Come se scrivere avesse un senso. Valentina Maini e la sua mischia

La mischia è l’esordio di Valentina Maini, pubblicato per Bollati Boringhieri. La vicenda – per quel poco che è possibile liofilizzare (e a fatica) in forme di sinossi, riassunti e punti salienti – è il rapporto di due fratelli, Gorane e Jokin Moraza, figli di due terroristi baschi. La mischia è stato definito in tanti modi: “esplosivo”, “folgorante”, “sorprendente”. Etichette che sarebbero perfette, se non fosse che cercare di definire in modo certo questo romanzo è un’operazione fuorviante nonché opposta alla natura dell’opera stessa. Proprio per questo, l’unico aggettivo che mi sembra che La mischia possa sopportare è “esondante”.

Prima del romanzo, hai pubblicato una raccolta di poesie, prediligendo la forma del frammento. La mischia, invece, è un romanzo elaboratissimo e di quasi 500 pagine. Mi viene da chiederti, quindi, come sei passata dalla poesia-frammento a un’opera così corposa, e quanto la forma poetica abbia influito (consciamente o meno) sulla forma di prosa.

Penso che quello che c’è da dire necessiti di un suo linguaggio, quindi in un certo senso è il contenuto che detta la propria forma. Con contenuto non intendo il messaggio, ovviamente, ma la spinta creativa, ciò che c’è da dire, appunto. Con Casa rotta, per quanto le questioni in ballo siano poi le stesse de La mischia o quasi, quella spinta era molto aggressiva e ancora oscura, per me. C’è molta rabbia in quel libro, una rabbia contratta. Le poesie riuscite di quel volumetto – sono pochissime – mi ricordano le scosse notturne di un corpo che sogna di cadere, che non vuole addormentarsi.

Quello verso La mischia non lo vedo come un passaggio, ma più come una nuova casa in cui ho deciso di stare. I ricordi dell’altra vita, delle persone che l’hanno abitata, del soffocamento che ho provato in quegli spazi restavano dentro di me, ma adesso avevo più respiro, potevo muovermi ad ampie falcate, visitare stanze che prima non avevo e appenderci qualche quadro. È anche una questione di casse di risonanza, credo. Quando mettevo su il disco, la musica riverberava in tanti luoghi e in modo diverso, come se ogni camera in fondo suonasse la sua, e anche la mia voce che cantava aveva una pasta più dolce, intensa o stonata a seconda di dove decidevo di mettermi a cantare.

Hai pubblicato anche dei racconti. Si dice spesso che pubblicare racconti su delle riviste sia una “palestra” o un “dojo” in cui allenarsi per poi arrivare alla pubblicazione. Il percorso (riguardo allo stile e alla natura dell’opera) che ti ha portata a La mischia passa per i tuoi racconti, oppure è indipendente da essi?

Per me scrivere è fuori dal tempo, accade che un giorno qualcosa ti intercetta e tu provi a restituirla così come l’hai sentita in quel momento. Può essere dopo anni, se riesci a tenere vivo il ricordo di quello che hai provato, a sentirlo tutti i giorni e in un certo senso ad addomesticarlo. Addomesticarlo significa non solo restituirlo, ma anche trovarne lo scheletro, l’ossatura, il movimento. Nessuna palestra per me. Mi giudicherai snob o ingenua, e forse suonerà tutto un po’ ridicolo, ma trovo questa idea dell’allenamento fuorviante, e comoda. Come se scrivere avesse un senso. Come se si acquisissero degli strumenti utili per il futuro e a un certo punto si diventasse “bravi”. Secondo me un libro è un evento, unico e irripetibile, ha molto più a che fare con chi sei, con chi ce l’hai, che cosa vedi, che cosa ti tocca, che con il tuo modo di girare le frasi; le giri, le rigiri perché sai bene cosa vedi e anche gli altri devono vederlo, devono testimoniare per te che quello spettro esiste e non sei pazzo, non devono lasciarti solo; non le giri perché a un certo punto hai imparato a farlo, perché ti sei allenato, perché ti hanno detto come si fa, perché così suonano bene, perché sei maturo. Questa è una balla che fa felici un po’ tutti perché è democratica: l’idea che ci sia un punto a cui arrivare, una gara per cui prepararsi, e che con la buona volontà si arrivi ovunque. Secondo me è tutto molto più casuale di così; un romanzo è una gran bella botta di culo. Poi certo, puoi fare in modo di non sprecarla.

