La barriera tra due mondi
Chiudendo un occhio sulla questione omerica, potremmo affermare che l’arte del racconto è nata in grembo a un cieco. In effetti nella letteratura di ogni epoca la cecità ha sempre mantenuto un canale privilegiato con la nozione di conoscenza. Nella cultura del mondo greco antico, questo rapporto si è manifestato in modo più accentuato, in virtù di alcune figure della tradizione che, nelle loro caratteristiche, hanno reso esplicito come la cecità costituisse il sigillo di una condizione di speciale contatto al confine tra due dimensioni, in particolare vita-morte e umano-divino.
La cecità in senso stretto, per la rappresentazione arcaica del cosmo quale sistema tendente all’equilibrio, poteva al tempo stesso compensare, come castigo, un errore, ed essere compensata dall’accesso alla visione, e quindi alla conoscenza, di un’altra realtà. Anche il sonno costituiva un’esperienza affine alla cecità. Sonno emorte, poesia e divinazione – come si vedrà, i due superpoteri dei ciechi – spesso comparivano in contesti di concomitanza. D’altronde, l’aggettivo “cieco” valeva al contempo per “invisibile”, come lo era il capo velato dei sacerdoti e dei morti. Senza contare che catabasi e negromanzia andavano il più delle volte a braccetto.
Questa mentalità prendeva le mosse dal bagaglio intellettivo che gli antichi premettevano al concetto di vista, strettamente connesso, anche da un punto di vista lessicale, con la conoscenza. La vista per i greci era in grado di cancellare la distinzione tra due entità diverse, di far crollare la barriera presente tra due mondi. Accanto a Dioniso, l’altro dio della visione trascendente era Apollo, dalla cui vicinanza dipendevano l’aedo e il mántis, l’indovino, due figure nel mito spesso cieche.
La preclusione dalla vista del mondo umano apriva le porte alla vista di una diversa realtà conoscitiva. Il processo di ispirazione, mantica e poetica, va inserito nel quadro di un’idea di passività degli stati d’animo: l’essere ispirato significava accogliere la visione concessa dal dio, significava avere il permesso di oltrepassare la barriera tra due mondi senza infrangerla e turbare l’equilibrio – un dono inestimabile. È ancora discusso con quale grado di affinità l’ispirazione del mántis e dell’aedo andassero accostate. Evidenziare le divergenze e le somiglianze sarà più facile di fronte all’esame di due personaggi nei quali arte mantica o poetica e cecità convivono e coincidono: l’indovino Tiresia e l’Omero della leggenda.
Una chiave per le tenebre
Due sono le principali versioni sulla cecità di Tiresia: la prima, oggetto de I lavacri di Pallade di Callimaco, vede Tiresia punito per aver osservato Atena farsi il bagno; la seconda, raccontata da Ovidio, vede Tiresia eletto a giudice di una lite tra Zeus ed Era, punito da quest’ultima per aver dato ragione al marito e compensato da Zeus con poteri divinatori.
Significativa è la disposizione che Ovidio ha dato al mito all’interno del terzo libro delle Metamorfosi: dopo la vicenda di Atteone, sbranato dai suoi stessi cani per volere di Diana vista non senziente, e prima della storia di Penteo, sbranato dalle Baccanti viste non senzienti, nonché ad apertura di un episodio, quello di Narciso, che concilia morte, illusione visiva e sonno – in greco narkhé, da cui il nome del personaggio. Tiresia fa la sua apparizione anche in Odissea XI, luogo letterario in inequivocabile relazione con la morte: dopo la catabasi agli inferi del protagonista, lo spirito dell’indovino profetizza ad Ulisse gli sviluppi del suo ritorno.
La figura di Tiresia trova ulteriori spiegazioni alle sue prerogative in un altro eminente cieco del mito, Edipo. Nella tragedia sofoclea il re di Tebe si toglie la vista, la vista “divoratrice” che ha forzato, ingannandolo, i limiti dei regolari rapporti familiari; in altre parole potremmo sostenere che per Edipo la conoscenza della verità ha sottratto concretezza al mondo delle apparenze, così reso invisibile, cieco. Edipo lascia la vista della realtà sensibile per quella della realtà intellegibile.
Qui Tiresia gioca una parte importante nel meccanismo di ironia drammatica che oppone il cieco vedente al vedente cieco. Ruolo, quello del vate non ascoltato, che diverrà topico del suo personaggio, e che gli varrà tanto l’ironia velatissima di Ovidio quanto il riso dissacrante di Dürrenmatt ne La morte della Pizia1.
