
L’ossatura della storia rimane inalterata rispetto al romanzo di partenza (e al precedente progetto per Edizioni BD), così come gli eventi narrati: perciò concedetemi una maggiore leggerezza nel trattare gli spoiler. Il fumetto è sempre diviso in due capitoli, uno e due, ed è ambientato in un tempo imprecisato e in un imprecisato paese ispanico appena uscito da una imprecisata guerra (civile?). Nella prima metà dell’opera ci troviamo nella vecchia fattoria di Mato Rujo, dove Manuel Roca si rifugia con i figli. Manuel è braccato. Alcuni uomini lo inseguono per fargli scontare la pena per i crimini commessi durante la guerra. La legge è quella del taglione: Roca ha ucciso e deve essere ucciso. Così, Nina, figlia di Roca, assiste al massacro del padre e del fratello, ma riesce miracolosamente a salvarsi.
La seconda metà si svolge invece svariati anni dopo: Nina è una donna che si affaccia alla vecchiaia e rintraccia l’anziano Tito, al tempo uno dei giustizieri del padre. Nina e Tito si incontrano e parlano, come se fossero amici di vecchia data. Ripensano al passato, ciascuno con la propria versione dei fatti. Anche in questo caso, come pure nell’opera originale, emerge un elemento cardine della narrazione, vale a dire il significato (e l’importanza) della verità. Manuel Roca viene accusato di crimini atroci da parte dei suoi nemici, ma lui nega; così, il passato raccontato da Nina è diverso da quello che Tito conosce. Ogni evento viene visto sotto luci diverse e da diversi punti di vista: la prospettiva cambia continuamente dando origine a un moto vorticoso di incertezze.
Il racconto non ha una collocazione spazio-temporale precisa, e non potrebbe averla per sua stessa natura: l’intera storia si regge su un’architettura narrativa composta di allusioni e illusioni, di chiacchiere tramandate di bocca in bocca, di bugie (dette agli altri e anche a se stessi per evitare la verità). Si diceva, appunto, come sia fondamentale il ruolo della verità nell’opera: è vero, ma nel senso dell’assenza della verità stessa. Gli autori (sia Baricco, sia Faraci e Ripoli) non mostrano mai al lettore i fatti cruciali dell’opera, quelli che risultano essere fondamentali per i personaggi: per certi versi, sembra di rileggere in alcune righe La valle dell’Eden di John Steinbeck, romanzo in cui le svolte principali non vengono mai messe nero su bianco, perché il capitolo si conclude un istante prima che queste avvengano.
Giocando con le ellissi, con il non-detto e con le ricostruzioni a posteriori dei fatti, Baricco (prima) e Faraci e Ripoli (poi) riescono a creare una realtà nebulosa, contemporaneamente concreta e leggendaria. Il ragionamento non si incentra tanto sulla ricerca di una verità, o di una giustizia, o di una morale, quanto sulla percezione delle bugie. Il mondo tangibile crolla e rimangono solo personaggi, uomini, figure che si aggirano su un palcoscenico spoglio, ciascuno rifugiato nel guscio delle proprie idee e convinzioni, false o meno che siano.
Faraci e Ripoli danno vita a un adattamento anche fin troppo fedele: nelle 80 tavole che compongono il fumetto vengono seguite le orme di Baricco osando ben poco: raramente gli autori si concedono dei fuoripista. Il capitolo uno è forse più facile da tradurre a fumetti e, infatti, risulta estremamente valido: le vignette si susseguono senza sosta in una struttura che richiama per certi versi la prosa di Baricco; in generale, al di là della fedeltà allo stile dello scrittore, ciò che appare evidente è una narrazione capace di mantenere una tensione palpabile, mantenuta per una buona parte dell’opera.
Il capitolo due è invece più confuso. La matrice di partenza è ben diversa rispetto alla precedente: sono pagine di conversazione, dominate da dialoghi e fugaci analisi introspettive più complesse da esprimere a fumetti. Faraci si discosta ben poco dal romanzo e, nonostante riesca in qualche modo a rielaborare la sostanza di quanto accade nell’opera originale, non arriva a esprimerne efficacemente il senso. I dialoghi messi in bocca ai personaggi non convincono (e appaiono più come un collage di quanto viene detto nel romanzo), inoltre anche il mostrare (per forza di cose) il passato raccontato sotto forma di immagini sottrae alla narrazione la componente illusoria cui si faceva riferimento poc’anzi – almeno, questa è la mia opinione personale.
Diamo a Cesare quel che è di Cesare: è opportuno, infatti, sottolineare la forte armonia tra testo e immagini. I disegni di Ripoli sono eleganti o sgarbati a seconda delle necessità: il tratto sottile e la mano morbida delineano figure dinamiche e volti espressivi, complice anche un utilizzo prezioso del chiaroscuro per mezzo di ombreggiature sfumate, che erano già presenti nella pubblicazione del 2010 e che sono state arricchite in questa del 2019 con una colorazione in campiture piatte dalle tonalità sbiadite: beige, giallo, ocra, grigio, blu sono i (pochi) colori che danno vita alle vignette, richiamando (e amplificando) efficacemente le atmosfere della storia.
Senza sangue è un’opera che si concentra sui dualismi, sul contrasto tra vero e falso, passato e presente, violenza e pace: è un leggiadro ballo di coppia. Nonostante queste caratteristiche, senz’altro apprezzabili, il fumetto risulta essere fortemente discontinuo. Nella prima parte tutti gli ingranaggi si incastrano e girano senza problemi, il ritmo è serrato e le immagini sono in perfetto equilibrio, pulite, efficaci, avvincenti. Nella seconda parte, invece, la tensione crolla e ci si perde in un flusso confuso di balloon e immagini: al di là del rapporto con l’opera originaria, si osserva proprio come le pagine conclusive siano dispersive e incapaci di focalizzare l’attenzione su un vero climax autonomo.
Non ho apprezzato particolarmente in romanzo di Baricco. Gli spunti di riflessione sul filtro della soggettività nella ricostruzione degli eventi e sull’impossibilità nella definizione della verità sono senz’altro stimolanti, ma oltre a questo non sono stato capace di entrare a fondo nella vicenda, di esserne coinvolto. Questo fumetto, purtroppo, al di là di alcune belle soluzioni narrative e visive (specialmente nel capitolo uno: apprezzabili i campi lunghi del paesaggio desertico o le scene della sparatoria), non mi ha comunicato nulla di più oltre a quanto già fatto dal libro; anzi, per certi versi mi ha trasmesso anche meno, nonostante le somiglianze. Una lettura senza dubbio scorrevole, che intrattiene per una buona mezz’ora, ma inefficace e incompleta.
Francesco Biagioli