“Le ripetizioni”: intervista a Giulio Mozzi

La rubrica “Nella mente dello scrittore“ raccoglie interviste a scrittori e scrittrici che partono dalle loro opere per poi discutere del lavoro scrittorio vero e proprio: abitudini creative, le logiche dietro alle scelte linguistiche e di stile, e tutti aspetti “fisici” della narrazione come processo artigianale. L’ospite del secondo appuntamento è Giulio Mozzi. Lo ha intervistato Giorgia Tribuiani, già autrice di Blu (in uscita per Fazi Editore) e Guasti (Voland).

Giulio Mozzi ha alle spalle la pubblicazione di numerose raccolte di racconti (tra questi La felicità terrena, Il male naturale, Fiction) e di raccolte ibride (Favole del morire, per esempio, raccoglie testi in prosa e in versi, oltre a presentare un intero testo teatrale); ha lavorato come consulente editoriale per Sironi, Einaudi, Marsilio e ha alle spalle una carriera trentennale come docente di scrittura creativa, che lo ha portato a raccogliere in alcuni testi didattici la propria esperienza (tra questi, i recenti Oracolo manuale per scrittrici e scrittori e Oracolo manuale per poete e poeti, scritto a quattro mani con Laura Pugno) e a fondare la Bottega di narrazione, scuola di scrittura creativa.

Le ripetizioni, suo primo e attesissimo romanzo, mette in scena la vicenda di Mario, un uomo incapace di prendere decisioni sulla propria vita ma formidabile nell’inventare storie e modellare la realtà. Intrappolato in quelle “ripetizioni” che prestano il nome al libro, Mario racconta eventi non necessariamente accaduti e mai del tutto coerenti tra loro, dando vita a una narrazione dalla struttura mutevole e sempre in bilico tra realtà e finzione.

Candidato da Pietro Gibellini, Le ripetizioni è adesso in corsa per il Premio Strega.

Leggendo Le ripetizioni mi sono trovata spesso a rivivere le immaginazioni che i tuoi libri precedenti avevano creato: le sottomissioni de Il male naturale, le sfumature tra realtà e finzione di Fiction, alcune scene da Il culto dei morti nell’Italia contemporanea, alcune sensazioni da La stanza degli animali (soprattutto nel capitolo “La storia delle case”). E mi sono chiesta, durante queste sensazioni di déjà vu, se non fossero anche queste, in qualche modo, ripetizioni, con tanto di scostamento dalle immaginazioni precedenti. E mi sono posta due quesiti che ti pongo: l’immaginazione “ripetuta” (pensiamo al sacrificio dei cani, già presente ne Il culto dei morti) in che rapporto è con l’immaginazione primitiva? Cosa succede quando, come in questo caso, un’immaginazione che era autosufficiente viene connessa a un sistema, inserita in una composizione di immaginazioni?