Ad accogliere lo scherno del greco Luciano (Storia vera) è invece la questione della presunta cecità di Omero. Si pensa che un ruolo importante nella ricostruzione che gli antichi diedero della biografia del padre dell’epica l’abbiano giocato i suoi stessi testi, e in particolare le figure di aedi in essi presenti, tra cui il cieco Demodoco. È probabile che la cecità di Omero debba essere intesa come una prova della veridicità della sua narrazione e del suo rapporto diretto con la Musa: è lei a cantare, per bocca dell’aedo, i fatti di Troia, cui il cantore non ha potuto assistere con i propri occhi. Questa garanzia procurò a Omero la critica di Platone (Ione): non sono gli aedi a cantare, quindi non detengono alcun tipo di conoscenza pratico-empirica.
In sintesi, sembra che due siano le differenze alla base della distinzione tra aedo e mántis: la prima riguarda il grado di affidabilità del cantore; la seconda, semplificando un problema più complesso, interessa l’estensione temporale entro cui le due figure hanno libertà di movimento, per l’aedo limitata al passato.
Borges e Dante alla ricerca di un Aleph
Uno scrittore che a mio parere potrebbe risultare utile per comprendere gli sviluppi scaturiti consciamente o meno dalla medesima lente di osservazione della cecità è Jorge Luis Borges. Sebbene altri scrittori abbiano sofferto di problemi alla vista, penso a Joyce o a Hemingway, Borges è uno dei pochi, forse l’unico ad aver fatto della propria disabilità un vantaggio. Borges ritaglia alla nebbia dettata dall’infermità della vista, simile a quella del sogno, uno spazio dedicato nella poetica delle proprie autofinzioni. La cecità, attraverso la fantasia, apre uno squarcio nell’impenetrabile cortina che separa il letterato dalla comprensione dell’enigma che giace alla base dell’ordine caotico del mondo.
Nel racconto La biblioteca di Babele il mondo appare come un’infinita indecifrabile biblioteca, e Dio, il dio di Borges e l’oggetto di ogni ricerca borgesiana, altro non è che la letteratura, il libro dei libri – un sogno, appunto, sarebbe trovarlo. Ma la letteratura di cui Borges parla non è quella che si scrive. È quella che si legge, è la tradizione che riposa in uno scaffale sotto strati di polvere da prima che Borges nascesse e da sempre2.
Il fascino per la possibilità di una simile rivelazione avvicina Borges a un poeta che l’argentino stesso prese a ispirazione e amò al punto da considerarne l’opera un riflesso di quell’“opera totale” che tanto avrebbe voluto scovare tra i libri della Biblioteca nazionale di Buenos Aires: Dante Alighieri. Un racconto come L’Aleph straripa di taciti rimandi all’ultimo canto del Paradiso. D’altronde, il poema di Dante è il poema della vista, e di una visione eccezionale, che Borges paragona a un lungo sogno.
A Dante si rivela quel mondo “altro” che viene dopo la morte, invisibile nella nostra condizione presente. Dante condivide a modo suo i due aspetti che abbiamo riscontrato correlati nel mondo antico in concomitanza di visioni alternative a quella canonica degli occhi, l’arte profetica e l’arte del racconto orale. Anche Dante, infatti, per volere della divinità, scavalca lo steccato tra due dimensioni. Il suo viaggio segue le orme di Eracle e del “Vas d’elezione”: il primo ha sperimentato una catabasi, il secondo un accecamento3. Ma anche un altro personaggio fondamentale per la Commedia ha compiuto una catabasi: Enea, che agli inferi ha incontrato il padre cieco Anchise, profeta delle imprese di Roma – l’episodio è delineato sulla base del corrispettivo nell’Odissea.
Profezia e racconto si ripetono come motivi ricorrenti anche nella catabasi dantesca: i personaggi che Dante incontra sul suo percorso dispensano aneddoti e predizioni. Ma oracolo e racconto non scaturiscono dalla cecità dei narratori metadiegetici che Dante mette in scena. È Dante stesso che, sceso nelle tenebre, dà voce alla poesia e a un futuro che per lui è già passato. È Dante poeta e profeta della sorte del lettore.
Se Borges non necessita di catabasi alcuna, perché già immerso nei limiti sfumati del sogno, Dante si acceca per vedere di nuovo: la Commedia è un crescendo di luce, dalla “selva oscura” fino al sempiterno splendore delle sfere celesti. Ma al culmine della visione dantesca, ecco che le parole vengono meno alla capacità di descrivere. Il mistero rimane in parte mistero, ma esiste e perdura nel proprio fascino.
