Enne, di Valentina Durante
(Voland, 2020)
Giorgia Tribuiani, già autrice di Guasti (Voland) e collaboratrice con la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi, inaugura la nuova rubrica “Nella mente dello scrittore“: interviste a scrittori e scrittrici che partono dalle loro opere per poi discutere del lavoro scrittorio vero e proprio: abitudini creative, le logiche dietro alle scelte linguistiche e di stile, e tutti aspetti “fisici” della narrazione come processo artigianale. L’ospite del primo appuntamento è Valentina Durante.
A solo un anno dal brillante e originalissimo esordio avvenuto con La proibizione (Laurana, 2019), Valentina Durante torna in libreria con Enne, edito da Voland. Questa volta siamo alle prese con la vicenda di un “codista”, ovvero con un uomo che trascorre le mattine negli uffici pubblici mettendosi in coda e sbrigando piccole incombenze per conto dei propri clienti. Segnato da un lutto profondissimo e da una quotidianità ossessiva, un giorno quest’uomo inizia ad aprire i pacchi che gli vengono consegnati da una cliente, trovando via via oggetti che sembrano avere un legame sempre più profondo con il proprio passato.
Il tuo libro di esordio, La proibizione, presentava le tematiche della tragedia; Enne si offre a prima vista come un romanzo epistolare: una delle cose affascinanti dei tuoi romanzi è quest’uso di modelli tradizionali che poi, presto o tardi, il testo arriva a negare. Lavori alla costruzione delle opere prima di cominciare a scrivere o, al contrario, modelli la struttura durante la lavorazione del testo?
Per cominciare a scrivere ho bisogno di una forma e di una voce. La forma è il tentativo di rispondere a qualcosa che ho letto (oppure visto, o ascoltato) e che è stato capace di produrre in me una contemplazione, e successivamente un’azione. Dunque alla base della mia scrittura c’è spesso (mi vien da dire sempre) una tensione imitativa prima ancora che espressiva; non mi metto a lavorare a una storia per raccontare qualcosa di me.
Non sto dicendo che di fronte alle opere altrui mi pongo in uno stato di rapina intellettuale, come se fossero un magazzino dell’ingegno nel quale far razzia; a muovermi è piuttosto una disponibilità emotiva a lasciarmi incantare e provare piacere, e piacere e incantamento sono seguiti dalla voglia di contribuire. Credo che in me ci sia ancora forte l’istinto del bambino che vede l’adulto creare qualcosa di bello, si stupisce, e tenta subito di imitarlo. Poi, certo, occorre un’idea, uno spunto narrativo. Ma quante idee e potenziali germi di storie attraversano la nostra mente in una sola giornata?
Nel febbraio 2016, leggendo il Corriere, mi sono imbattuta in un trafiletto che parlava di tale Giovanni Cafaro, il “primo codista d’Italia”. Dei codisti non avevo mai sentito parlare (ed era, in effetti, una novità); mi sono incuriosita e ho fatto qualche ricerca. Cafaro si promuoveva con un volantino che ancora oggi si può trovare online (il suo sito professionale invece non esiste più): “Stimato e serio professionista laureato, residente a Milano offre servizio di eccetera eccetera”. Ho cominciato a pormi delle domande: è capitato a tutti di mettersi in coda all’ufficio postale per spedire un pacco, o pagare un bollettino di conto corrente, ma come dev’essere farlo tutti i giorni? E per incombenze che non ci riguardano? Per persone che non conosciamo? Cosa significa farsi carico della parte noiosa, molesta, frustrante e vuota della quotidianità altrui? E quanta vita è nascosta, quali storie, in quelle spedizioni e in quei documenti che teniamo in mano come se fossero nostri ma che ci restano inaccessibili?