Mi è capitato qualche mese fa, nel fare un lavoro di back-up da un vecchio (e glorioso) pc a un disco fisso nuovo di zecca, di trovarmi davanti un appunto del marzo 1998: meno di una cartella, in cui si tratteggiava la sostanza della storia di Santiago, l’uomo che domina Mario e che lo guida in attività sessuali a dir poco estreme. Santiago era già apparso di sfuggita in un paio di racconti (uno del Male naturale, uno di Fantasmi e fughe). Qualche mese dopo misi insieme uno scartafaccio, che intitolai Introduzione ai comportamenti vili, nel quale la storia di Santiago e Mario cominciava a dispiegarsi, e facevano la loro apparizione Bianca e (ma fuggevolissimamente) Viola. La storia di Mario e Bianca, peraltro, aveva attraversato tutti i miei precedenti libri (tranne Fantasmi e fughe), in alcuni racconti in cui appariva una coppia perennemente nella situazione del «nec tecum nec sine te possum vivere» (Ovidio, Amores, iii, 11b). Nell’Introduzione – che era un testo stranissimo, con molte parti collagistiche – c’era diciamo così un “grumo”. Feci leggere questo scartafaccio, e mi arrivò una risposta chiara: questa roba è troppo violenta, troppo spaventosa, non si può pubblicare. Fui molto colpito da questa reazione, che veniva da un funzionario editoriale di alto livello: persona della quale avevo, come tuttora ho, molta stima. Mi fermai. Misi da parte. Scrissi il mio libro meno rilevante, Fantasmi e fughe, 1999, e il mio tentativo estremo di affermarmi, Fiction, 2001: che sono, o almeno mi sembravano essere, tutt’altre cose. Ma il “grumo” restava lì. Ci rimisi le mani nel 2002, tentando di espungere dalla massa narrativa il personaggio più spaventoso, ossia Santiago: scrissi molte pagine, diciamo un centinaio di cartelle, e ci misi il titolo Discorso attorno a un sentimento nascente, mutuandolo da un quadro del mio amico pittore Claudio Laudani (Claudio, poi, sostiene che quel titolo al quadro l’ho dato io: la questione è tuttora irrisolta). Ma il Discorso non riusciva ad andare avanti. Mi convinsi che non ce l’avrei mai fatta a venire a capo della faccenda. Periodicamente tornai a guardare quel materiale, l’Introduzione e il Discorso (che in parte si sovrapponevano, anche se l’Introduzione era in terza persona e il Discorso in prima), ma ogni volta mi pareva che restassero lì come materiale inerte.
Ma, nel frattempo, scrivevo altre cose. Alcune completamente estranee (almeno secondo me) al progetto di romanzo, ma: (e qui vengo a risponderti, finalmente) nella mia testa c’era sempre quel “grumo” lì. Sapevo, mentre scrivevo certi pezzi del Culto dei morti, che era quel “grumo” a parlare. Sapevo, scrivendo nel 2009 La stanza degli animali (poi confluita nel libro Favole del morire del 2015) che stavo da quelle parti. Non lo sapevo, invece, quando scrissi due testi per due cataloghi dell’artista Beatrice Pasquali, uno nel 2000 e uno nel 2010 non lo sapevo, ma ero sempre lì. La compilazione di Favole del morire, in cui raccolsi diversi testi tutti “al limite” (al limite tra narrativa e teatro, narrativa e poesia, ec.), fu un’occasione importante. Nelle Favole c’è un componente di quel “grumo”: il componente, diciamo così, cosmologico. Quando, nell’autunno del 2018, cedendo alle ragionate insistenze di Greta Bertella, rimisi mano al romanzo, ovvero ricominciai a scrivere avendo in mente quel progetto lì, mi resi conto che l’immaginario era ancora tutto al suo posto. Abolii il disgraziato tentativo del 2002 – quello di far fuori Santiago – e scrissi come se non avessi mai smesso. Non direi quindi che ci fossero delle immaginazioni «autosufficienti» che si sono poi unite in una «composizione». Direi, piuttosto, che l’idea della «composizione» – benché per due decenni rinviata – ha consentito il permanere vitale di certe immaginazioni. O, in tutt’altri termini: il rifiuto di Santiago mi ha tenuto bloccato per quasi vent’anni; quando mi sono deciso a riammetterlo, tutto è venuto fuori a gran velocità.

Sempre a proposito del concetto di ripetizione: se è vero che quando guardiamo un ricordo, quando osserviamo un evento, finiamo per spostarlo e per modificarlo, la ripetizione è davvero possibile senza variazione? E quante variazioni possiamo sopportare prima che l’evento che ci pareva “ripetuto” diventi un evento differente?Leggendo il tuo romanzo mi sono chiesta più volte se la ripetizione non fosse possibile, a sua volta, solo come immaginazione.

La ripetizione, spiega Kierkegaard in un libretto che s’intitola, guarda caso, La ripetizione, è il contrario del ricordo. Semplificando molto, e riducendo tutto a un fatto diciamo psicologico: ricordare significa tornare al passato, desiderare di ripetere è un andare verso il futuro. La perfetta ripetizione però non riesce mai (il protagonista del racconto di Kierkegaard, per esempio, vuole ripetere un certo soggiorno a Berlino; torna presso il medesimo affittacamere di qualche anno prima; ma sono stati fatti dei lavori nell’appartamento, che non è più identico a com’era; ec.) e questo può produrre due effetti: può gettare nell’angoscia o può dare sollievo: «Qualcosa di nuovo, finalmente!» (qui, sia chiaro, non sto interpretando Kierkegaard: lo sto strumentalizzando).
Il piacere della ripetizione è tipico dei bambini piccoli o dei rimbambiti (come a es. gli innamorati ancora immersi nella “fase dei coniglietti rosa”). Ma mentre i bambini vogliono la ripetizione (tante volte il medesimo gioco, tante volte la medesima favola raccontata con le medesime parole) perché si stanno costruendo un’immagine delle cose del mondo, e desiderano che ogni immagine sia stabile, onde potersela lasciare alle spalle e procedere verso qualcosa di nuovo, i rimbambiti vogliono la ripetizione perché sanno che le cose del mondo non possono essere stabili.
Credo che i personaggi del mio romanzo non desiderino – e mi scuso qui se parlo di loro come se esistessero realmente – la ripetizione. Ci sono piuttosto incastrati dentro. L’unico libero dall’incastro è il Gas, l’uomo a cui certe cose (la fotografia della Madonna, il quadro Discorso attorno a un sentimento nascente…) succedono una volta sola. Il fatto che la ripetizione poi sia manchevole, o imperfetta, è per loro una delusione – anziché un’opportunità.