Altri mondi, altre società, stessi mondi, stesse società: nella distopia di Wells e Saramago
Queste due forme di cecità, catabasi e mistero del racconto, che convivono nell’opera di Dante e, in termini più sommessi, nell’opera di Borges, si ripresentano separate in altri generi di letteratura. Parlo di catabasi nel senso allargato di “passaggio” tra due realtà opposte, siano esse coesistenti su piani diversi o semplici variabili l’una dell’altra. Di queste due realtà una risulta visibile e accessibile a tutti, l’altra visibile e accessibile solo in seguito a uno scarto. Lo scarto è il viaggio, e il viaggio è la catabasi.
Questa prima tendenza ha avuto buona fortuna in ambito distopico. Un autore, tra l’altro apprezzato da Borges, che dedicò la sua produzione alla fantascienza e alla distopia fu H. G. Wells. L’interesse per l’esistenza di una quarta dimensione “invisibile” e residente soltanto nella nostra coscienza interiore lo spinse a scrivere La macchina del tempo e L’uomo invisibile. In effetti fra postulare realtà diverse e postulare dimensioni fisiche a noi ignote il passo è breve. A compierlo prima di Wells fu Edwin A. Abbott, con il racconto Flatlandia: una sfera introduce un quadrato all’esistenza della terza dimensione, invisibile a chi vive nella seconda. Il quadrato fallisce nel tentativo di diffondere la propria conoscenza tra gli abitanti della seconda dimensione, e viene considerato pazzo, unico vedente in mezzo ai ciechi.
Flatlandia presenta diverse analogie con il racconto Nel paese dei ciechi di Wells: l’andino Nuñez, in seguito a un incidente, si ritrova in una valle serrata tra le montagne, inaccessibile e insuperabile – ecco la realtà nascosta di turno, la destinazione della catabasi –, dove vive una popolazione ciechi: un mondo alla rovescia, che non crede nell’esistenza della vista. I ciechi vivono in un’altra dimensione rispetto a Nuñez, si servono dell’udito e del tatto dove a lui i due sensi non bastano.
In mezzo a tanti ciechi è lui a dimostrarsi il vero cieco, il “disabile”: se vorrà sposare la giovane di cui si è innamorato, dovrà amputarsi gli occhi. Nuñez opta per la fuga: il mondo dei ciechi sarà anche migliore del mondo del protagonista, ma meno umano, svuotato di immaginazione. Wells ripropone in maniera trasparente il mito della caverna: così i ciechi pensano la valle, come un’enorme caverna senza uscita o alternativa.
Si può invece leggere un indirizzo di marcata critica sociale in Cecità di José Saramago. Saramago, non diversamente da Wells, sfrutta un personaggio vedente per raccontare un’epidemia di cecità che di colpo ha ribaltato tutti gli schemi sociali. L’espediente di servirsi di uno sguardo straniato rispetto all’ambiente che lo circonda, raddoppia lo straniamento del lettore rispetto alla vicenda narrata, di per sé straniante: una cecità sui generis, non solo contagiosa, ma anche bianca.
Il colore dice tutto – questa cecità non è come le altre della letteratura, non ha niente di positivo. Non permette l’accesso a nessun tipo di verità; al contrario deriva dall’accecamento di ogni verità interiore. La flebile relazione che la cecità di Saramago intrattiene con il concetto di autocoscienza si basa sul fatto che essa ne rappresenti la più totale mancanza: la cecità smaschera soltanto una condizione di incoscienza preesistente.
Il mistero del racconto in Cattedrale
Se esiste un genere che ha fatto della “catabasi” un suo leitmotiv, esiste anche una corrente letteraria che ha orientato il proprio stile alla “cecità” del racconto. Parlo del cosiddetto minimalismo americano, che ha individuato nella narrazione breve il mezzo ideale per dare voce a personaggi capaci di raccontare, ma non di spiegare le proprie vicende.
Il “principio dell’Iceberg” di Hemingway pone l’autore verso i propri personaggi nella stessa posizione in cui era posta la Musa rispetto al proprio aedo: lo scrittore concede ai suoi personaggi di conoscere e quindi di raccontare molto meno di quanto egli stesso conosce e non esprime. Così facendo, una parte della storia resta implicita nel racconto, come la spiegazione dei fatti resta ignota ai personaggi che li hanno vissuti: l’implementazione di significato proviene dal lettore. Il minimalismo propone una narrativa di sottrazione, una narrativa in certo qual modo cieca.