In quel periodo ero alle prese con la lettura di Antichi maestri di Thomas Bernhard. In Antichi maestri abbiamo un coltissimo ottantaduenne dall’ego ipertrofico che conciona e lancia invettive, avvitandosi in una lingua ossessiva e ritornante. Reger è un uomo amareggiato e solo. Ha perduto la moglie: l’amore della sua vita e l’unica persona viva che contasse per lui. Le altre persone che contano sono morte; sono antichi maestri, appunto, e in quanto tali morti: l’arte nella sua immensità scoperchia sé stessa dichiarandosi immensamente limitata. Il desiderio di contribuire al testo di Bernhard con una risposta mia si è saldato all’idea del codista (anche Reger si reca a giorni alterni sempre nello stesso posto: la Sala Bordone del Kunsthistorisches Museum di Vienna) e ho cominciato a sentire una voce che narrava.
Ora sembra impossibile, ma la prima stesura di Enne era fortemente bernhardiana. Il bello delle forme altrui è che sono tantissime, una vera festa per i sensi e per l’intelletto; nel momento in cui le approcci come una premessa per produrre qualcosa di tuo, si trasformano in una crisalide che dà all’originalità artistica il tempo e il modo per formarsi. T. S. Eliot poetava “riempiendo” le forme di Laforgue e Gautier. Forse più che salire sulle spalle dei giganti, entriamo nella loro pancia adoperandoli come cavalli di Troia; e così facendo, troviamo la forza per espugnare noi stessi.
Enne, pur presentando una storia molto diversa da La proibizione, riprende e approfondisce alcune tematiche – tra tutte, quella del controllo – avendo per tramite personaggi che analizzano, immaginano, prevedono, scompongono la realtà con procedimenti metodici e minuziosi che si riflettono anche nell’uso della lingua, nella scansione dei periodi. Pensi che un autore “scriva sempre la stessa storia” o piuttosto, come mi pare nel tuo caso, credi che l’ossessione vada seguita lungo un percorso?
Non credo che un autore scriva sempre la stessa storia, ma che non riesca a scrivere altre storie se non quella che è chiamato a scrivere: sembra un rovesciamento retorico, ma la differenza nei fatti è grande. L’ossessione è una peculiare visione del mondo che ti assedia: là, si origina il contributo che tu – attraverso i tuoi testi – puoi dare a una sorta di narrazione collettiva (immagino una Grande Opera Umana che trascende lo spazio e il tempo, un mosaico le cui tessere sono date dalle singole ossessioni dei singoli autori – piccoli e grandi – che con le loro opere vi partecipano).
Detto in altri termini, a definirti è ciò che non riesci a immaginare, prima ancora di ciò che immagini. Per quanti sforzi tu faccia, certi modi di penetrare la realtà ti sono inaccessibili. La presa di coscienza è a suo modo sconcertante perché di ciò che riesci a immaginare, bene o male, sei consapevole, mentre quello che non riesci a immaginare ti squassa come un vuoto in pieno petto, una sensazione di sprofondo: la consapevolezza che la tua finitudine di essere umano è corporea, sì, ma anche mentale. Soprattutto mentale. Definire la tua idea di letteratura è definire la tua idea di mondo in senso sottrattivo; è ciò da cui non puoi prescindere, il che significa che sei obbligato a prescindere da tutto il resto. Più che scelta, è inevitabilità.
In una delle sue lettere, parlando dell’incidente della fidanzata, il protagonista di Enne spiega: «Se non lo posso descrivere, io non lo posso vedere. E se non lo posso vedere, io non lo posso capire». La scrittura rappresenta per te un modo di vedere la realtà, uno sguardo con cui provare a circoscriverla e a comprenderla?
Nel canto XXXI dell’Inferno, Dante e Virgilio si trovano al cospetto di un omone alto una trentina di metri che li apostrofa con un verso indecifrabile: «Raphèl amì amècche zabì almi!» Si tratta di Nembròt, Nembrotto, «per lo cui mal coto / pur un linguaggio nel mondo non s’usa», ossia: per la cui cattiva pensata nel mondo non si fa uso di un’unica lingua. Nembròt, responsabile della costruzione della torre di Babele, è condannato a blaterare in un idioma incomprensibile a chiunque, e a non capire nessuna lingua che non sia la propria: se ci pensi è terribile. La sua punizione è una solitudine eterna e irrecuperabile. La lingua, sia orale che scritta, è atto di comunicazione.
