La casa delle madri, Daniele Petruccioli
(TerraRossa Edizioni, 2020)
Le emozioni non mentono mai. Non mentono perché nascono da impulsi sensoriali e percettivi che, scaturendo in reazione a stimoli esterni, dal profondo ci urlano qualcosa di genuino, vero su noi stessi. Di conseguenza, è possibile affibbiare alla Letteratura – e all’Arte in generale – lo scopo apparentemente semplice di saperci emozionare, di instaurare con noi una relazione intima ed esclusiva in cui potersi riconoscere e, al tempo stesso, mettere in discussione. Se a fine lettura possiamo dire che un libro ci appartiene, allora quel libro è riuscito nell’intento più nobile a cui poteva aspirare. Personalmente, posso affermare che La casa delle madri mi appartiene.
Elia e Ernesto sono gemelli, e per tutta la vita non faranno altro che rincorrersi. Sono e saranno sempre come due «rette parallele», due rette destinate a condividere una speculare complementarità che però spesso assumerà molto più i caratteri di un’opposizione antitetica insanabile, soprattutto a causa della malattia di Ernesto, forse di origine congenita, forse insorta per il forcipe usato dal dottore al momento della sua nascita. Nonostante l’handicap, Ernesto è tanto intelligente quanto Elia è scattante nei movimenti, ma sarà proprio la fragilità fisica di Ernesto che porterà il fratello ad assumersi fin dall’infanzia il faticoso ruolo impostogli dai genitori di suo protettore, con tutte le tragiche conseguenze del caso.
«Ernesto e Elia giocano e giocheranno a rimpiattino per tutta la vita, cacciandosi spasmodicamente via e altrettanto spasmodicamente cercando un qualche modo per toccarsi. Hanno cominciato fin da piccoli, a seguito di quella spinosa frase – “Bada a tuo fratello” – conficcata come una lama nella libertà dell’uno, nell’indipendenza dell’altro. Non potevano sapere allora, e probabilmente non lo sapranno mai, quanto sia proprio questo imperativo a impedirgli di entrare in contatto». (pag. 21)
Anche la relazione tra i genitori dei gemelli è tutt’altro che semplice. Sia il padre Speedy che la madre Sarabanda vengono ritratti come anime irrequiete, in perenne fuga l’uno dall’altro. Spesso governati da impulsi angosciosi, i due spenderanno gran parte del loro matrimonio a farsi la guerra, a cui poi, estinguendosi la furia litigiosa, solo il divorzio porrà fine. Nella ricostruzione di questa storia familiare vanno aggiunte anche le figure imponenti e ingombranti dei nonni paterni e materni dei gemelli, chiudendo così il cerchio nell’analisi di un retaggio culturale e educativo che, di generazione in generazione, passa di mano trascinandosi dietro tutte le sue contraddizioni.
Il romanzo di Daniele Petruccioli, al suo esordio con TerraRossa, colpisce in prima battuta per la capacità penetrativa con cui riesce a indagare la complessità delle relazioni familiari. Un’impresa notoriamente difficoltosa in letteratura, che l’autore affronta facendosi forte di una prosa sinuosa, articolata, in cui le numerose parentesi e subordinate, inserendosi nel flusso ragionato di pensieri – a volte con discrezione, altre volte con più virulenza –, aggiungono considerazioni a considerazioni senza mai essere fuori posto o strabordare, e sempre andando il più a fondo possibile nelle questioni trattate, come, ad esempio, il rapporto di Ernesto e della famiglia con la sua malattia; la volontà di indipendenza di Elia, tradotta in abbandono dal fratello; il difficile percorso di emancipazione di Sarabanda nei confronti di un’educazione prettamente patriarcale, purtroppo compiutosi con successo solo in apparenza.
Forse per ricalcare la quantità di non detto che caratterizza l’esistenza, o l’impossibilità di decriptare a parole i significati reconditi di uno sguardo, di un sorriso, del più flebile contatto fisico, ma al dialogo si lascia veramente pochissimo spazio nel romanzo – si possono contare al massimo quattro, cinque battute in tutto il libro –, mentre nello sviscerare la mente e il cuore dei protagonisti la penna dell’autore gli dà talmente tanto corpo, sangue, vita, da renderli più persone che personaggi: mi è parso, leggendo, di avere davvero di fronte a me, in tutto il loro drammatico splendore, Elia e Ernesto, Speedy e Sarabanda, e di poter cogliere a piene mani le poche gioie e le tante afflizioni delle loro fragili esistenze, abbracciandole interamente. In alcuni punti, soprattutto quelli volti a indagare il perché di certe dinamiche familiari, mi sono talmente rivista nel mio stesso questionare sull’argomento, nel mio ruolo di figlia ormai adulta – con i miei trascorsi, la volontà di comprendere cosa è successo, la speranza di perdonare cosa è stato, e accettare adesso cosa sono – che mi sono commossa.