Torno sul concetto di “composizione”, che mi piace tanto perché mi fa pensare alla musica, a un insieme di brani differenti che però insieme acquistano un senso nuovo, un significato complessivo che è molto più della somma o della giustapposizione delle parti. Ci sono stralci del romanzo che avevi scritto parecchi anni fa, capitoli appartenenti – esagero – a un altro Giulio. Ci sono capitoli che addirittura, come nel caso della lettera, non erano nati per finire nel romanzo. In che modo hai scelto le parti da includere e quelle (sicuramente ce ne saranno state) da escludere? Come ti sei comportato, per riprendere le parole che il romanzo attribuisce a Barilli in tutt’altra situazione, nel tuo ruolo di “ordinatore di eventi”?

Siamo sicuri che fosse un altro Giulio? Io non ho avuto la sensazione del cambiamento; ho avuto la sensazione di una quasi-assenza (ventennale) e (recentemente) di un ricominciamento. Ho ripreso il discorso dal punto in cui lo avevo abbandonato. Oggi sono certamente diverso da vent’anni fa; ma l’immaginario che abitava la mia mente era quello nel 1998, ed era quello nel 2020. Ora l’ho fatto diventare una “cosa”, ora l’ho depositato e “fissato” nel romanzo. Forse, ma dico forse, il cambiamento potrà cominciare ora.
Certo, a un certo punto della scrittura, quando ormai tra montaggio dei pezzi già presenti negli scartafacci antichi e pezzi nuovi mi pareva che apparisse una struttura ben definita, mi è capitato di andare in cerca di certi altri scritti più o meno antichi: alcuni si sono rivelati così coerenti con la struttura – o la composizione, se preferisci – che non ho esitato a tirarli dentro (riscrivendo, se necessario, o lasciando tal quale, se necessario). Naturalmente non si tratta tanto di una coerenza narrativa quanto, appunto, di una coerenza d’immaginario. Il capitolo «La storia della pelle», per dire, è un testo del 2010, scritto per una mostra di Beatrice Pasquali. Mi sembrò adattissimo a stare verso la fine, per mostrare quella debole speranza di “uscita dalla ripetizione” che volevo offrire a Mario, il protagonista. Poi, quando eravamo già in bozze, accadde una cosa non poco significativa. Il redattore, l’ottimo Claudio Panzavolta, mi disse che il penultimo capitolo non lo convinceva molto; e così pure il terz’ultimo (che era appunto «La storia della pelle»). Allora cancellai il penultimo capitolo (che non c’è più nel romanzo; si chiamava «La storia della felicità» e misi lì, tra «La storia della pelle» e la conclusione, un pezzo di un capitolo molto precedente: quello dove si descrive e commenta, direi quasi escatologicamente, il quadro Discorso attorno a un sentimento nascente. E mi resi conto solo allora che «La storia della pelle» e la descrizione del quadro raccontano la stessa scena. La cosa divertente è che Claudio, nel segnalarmi cosa non lo convinceva, si era sbagliato, e voleva riferirsi a un altro capitolo; e che mettere lì sul limite della fine la scena del quadro era una proposta che Greta mi aveva fatto ancora a settembre 2020 (se non ricordo male).

Molti degli eventi del romanzo avvengono il 17 giugno. Una data che a volte è certa (“sappiamo che è un 17 giugno”), altre viene messa in discussione (per esempio quando all’inizio ne parla Mario “ma secondo noi andava a occhio e s’inventava, per esagerare in precisione e dare più efficacia al racconto”). Molti degli eventi del romanzo – la maggior parte – vengono poi narrati in terza persona, scelta che, nei libri degli altri, fa sentire Mario “a disagio, nelle storie raccontate in terza persona sente un eccesso di finzione”; ma abbiamo anche la lettera, che è pure un documento, e il capitolo “La storia del Capoufficio”, che è praticamente un’intervista. Hai proposto una riflessione sui livelli di finzione o hai giocato al lettore quello che Mario definisce “un tiro birbone”?

