Brutale è il risveglio, Pascale Kramer
(Tunué, 2020 – trad. di L. Cisbani)
Il risveglio brutale di Alissa comincia più o meno una settimana dopo il suo trasferimento in un elegante residence con piscina, quando si rende conto di essere infelice. Eppure ha tutto quello che ha sempre desiderato: un marito giocherellone e attento, una casa tutta sua, e una bambina ancora piccolissima, di poche settimane, che dipende completamente da lei. Ha lasciato il lavoro perché è naturale così, e ora passa ogni istante della sua vita con la piccola Una, che sa solo piangere e poppare, mentre tutto attorno si sente il peso di un silenzio opprimente. A ventisette anni, Alissa realizza un passo alla volta che non desidera nulla di tutto ciò: non vuole davvero un marito giocherellone e attento, non vuole quella casa in un residence con piscina, e non vuole nemmeno Una.
Brutale è il risveglio racconta quindi l’immersione di Alissa in un oceano di dolore e insofferenza, dove i sogni trattati con superficialità, quei desideri che si danno per scontati, si trasformano in incubi proprio nel momento in cui non è più possibile tornare indietro. Lei non ha mai messo in dubbio il fatto di voler diventare madre, né di voler sposare Richard, l’uomo con cui ha condiviso il suo primo vero amore adolescenziale. Eppure, una volta che si ritrova sola con il peso inerme di Una tra le braccia e il desiderio di fuggire da tutto, Alissa comprende che tutto questo è una condanna da cui non può fuggire.
Nel suo romanzo, l’autrice francese Pascale Kramer mette in scena un’immagine terribile della maternità, descritta come una gabbia opprimente che toglie alla donna la possibilità di dimostrarsi triste o avvilita in virtù del suo nuovo ruolo sociale. La personalità di Alissa si presta bene a subire questo tipo di delusioni: sposarsi e diventare madre non è stato per lei il frutto di una scelta ponderata, né tantomeno il risultato di un’accettazione passiva, perché Alissa lo desiderava davvero con tutta se stessa, ma non si era resa conto per tempo che questo l’avrebbe costretta a crescere. Ha dato per scontato la stessa felicità che le persone attorno a lei continuano a ritenere ovvia e naturale.
Da allora si susseguono una serie di cocenti delusioni, quando Alissa si rende conto che non è più il centro dell’attenzione, che le persone si preoccupano più per Una che per lei, che l’amore di suo marito va condiviso con la piccola, che le amiche continuano la loro vita, che al lavoro hanno già assunto un sostituto, che sua madre non si prenderà più cura di lei, e che quella creatura ha bisogno di rimanere attaccata al suo corpo, al suo seno, alla sua salute mentale per sopravvivere. In altre parole, Alissa è una bambina costretta a diventare adulta con una doccia fredda da cui non è più possibile tornare indietro.
Il tormento della protagonista si espande tra le pagine in un vortice depressivo infinito. Siccome il punto di vista è sempre quello di Alissa, anche le azioni degli altri personaggi vengono interpretate da lei: è per questo forse che sembrano tutti crudeli, insensibili e a loro volta infelici. Eppure si percepisce tra le righe che non è davvero così, e che le persone che circondano Alissa provano una gamma di emozioni e sentimenti più ampia dell’odio represso che attanaglia l’anima della protagonista. Ci sono intere storie che non verranno mai raccontate, ma che le accadono intorno mentre lei è troppo impegnata ad autocommiserarsi: il nuovo amore di sua madre, per esempio, che ha deciso dopo anni di lasciare il padre; il rapporto controverso tra la sua timida amica Audrey e un reduce di guerra, o il mondo segreto di Richard da cui sua moglie è tagliata fuori.
Questi tasselli di vita dinamizzano la narrazione e rendono realistico il contesto in cui si alimenta la depressione di Alissa, che però rimane preponderante e totalizzante, fino a risultare a tratti ripetitiva. Sembra che tutto ciò che la circondi sia fonte di dolore, anche il dettaglio più insignificante, e questo dolore la sconcerta ogni volta, quasi non si aspettasse di poter continuare a soffrire sempre di più.
Eppure, più che la sofferenza di lei, al lettore sconcerta l’indifferenza degli altri. Le gravi disattenzioni di Alissa verso la figlia vengono prese con superficialità, mentre il suo evidente stato di depressione viene trattato come un momento di down destinato a sparire da solo. È questo il vero motivo per cui non si riesce a staccare gli occhi delle pagine: non il fatto che una madre possa non voler essere madre, ma che a nessuno gliene importi niente.
Anja Boato
La presunzione maggiore che possiamo avere nella vita è credere di essere a questa indispensabili mentre dovremmo ragionevolmente prendere atto e riconoscere che se anche non fossimo nati nessuno ci avrebbe cercati né, tanto meno, sentito la nostra mancanza.
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