«Difficile misurare l’aiuto che si può dare a un figlio senza privarlo della capacità di aiutare se stesso. Di quali confini, di quale senso della misura deve sapersi dotare un genitore per non eccedere nelle azioni che compie per lo sviluppo del suo bambino senza rovesciarlo nel suo opposto? È impossibile non sbagliare, di tanto in tanto; padri e madri (se non del tutto ciechi) lo sanno bene e non hanno altra scelta se non andare avanti con un’alzata di spalle e una scintilla di speranza». (pag. 199)
Un così alto grado di empatia e vicinanza nei confronti di un romanzo di questo genere si raggiunge solamente quando un testo, un Io narrante e un autore riescono in simbiosi a parlarci con l’onestà e la trasparenza di chi è profondamente consapevole della difficoltà insita nei rapporti genitori-figli, su cui sin dall’infanzia costruiamo la nostra percezione del mondo e delle relazioni interpersonali, e che si potrebbero definire come un miscuglio spesso intraducibile di amore e rancore che chi nasce finisce per provare verso chi genera, e talvolta chi genera verso chi nasce.
Tenendo questo a mente, durante la lettura mi è risultato impossibile non accostare il romanzo a un suo precursore illustre e a una autrice altrettanto illuminata; il romanzo si chiama Gita al faro, l’autrice Virginia Woolf – tra l’altro citata un paio di volte in La casa delle madri. Molti sono i punti di contatto tra i due testi: entrambi si dedicano allo scavo interiore dei propri personaggi, e giocano con la focalizzazione saltando dall’uno all’altro punto di vista ogni qual volta se ne senta l’esigenza; entrambi delineano una prosa dall’andamento ondulatorio, con frequenti ritorni indietro su piccoli dettagli poi ampliati, su argomenti prima abbozzati e poi, in un secondo momento, approfonditi; entrambi contrappongono al breve tempo dell’azione – di un gesto, un movimento – il tempo della memoria e dell’interiorità che, scorrendo infinito, riattiva i ricordi e i sentimenti ad essi collegati.
Infine, ma non meno importante, è centrale nel romanzo di Petruccioli il ruolo svolto dalla casa, simbolo di calore domestico, di affetto e vicinanza, ma dove spesso le tragedie, i conflitti e i rancori di una famiglia crescono, si radicano e si consumano definitivamente per poi lasciare spazio alle vicende di un altro nucleo familiare, a un altro ciclo, in un eterno ripetersi impossibile da spezzare. Il legame con il luogo, e con gli oggetti che lo popolano, risulta imprescindibile nella ricreazione delle nostre relazioni tanto del presente quanto del passato; ed è su questa semplice verità che si basa tutta la struttura del libro.
«Noi crediamo di legarci a relazioni, sentimenti, persone; ma siamo molto più legati ai luoghi e agli oggetti che hanno accolto noi, e queste persone, coi sentimenti che ci siamo suscitati a vicenda e le relazioni che abbiamo intessuto. Sono i luoghi e gli oggetti (i corpi, i corpi puri e semplici), con la loro malleabilità, la loro possibilità di essere toccati, la capacità di adattarsi, a raccontarci di quelle relazioni, di quelle persone e dei nostri sentimenti verso di loro: a dirci, cioè, di noi». (p. 192)
Perché nel ripercorrere la storia di Elia e Ernesto, il lettore si ritroverà ad attraversare i corridoi e le stanze delle case in cui la famiglia dei gemelli ha vissuto per generazioni, ma che ormai non possiede più. Al trasformarsi delle case prima vendute e poi ristrutturate, al risollevarsi della polvere su un mobile prima abbandonato e ora ripulito, risorge il ricordo nostalgico di ciò che quelle case per tanto tempo hanno custodito, invertendo così di segno il classico significato di cosa vuol dire abitare un luogo: è il luogo che ci abita, e non noi ad abitarlo. Invano lo scorrere del tempo dissolverà questo legame, poiché sempre una risata o un pianto riecheggerà tra le pareti di quelle case ormai passate ad altre mani, come un correlativo oggettivo pronto a scattare per rievocare un’emozione talmente potente e duratura che, se leggete La casa delle madri, non potrà che appartenervi, poiché parla di voi.
Angela Marino