Ma per comunicare qualcosa, devo prima elaborare una certa rappresentazione della realtà, così da poterla porgere agli altri. Anche la conoscenza è una forma di rappresentazione e la scrittura ne è il tramite, l’occasione, una mano che bussa sulla spalla dell’altro per farlo voltare: sono qui, e ho bisogno di non essere solo. Avrebbe senso vedere senza poter comunicare? Non basterebbe a questo punto solo sentire, in un atto privato, in una rappresentazione che si fa quasi autistica? L’incespicare verbale di Nembròt arriva nel momento in cui, scorgendo il pellegrino e la sua guida, gli si profila appunto una promessa di comunicazione. Se non esistessero gli altri, forse nominare e circoscrivere ciò di cui facciamo esperienza sarebbe inutile: solo i pazzi parlano da soli. E nel momento in cui gli altri ci sono, impedirsi la nominazione, la parola, la scrittura è una scelta di autoisolamento: rispetto agli altri, ma anche alla comprensione stessa. Dunque sì, scrivere è per me un modo di tentar di vedere la realtà attraverso l’urgenza di farla vedere a qualcun altro. Senza questo qualcun altro, non troverei nello scrivere nessuno scopo.
Sempre a proposito delle storie, un altro passaggio bellissimo è raccolto in una delle ultime lettere: «Io non immagino storie, non costruisco storie: mi limito a lasciare che le storie mi utilizzino – come se fossi un guscio, una crisalide, o un banale contenitore – perché è arrivato per loro il momento di esistere. Perché quando una storia ha deciso di esistere, io non posso che mettermi a disposizione: la storia è mia prigioniera, e allo stesso tempo io sono prigioniera della storia». Qui è anche Valentina Durante che parla?
Sì, ho voluto inscrivermi consapevolmente in uno dei personaggi del romanzo. E no, non per vanità, ma per una dichiarazione d’intenti: Enne è anche una riflessione su come nascono le storie. Ho inserito in Enne, oltre a un narratore principale (inaffidabile), un secondo narratore-autore finzionale che è presenza decentrata e soprattutto dubbia: è lui che scrive la storia, oppure è a sua volta scritto dalla storia? Se ci pensi, noi che scriviamo, dalle storie veniamo anche scritti, perché cominciamo a esistere come coloro che quelle storie stanno immaginando. Senza le storie, questa funzione del nostro “Io” non si produrrebbe. Le nostre storie agiscono dentro di noi, a distanza di tempo, simili a ricordi, tanto che a volte non sapremmo dire se abbiamo scritto di cose che ci sono accadute, o se ci sono accadute, in una profezia auto-avverantesi, proprio le cose che abbiamo scritto.
Siamo in grado di distinguere i due piani razionalmente, ma a livello di sensazione il perimetro è confuso, al pari di quei sogni vividi dai quali ti strappi a fatica tanto da dubitare, come Zhuangzi e la farfalla, di esserti distolto dal sogno per approdare alla realtà, o di essere approdato nel sogno dopo esserti tratto via da una realtà che ti arriva improvvisamente con una qualità irreale. Poi certo, a livello fattuale ho esposto in Enne la mia routine di scrittura, dunque anche il modo in cui lo stesso Enne è stato scritto (a rotta di collo, in una prima stesura durata poco più di un mese). È un gioco di scatole cinesi: narriamo e siamo narrati; immaginiamo e siamo immaginati dal nostro immaginare.
Mi pare molto bello come, in questo tuo “servire” le storie, arrivi ad alimentarle non solo con le tue immaginazioni, ma anche con quelle altrui. Libri, film, opere musicali e d’arte pittorica si intrecciano indissolubilmente con i racconti del tuo protagonista in un colossale tributo all’immaginazione.