Ho sempre considerato i racconti una forma artistica altissima, non li ho usati. Forse ero meno ricettiva e quindi quello che mi arrivava, in un certo senso, era più piccolo, fugace, non trovava spazio per espandersi. Bastavano tre, quattro pagine. Lasciavo libero, quasi perso, il lettore – avevo così paura di dire troppo, di imporgli una direzione. Ma non la giudico una scelta immatura, semplicemente era così, o forse io ero così. Con La mischia mi sono abbandonata, e facendolo la mia superficie è diventata grandissima, ho lasciato che molte cose mi passassero attraverso. Forse ho potuto farlo in modo così violento perché prima avevo con altrettanta forza chiuso, trattenuto. 

Una cosa che mi ha subito colpito de La Mischia è lo sfondo della vicenda: 2007, la città di Bilbao in piena crisi, flagellata dal terrorismo dell’ETA. Subito, però, è chiaro come in verità l’aspetto storico-politico costituisca più un pretesto per interrogarsi sui concetti di libertà e costrizione, violenza e amore famigliare, individualità e schemi sociali. Perché, allora, la scelta specifica dei Paesi Baschi in quel momento storico e non altro? Hai dovuto documentarti e approfondire con studi quella realtà storica per sviluppare una base da cui far partire la vicenda e la caratterizzazione dei personaggi?

Non lo so bene. So che i miei interessi si muovono a furia di ossessioni e desideri inutili, poco realizzabili, e so che i Paesi Baschi sono stati questo genere di interesse per me, dai primi anni di università. Forse, col passare del tempo, si è delineato in me un paesaggio simile a Euskadi; l’ho messo a fuoco lentamente grazie a quel luogo di confine, spezzato e fiero, che faticava così tanto ad aprirsi agli altri e allo stesso tempo li accoglieva non appena si sforzavano di parlare la sua lingua, di credere alle sue storie di folletti e capre magiche. Probabilmente c’è sotto anche un tentativo di ragionamento, un po’ rozzo se cerco di argomentarlo, riguardo a differenza e omologazione, una questione che ho sempre sentito cruciale: massa e individuo, per dirla col titoletto stupido della mia tesina di maturità. I Paesi Baschi mi permettevano di parlare della distanza, enorme o nulla, che frappongo tra me e gli altri, della cecità che a volte ne consegue, della difficoltà di trovare una misura che sia giusta, prudente. Apparentemente tutto questo non c’entra col terrorismo dell’ETA, me ne rendo conto.

La Mischia è un romanzo polimorfo, sia nella struttura sia nelle voci narrative. Quanto scelta parte da una decisione consapevole, e quali sono le ragioni? E quanto invece è emerso, estemporaneo e non pianificato, durante la scrittura?

Niente di consapevole, anzi, mi è costato parecchie dosi di ego. E la pianificazione è stata pressoché nulla, salvo l’idea grafica dell’architettura che ho a tratti mantenuto, a tratti disatteso. Leggo spesso che molti scrittori confessano che quello che hanno scritto non era il libro che volevano. Capita anche coi grandi amori, dicono.

Per quanto riguarda le voci, invece, è stato difficile riuscirle a mantenere distinte durante scrittura? Come ti sei approcciata al lavoro? Hai prima scritto tutte le parti di una sola, e poi le altre? Hai avuto bisogno di elementi di avantesto?

L’ho scritto così come voi lo leggete, in quell’ordine, a parte le prime tre pagine di Jokin che sono nate nel 2014 e che per anni ho abbandonato (anche se non le ho abbandonate davvero, credo di averle più che altro depositate). Quando ho ripreso mi sono dedicata a lei, sapendo dell’esistenza di quel tizio che avevo conosciuto anni prima. Io non credo sia stato difficile. Non più di quanto sia difficile fare qualsiasi cosa conti. La mia impressione è che sia stato piuttosto facile. Come se la difficoltà fosse venuta prima, nella vita, e questo testo fosse la mia nemesi, e il mio perdono.

Jokin è il nucleo vuoto intorno a cui girano tutti i movimenti narrativi del romanzo. Presente nella sua assenza totale. Ogni personaggio cerca Jokin e parla di Jokin, ma lui non appare mai e non prende mai la parola. Anche il capitolo a lui dedicato alla fine si rivela il romanzo di uno scrittore. Qual è, allora, il “significato” del personaggio Jokin? 

