“Il sistema del tatto” è l’immigrazione di una tribù piemontese

Il sistema del tatto, Alejandra Costamagna
(Edicola Ediciones, 2020)

Costamagna.ok_.1Ania è una ragazza cilena di origini piemontesi, da parte di padre. Un giorno, si ritrova a dover partire per l’Argentina per essere presente agli ultimi momenti del vecchio Augustìn. I due si conoscono: Ania era la chilenita che da bambina passava le vacanze nella località argentina di Campana, e leggeva sempre i libri che Augustìn prendeva in prestito dal suo amico Gariglio. Per Ania, il funerale di Augustìn è anche il riaffacciarsi del suo passato, che inevitabilmente la porta a prendere atto di un presente molto diverso da come lo immaginava.

«Se ne sono andati tutti» dice a un certo punto Gariglio, all’interno dell’ormai vuota e desolata casa di Augustìn. “Andarsene” è sia partire, emigrare, sia morire, “andarsene in cielo”, per usare l’eufemismo più diffuso per accennare alla morte di qualcuno. In Il sistema del tatto di Alejanda Costamagna gli eventi della partenza e della morte si confondono a vicenda. Augustìn muore, anzi si lascia morire, in Argentina, perché non trova il coraggio di andarsene, nonostante sia convinto che farlo sarebbe l’unico modo di sopravvivere a se stesso. Nelinda, sua madre, si uccide perché il dolore delle proprie radici italiane abbandonate è troppo forte. La piccola Ania rischiò la morte perché commise l’errore di calpestare il suolo argentino in quanto argentina, in un decennio (gli anni Settanta) di forte tensioni nazionalistiche tra i due Paesi – vedi la contesa del canale di Beagle e le isole lì presenti.

Ania, quindi, è il membro più giovane di una tribù fatta per lo più di fantasmi. Ha un ragazzo, Javier, ma sa di non voler figli. Suo padre invece si è risposato con Leonora, e le cose sembrano andare bene tra loro. In più, rinfaccia alla figlia di non voler “continuare” la famiglia, avere dei discendenti. Ania è di tutt’altro avviso: la sua famiglia allargata sembra aver scontato negli anni una disgrazia, una maledizione. Ogni suo membro presto o tardi finisce in pasto al mondo, disperso, sradicato: è una «genealogia difettosa», un sangue guasto già in partenza, che presto o tardi contaminerà anche nuove creature.

Un altro tema del romanzo è quello dei rapporti all’interno di questa tribù. Non è casuale, infatti, che tutti i personaggi siano stretti da rapporti di cuginanza, non di fratellanza. Ania e suo padre, Augustìn e sua madre Nelinda sono le relazioni più strette. La lontananza genealogica si fa anche geografica, fisica. Una distanza di migliaia di chilometri e mari e distese, tra l’Argentina, il Cile e il Piemonte. Una distanza che, se una volta viene percorsa via nave o aereo, può non essere superata dalle proprie emozioni. È quello che capita a Nelinda, personaggio implicito e oscuro del romanzo, nonché vero e proprio capostipite della tribù. Da ragazza, Nelinda è stata quasi costretta dai genitori a lasciare il Piemonte per emigrare in America Latina e sposare un uomo facoltoso. Le sue origini, così brutalmente compromesse, la tormenteranno per tutta la vita: nel cuore della depressione, una vacanza in Italia dai parenti la fa rinascere, ma il ritorno in Argentina la stronca di nuovo, portandola al suicidio. Dall’altra parte, invece, c’è il figlio Augustìn, che sente su di sé e sulla propria nascita la causa e la colpa della disperazione materna. Vorrebbe non essere nato, in modo da non costringere sua madre a stare in un Paese a cui non sente di appartenere.

I personaggi sono tutti emigrati, quindi, alle prese con la loro identità, i propri sentimenti, il proprio senso di appartenenza alla nuova realtà. La narrazione delle vite di Augustìn e Ania è inframezzata da degli estratti del Manuale dell’emigrante italiano in Argentina, una serie di norme di comportamento da tenere una volta emigrati: per strada si cammina solamente sui marciapiedi, per chiamare la fermata di un autobus c’è un determinato rumore da fare con la bocca, durante il viaggio è meglio non dare confidenza a nessuno per non finire truffati…; il documento esiste veramente, ed è conservato a Biella. In Il sistema del tatto, il documento contamina e completa la finzione.

Le pagine ospitano anche fotografie e lettere, reperti di emigrazione veri e propri, appartenenti alla realtà famigliare dell’autrice stessa. Questo fa sì che il romanzo respiri di più e prenda più forma e ritmo, controbilanciando lo stile fortemente impressionistico e psicologico dell’autrice: Il sistema del tatto è un libro che, più che raccontare, dipinge una famiglia dopo l’immigrazione.

Michele Maestroni

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