Le raccolte di Carver abbondano di personaggi che, impegnati a raccontare aneddoti, storie, episodi, rimangono affascinati dal loro potere epifanico, ma anche incapaci di comprendere a fondo quale rivelazione epifanica questi portino con sé e perché la portino4. Alla luce di simili considerazioni, Cattedrale si dimostra un racconto sull’arte di raccontare, ovvero l’ossessione di Carver: far vedere ciò di cui sta parlando – in maniera semplice e lampante, senza spiegare niente. In Cattedrale ci troviamo di fronte a uno sviluppo lineare della trama: abbiamo un protagonista, cieco interiormente perché di vedute ristrette; abbiamo un cieco, impossibilitato a vedere ma di larghe vedute.
L’incontro tra i due sarà motivo di cambiamento per il primo: il cieco Robert farà compiere al protagonista un salto nel vuoto quando gli chiederà di chiudere gli occhi per continuare a disegnare la cattedrale. È il cieco a mostrare al protagonista cosa sia una cattedrale e in cosa consista la propria condizione di cecità. Potremmo altrimenti dire che è Robert l’unico, senza parole, e con occhi diversi da quelli del narratore, a saper raccontare una storia completa la cui completezza sia comunque del tutto implicita.
Sulla soglia della caverna
Al proposito delle opere passate in rassegna, si potrebbe azzardare un’ultima tesi basandosi sugli elementi che le accomunano per struttura. Tutte si reggono sul confronto tra due punti di vista, uno maggioritario e l’altro d’eccezione. Tutte trovano il proprio paladino in un personaggio privilegiato rispetto agli altri, sia esso cieco tra i vedenti o vedente tra i ciechi, che sperimenta il privilegio di fare esperienza dell’eccezione. Questo personaggio, accedendo alla realtà che gli viene rivelata, si scontra con la propria.
Ognuna di queste storie fa eco al mito della caverna di Platone: Omero e gli altri aedi della tradizione subiscono lo scetticismo di Platone circa la loro reale esperienza; Nuñez viene dato per pazzo; gli ammonimenti di Tiresia rimangono ignorati dall’ignaro Edipo; Edipo, così come la moglie del medico in Saramago, finisce per desiderare di perdere la vista di fronte all’orrore della verità; Dante è incapace di ricordare nel dettaglio la propria visione; Borges non può spiegare i grandi principi che reggono l’universo; i personaggi di Carver non possono spiegare le piccole rivelazioni nelle quali inciampano giornalmente.
Questa struttura bene si adegua alla narrativa perché in realtà riproduce ciò che avviene ad ogni lettore di fronte a qualsiasi opera di narrativa. Il lettore si trova sempre nella condizione privilegiata di sperimentare attraverso l’immedesimazione una realtà diversa dalla propria. Di fronte alla carta stampata, il lettore si acceca rispetto al mondo che lo circonda e cerca una rivelazione nel mondo invisibile che l’inchiostro e le parole sanno evocare nella sua fantasia.
Elisa Ciofini
1 Qui Tiresia figura come un impostore, finto indovino tanto quanto finto cieco.
2 Il Jorge ritratto da Eco ne Il nome della rosa può essere letto insieme come un omaggio allo scrittore e una critica alla sua figura pubblica. Eco dissemina il proprio romanzo di riferimenti e motivi borgesiani, la biblioteca, il labirinto, lo specchio, ecc. ma al tempo stesso rifiuta quell’idea di letteratura conservatrice, elitaria, scritta per essere incompresa che veniva comunemente associata al personaggio di Borges.
3 Per un altro esempio biblico di cecità, si veda Sansone. In genere l’accecamento, come è stato per Edipo e come è per Dante in Par. XXV di fronte a San Giovanni, segna un momento di passaggio, un’iniziazione a uno stato di vita diverso – per San Paolo, la vita cristiana, per Dante, il cui momentaneo accecamento è modellato su quello di Paolo, l’ennesimo gradino verso la purezza dell’anima.
4 La frustrazione che segue l’impossibilità di comprendere le storie proprie e degli altri ricorda la frustrazione che deriva dall’insuccesso della parola nel teatro dell’assurdo di Pinter e di Beckett – teatro, fra l’altro, popolato di personaggi ciechi, si vedano Pozzo di Aspettando Godot e Hamm di Finale di partita.
1 Comment