Be’: che opinioni e gusti di un personaggio non coincidano con quelli dell’autore, mi pare una cosa normale. Così mi pare normale che uno scrittore possa, da lettore, preferire testi molto diversi – come “genere” – da ciò che scrive (mi spiego: ho pubblicato sette libri di racconti, ma non sono un lettore di racconti; sono piuttosto un lettore di romanzi lunghi e complessi; ma comunque non sono nemmeno un grande lettore di romanzi, leggo più poesia che prosa letteraria, e per anni ho letto quasi solo filosofia e teologia). Che a me interessi mettere in crisi l’idea stessa di “finzione” è, mi pare, esplicito fin dal 2001, quando pubblicai una raccolta di racconti spudoratamente intitolata Fiction. Nelle Ripetizioni ho cercato – non sono certo il primo, e non pretendo d’essere in questo il più astuto – di mettere in crisi anche la logica narrativa e lo statuto del narratore. Ma, se ci pensi, se è vero che tutta la narrativa occidentale (la sparo grossa) deriva dalla “novella”, cioè dal racconto di un fatto nuovo e interessante, già intitolare un romanzo Le ripetizioni – che è come dire: non troverai cose nuove – è una provocazione. Peraltro a me la provocazione non interessa. Mi interessa fare i conti con una narrativa che troppo spesso mi sembra rinunciare all’invenzione (alla finzione, se vuoi) e giocarsi invece tutto sul piano della testimonianza, del “racconto di realtà”, della cosiddetta autofinzione, e così via. In un post di qualche settimana fa Tommaso Pincio avanzava un sospetto: non è che non siamo più capaci di accettare «il trauma della finzione»?[1] E io aggiungerei: non è che abbiamo troppo bisogno di un narratore che ci prenda per mano e ci conduca attraverso il brulichio degli eventi?
Postilla: il narratore che prende per mano guida il lettore anche a cogliere il “significato” della storia. Paul Auster, «Città di vetro», primo romanzo della Trilogia di New York, prime righe: «La questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo».

Diversi lettori, a proposito del tuo romanzo, hanno chiamato in causa il “male”; a volte lo hanno addirittura accostato al “male assoluto”. Tuttavia a me è parso che il male, mai come in questo caso, fosse stato relativizzato (e quindi depotenziato) dalle possibilità, dalla contraddizione (intesa come impossibilità di sovrapposizione, di concordanza) degli eventi. Se nella tua raccolta Il male naturale le vicende dei personaggi mi erano sembrate senza scampo, qui il male mi è parso rappresentare solo una (o alcune) delle ipotesi; delle possibilità, appunto. 

Credo che tu abbia ragione. Mario, nel romanzo, non sceglie, o si lascia scegliere: ma la possibilità di scegliere esiste. Il Gas gliela rappresenta davanti, col suo quadro. Bianca gli urla addosso di scegliere. Santiago minaccia fuoco e fiamme, ma proprio perché Mario può scegliere: la sua sottomissione a Santiago non è un destino obbligato. Dopodiché, è questione di punti di vista. C’è chi trova intollerabile la rappresentazione del male come destino che incombe su tutti. E c’è chi trova intollerabile la rappresentazione di una scelta (o di una non-scelta, che è uguale) nella direzione del male.

C’è invece tanta metaletteratura nel tuo romanzo, ci sono riflessioni sul narrare evidentemente figlie di una vita passata tra le storie. In particolare ho trovato bellissimo il capitolo su Cadorna e l’idea, più volte ripetuta nel romanzo, secondo cui raccontare è aiutare “gli avvenimenti ad avvenire nel mondo” (mi piace pensare a tutte le volte in cui hai definito il tuo ruolo di docente di scrittura come quello di una “levatrice”) e “solo se non si trova ciò che si cerca si dà luogo a una storia”. Hai trovato, alla fine di questo romanzo e degli avvenimenti che finalmente esistono, quello che cercavi?

Ho trovato la liberazione da un immaginario che era ormai con me da troppo tempo, che mi riempiva la testa e le orecchie – sussurrando continuamente – e il corpo. Quanto al raccontare che aiuterebbe «gli avvenimenti ad avvenire nel mondo» (p. 266, nel capitolo appunto «La storia del generale Cadorna»), temo – ahimè – che si tratti di un’opinione del personaggio Mario, non mia. Più precisamente, in quel punto, si tratta di una parodia delle ultime frasi del più bel libro (secondo me) di Italo Calvino, Palomar: «“Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, – pensa Palomar, – e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine”. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore». Il signor Palomar sogna di trasformare il mondo in un testo, il mio povero Mario sogna di produrre testi che generino il mondo. In quel momento il mondo (cioè l’oggetto del racconto, nello specifico il generale Cadorna) comincia a morire. Ovviamente non è per nulla necessario che il lettore senta questi echi: sono serviti a me per costruire.

a cura di Giorgia Tribuiani

[1] https://www.facebook.com/tommaso.pincio/posts/10222738620524771

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