Gorane si arrabbierebbe molto se ti sentisse. Ti verrebbe a dire che Jokin è suo fratello e non un personaggio. Io, che devo in qualche modo mediare, sono abbastanza d’accordo con lei, e anche con te. È vero che Jokin è un nucleo vuoto, e che è la sua assenza a renderlo ingombrante un po’ per tutti. L’uomo su cui tutti proiettano il proprio desiderio, l’uomo deformato dagli altri e che finisce per morirne. Questo ha un significato? Forse sì, ma diverso per ognuno. Anzi forse il suo dolore è proprio questo: essere per molti solo un significato, un desiderio, un sogno misterioso e non una persona a cui volere semplicemente bene. Nessuno lo vede davvero, a parte Gorane, tutti intonano su di lui la loro melodia e lui non riesce a trovare la sua, quella che ha in testa, che ispira il suo ritmo. Non riesce a sentirla. Questo più che essere il suo significato, è il suo dolore. Lui crede che sia anche il suo destino.

Gorane, invece, è la voce più presente e consistente. È il personaggio che concentra più esplicitamente l’elemento autobiografico?

Può essere che io abbia concentrato su di lei gli aspetti più autobiografici, ma questo intento, più che una confessione, era un depistaggio: il lettore avrebbe creduto che io fossi tutta lì, e non avrebbe cercato altrove. Questa smaccata somiglianza mi è servita a fare in modo che nessuno sapesse che ero dappertutto.

Arrautza è una parola basca e significa “uovo”. Il capitolo che ne prende il nome è quello in cui la famiglia di Gorane e Jokin, i Moraza, prendono la parola in forma di prosa poetica. La figura dell’uovo viene ripresa anche da Jokin in sogno. L’uovo è un elemento di pienezza e completezza così come di annullamento, in quanto non ammette altro dentro di sé. Mi piacerebbe che approfondissimo questo aspetto centrale del romanzo.

Non avevo mai pensato al “non ammettere altro dentro di sé” di cui parli, è vero. Mi ricorda quello che i genitori affermano a proposito dei gemelli: sopportano fame e sete meglio degli altri. Non hanno niente da dare. In fondo anche in questa affermazione c’è una pretesa di autosufficienza, l’arroganza della solitudine. Gorane disegnava queste forme e queste forme mi ricordavano quella mappa del romanzo che avevo tracciato poco prima di iniziare a scrivere. Così ho cominciato a cercare ovunque questo simbolo che racchiude davvero tanti significati: rinascita, certo, ma anche mescolanza, sepolcro, indistinto, trasformazione; anche nei colori: purezza, sangue, lutto. Forse, soprattutto guardando alle raffigurazioni dell’uovo cosmico avvolto da un serpente, c’è anche un richiamo alla parte femminile, l’ovulo, la riscoperta di quella capacità passiva di accogliere una storia, non di scriverla e basta, di volerla. La passività è una forza molto sottovalutata. L’ho riscoperta e l’ho lasciata lì, a lasciarsi fare un po’ di tutto dal serpente.

La mischia è un esordio davvero particolare – un confronto veloce può essere fatto con gli altri quattro romanzi finalisti al POP. È lungo, complesso, eterogeneo. In un certo senso anche abbastanza impegnativo. Durante la scrittura non ti sei mai posta dubbi riguardo al lettore e la ricezione del libro in generale?

Temo di no. Avevo brevi momenti di lucidità – la lucidità, mentre scrivo, non è il massimo – in cui mi chiedevo come mi fosse venuto in mente di fare quel giro allucinato per raccontarmi. In quei momenti, appena smettevo di scrivere, non pensavo al lettore, ma mi interrogavo sulle mie storture mentali, convincendomi che avrei fatto una bruttissima fine, davvero brutta. Per il resto mentre scrivo penso solo a scrivere. 

Un’ultima domanda. Verso l’ultima parte del libro è presente una lettera scritta da un editore fittizio. È un discorso molto critico verso l’editoria, la letteratura e la figura dello scrittore: si scaglia contro una concezione esclusiva e autoreferenziale del mondo della letteratura, in cui gli scrittori si vantano di esserlo, in cui le presentazioni sono circoli di ruffiani e dove ognuno scrive per i soliti bisogni di “urgenza e abisso”. Riassunto in una frase dal testo: “Gentaglia. Circoli e circoletti. Provincia, ovunque”. È uno sfogo che parte da una considerazione personale?

Sì, certo, è una considerazione personale. A parte alcune straordinarie eccezioni, mi pare grossomodo di averci azzeccato.

Michele Maestroni

Foto di copertina: Michele Joshua Maggini.

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