Dipingere l’assenza: su “Archivio del bianco” di Stefania Onidi

Archivio del bianco, Stefania Onidi
(Terra d’Ulivi Edizioni, 2020)

Un io-lirico che seduce con il vuoto, educa a uno sguardo puro sul niente, esplora le stanze della perdita; un “tu” che stringe il silenzio con i pugni, «accade fra le cinque e le sei», diventa un “noi” dal respiro diverso. Sullo sfondo un bianco (delle pagine e delle visioni) che non è solo elemento visivo ma anche sonoro, ritmico, è assenza di corpi, silenzio, gesto mancato. È un bianco antinomico che racchiude in sé il tutto e il niente, la pienezza e il nulla, come “el hombre” nei versi dell’anti-poeta per eccellenza Nicanor Parra posti a esergo di una delle sezioni del libro.

Così si presenta Archivio del bianco, libro di poesie di Stefania Onidi edito da Terra d’Ulivi nella collana “I granati”. Giunta alla quarta pubblicazione, Onidi ha aggiunto spessore e profondità alla propria voce poetica, che, come fa notare puntualmente l’amico-poeta Sergio Pasquandrea nella nota di lettura finale, è capace di dipingere versi dalla «bellissima evidenza visiva»:

«Alla fine di negano gli occhi
la scena si vuota
lei non ha un odore
rivestendosi si copre il seno con un braccio.
Lui invece è un feto.
Loro non si riproducono.
Nel cortile interno fingono.

Qui manchiamo il bersaglio tutti i giorni.
La tivù ci dà in pasto al silenzio.»

La voce dell’autrice è elegante, ricettiva del profondo e dell’esterno, terrigna ma allo stesso tempo eterea, appartata e solitaria, eppure capace di proiettarsi in una dimensione collettiva che genera empatia nei lettori. Il vivere sfuggente ma intenso è d’altronde caratteristica che ritroviamo in gran parte dei poeti contemporanei di origini sarde, da Antonella Anedda a Marcello Fois, da Roberto Portas a Rossana Abis.

Il libro è composto da 48 poesie divise in 5 sezioni i cui titoli rimandano prevalentemente allo spazio e al rapporto fra interno ed esterno («dentro e fuori», «a margine», «campiture», «tele e armature», «germogli e rivoluzione»). Non a caso scriviamo “libro” e non “raccolta”: Archivio del bianco non è un collage estemporaneo di testi poetici scritti in momenti sconnessi e nascenti da diverse necessità espressive, come troppo spesso accade nel cosmo della poesia contemporanea; rifacendosi ai grandi autori della poesia narrativa quali Rosselli, Montale e Pagliarani, Onidi dà vita ad una composizione coesa di poesie tenute insieme da una linea narrativa definita e coerente che certamente l’autrice aveva bene in mente fin dalla fase creativa e di stesura dell’opera.

L’elemento narrativo ruota intorno ai temi legati all’amore come esperienza di conoscenza della realtà, alle morti e alle rinascite, agli echi ineludibili della terra originale, allo scorrere del tempo che sbiadisce i ricordi. Si tratta dei temi tipici di quella lirica dell’esperienza diffusasi come dimensione poetica da Mario Benedetti in poi. Niente di nuovo dunque a livello tematico. La particolarità della poesia di Onidi è più che altro la frammentazione del flusso narrativo: non c’è un’unica storia ma diverse storie, accennate e poi interrotte sul nascere, ritornando d’accapo, come accade anche alle parole sulle pagine, spezzate attraverso i continui enjambement, prima che il verso possa circoscrivere il senso, lasciando spazio alla bianchezza del silenzio:

«Di questa casa che è solo un promemoria
la scenografia è neutra.
Dovrei appendere alla parete quella nostra foto
in cui sorridiamo.»

Le scelte formali sono tutte rivolte a rappresentare la complessità dell’esistenza, ricreando visioni che mantengono sempre al centro il senso dell’umano. La rottura (a tratti brusca) della versificazione accennata poco sopra, al contrario di come si possa credere, genera ritmo e distende il senso in termini diaforici, con ripetizioni di parole che assumono ogni volta un significato diverso. La scrittura è lirica e riflessiva, assoluta nell’immaginazione e nell’espressione, laddove per “assoluto” si intende il sinonimo pacificato di quel “maledetto” coniato da Paul Verlaine in Les poètes maudits (1884): il buio e il dolore celati in questi versi non sono astrazioni estetizzanti, provengono direttamente dalla vita vissuta come se chi scrive non potesse eludere il rischio costante della perdita di sé:

«Non eravamo sincroni
dovevi capirlo dai piedi
dai polsi dalla vena sul collo.
Dovevi guardarci.

Io chiudevo gli occhi per forzare la visione.»

Si può ravvisare un limite di forma nell’eccesso di retorica di alcuni passaggi. A tratti il flusso di coscienza non è scorrevole, i versi risultano troppo rimaneggiati nel tentativo di farli aderire con più precisione alle visioni e ai pensieri originali, a scapito della naturalezza.

Al di là dei valori e dei limiti, ciò che è particolarmente ammirevole in Archivio del bianco è, in fin dei conti, il tentativo profondo e riuscito di risolvere attraverso le parole la frattura fra realtà e immaginazione, affidando alla poesia una funzione normale, quotidiana, di comunicazione della propria esperienza e visione del mondo.

Emmanuel Di Tommaso

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