Questo si ricollega alla “festa delle forme” di cui parlavo prima. Dunque vorrei approcciare la domanda da un lato rovescio, più pragmatico. I personaggi che metto in scena nei miei testi, pur non facendo parte della mia vita (i miei non sono romanzi autofinzionali), appartengono alla mia esperienza presente e passata. E la mia esperienza – padre e madre insegnanti, io che mi occupo di comunicazione e mio marito di grafica – coincide con quella della cosiddetta “classe media intellettuale” (per quanto sia difficile, oggi, parlare di “classe media”; ma ce lo facciamo andar bene). E cosa fanno mai questi personaggi della “classe media intellettuale”? Quel che nella vita fanno le persone del medesimo ceto sociale: oltre a lavorare, dormire, mangiare, guidare l’auto, fare la spesa eccetera, leggono libri, guardano film, visitano mostre, ascoltano musica, vanno a teatro e all’opera (o li guardano su Youtube), e poi ne parlano fra di loro.
Introdurre nel testo il nome di uno scrittore o di un artista, la citazione da un libro, l’allusione a un brano musicale ha per me, prima di tutto, un intento mimetico. Uso tasselli della mia vita vissuta per comporre la mia vita immaginata; solo così ho la speranza di essere credibile e di tenermi alla larga da ciò che lo scrittore Sandro Campani definisce acutamente “la cartolina”. In questo, sia chiaro, non c’è nessun autocompiacimento: a latere dei pregevoli gusti e dei (spesso) fintamente nobili pensieri, i miei sono personaggi che si trascinano dietro un impressionante corredo di nevrosi. Li metto dentro uno spazio chiuso e li osservo mentre si amano facendosi del male, o si fanno del male nel tentativo di amarsi. Non sono troppo sicura di esser contenta di raccontare queste storie, ma sono le storie che mi riesce di raccontare.
Nel romanzo La proibizione scrivevi: «La paura nasce dalla paura. E i fatti sono la scusa migliore che riusciamo a trovare con noi stessi». In Enne ti spingi oltre, parlando non solo della paura ma in generale della deformazione che la nostra mente opera sugli eventi: «Siamo noi che adattiamo i nostri comportamenti ai fatti che ci sono accaduti, oppure all’inverso fabbrichiamo questi fatti per giustificare i nostri comportamenti?» Possiamo vedere Enne come un romanzo filosofico oppure – e mi aspetto già la risposta – anche questo modello della tradizione viene negato?
Enne non ha le ambizioni del romanzo filosofico, gioca piuttosto a scombinarne le premesse. Se il romanzo filosofico espone narrativamente una propria teoria originale, Enne fa uso di teorie altrui per legittimarsi nel narrare certi eventi. In Enne m’interessava mostrare due cose: le gabbie mentali che talvolta ci costruiamo, e che costruiamo anche per gli altri, e che limitano e condizionano la nostra vita privandoci della libertà, resistono a furia di puntelli razionali che le rendono equiparabili al vero. Anzi, le rendono più vere del vero. È questo che le fa indistruttibili; è questo che fa di noi dei carcerati che vagheggiano la fuga, ma che non fuggiranno mai.
La seconda cosa parla della bellezza di queste gabbie. È un aspetto che viene toccato di rado nella narrativa che esplora il disagio psichico. La malattia mentale, la nevrosi, il DOC, hanno tutti il loro – sacrosanto – gravame di sofferenza, ma producono anche, se ci rifletti, una certa quantità di piacere e di potere. Diversamente, non s’incrosterebbero al nostro animo con tanta tenacia. Pensiamo mai alla forza immaginifica che si origina da certo disagio? A quanto possa essere inebriante l’illusione di controllo sul reale che certi disturbi ossessivi ci regalano? Nota queste due espressioni: forza immaginifica e controllo sul reale. Nota che sono anche i due principali attributi di chi scrive: creare un mondo immaginandolo e avere sovranità sulla sua fine e sul suo principio. Nota che sono anche, in un senso più lato, gli attributi di Dio.
A cura di Giorgia Tribuiani
1 Comment