La carne, Cristò
(Neo Edizioni, 2020)
Un narratore senza nome racconta un mondo che è stato sconvolto da un evento epocale quando aveva otto anni: la comparsa di un misterioso virus che rende chi lo contrae assetato di carne e impossibilitato a morire. Il mondo è così invaso da esseri più vicini alla materia inerte che a quella organica, poiché totalmente privi di coscienza e linguaggio. Sembrerebbe la trama di un libro di zombi che parla in modo traslato della pandemia che stiamo vivendo oggi, ma non è così. La Carne di Cristò è infatti un romanzo pubblicato da Nutrimenti Edizioni nel 2016, che Neo ha deciso di ripubblicare a fine 2020. Per quei curiosi cortocircuiti del tempo che talvolta accadono, la sua lettura diventa oggi particolarmente urgente.
Inserire questo romanzo nella categoria delle “opere profetiche”, importanti solo in quanto precorrono i tempi, significherebbe però depotenziarlo della sua portata reale: La Carne è infatti un’opera densa, che fornisce inaspettate chiavi di lettura della realtà, pre o post-pandemica che sia. Un romanzo rigoroso, che inizialmente toglie l’aria al lettore con uno stile tagliente per poi attrarlo all’interno di una irresistibile spirale, in cui si intrecciano vorticosamente due piani: la voce narrante infatti racconta non solo la propria esistenza ai margini di una società distorta, ma anche le vicende di un personaggio che sembrerebbe frutto della sua fantasia, un medico di nome Tancredi.
Ho avuto il piacere di dialogare con Cristò riguardo a quest’opera ed allo strano momento in cui è casualmente riapparsa.
Leggendo La carne mi hanno molto sorpreso le somiglianze tra la situazione raccontata e quella che viviamo oggi. Si tratta però di un libro di cinque anni fa: la scelta di ripubblicarlo è legata alla pandemia? Come se il libro fosse dotato di una specie di “potere predittivo”.
No, in realtà gli editori di Neo mi avevano proposto la ripubblicazione ben prima della pandemia. Riguardo al presunto potere predittivo del romanzo sicuramente esistono delle coincidenze tra la situazione narrata e quella che stiamo vivendo, ma mentre lo scrivevo pensavo a una società bloccata dalle sue stesse distorsioni e, soprattutto, alle vicende umane che il libro racconta.
La struttura del romanzo è una sorta di contrappunto tra il protagonista e Tancredi, il personaggio da lui raccontato. Questa costruzione mi ha ricordato I Fiori blu di Queneau, in cui i protagonisti si sognano reciprocamente. Del resto, anche nel tuo libro il sogno ricopre un ruolo fondamentale. Ti sei ispirato a lui o è un puro caso?
Ho letto I fiori blu moltissimi anni fa e, adesso che me lo fai notare, mi accorgo della somiglianza. Le letture fatte risuonano continuamente in noi e a volte ritornano in incognito. Del resto il tema del sogno nel sogno in letteratura, e non solo, è piuttosto ricorrente soprattutto nel Novecento. Per quanto riguarda La carne il sogno è lo spazio indifeso in cui si libera il pensiero collettivo.
Assieme al libro è disponibile anche la colonna sonora del romanzo da te composta. Cosa ti ha guidato nella composizione della musica?
La musica è il mio hobby di lusso, non mi considero un musicista professionista. Ho composto e registrato la maggior parte dei brani in pochi giorni, una settimana prima che il libro uscisse ufficialmente. Un paio di pezzi, il primo e l’ultimo, invece li ho composti durante il lockdown totale di marzo, quando scrivere mi risultava impossibile.
A cosa era dovuta questa impossibilità?
Il lockdown corrispondeva a un momento di stasi, simile a quello descritto nel libro. In una situazione in cui esiste solo il presente non riuscivo a scrivere storie. Tutto era in attesa. Quale mondo avrei dovuto descrivere? Quello in cui vivevo solo un mese prima o quello, totalmente sconosciuto, che sarebbe venuto poi?
Immagino, correggimi se sbaglio, che in occasione della ristampa e soprattutto per scrivere la musica tu abbia riletto il romanzo. Vorrei chiederti che rapporto hai con la tua opera una volta che è conclusa: senti di averla in qualche modo “superata” o continua a stimolarti, anche solo nel farti notare qualcosa che oggi scriveresti in maniera diversa?
È molto difficile, per me, rileggere opere che considero chiuse perché decidere di aver finito di scrivere un libro è sempre una forzatura. Sento sempre che è possibile migliorarlo ma so anche che potrei continuare a limarlo all’infinito e che probabilmente finirei per peggiorarlo. Decidere che un libro è finito è, per me, trovare un punto di equilibrio tra l’ambizione iniziale e il risultato. In questo caso ho avuto la possibilità di rimettere mano a un lavoro chiuso diversi anni fa e sì, ho apportato qualche cambiamento, grazie anche agli ottimi suggerimenti di Angelo Biasella di Neo, ma nulla di sostanziale è stato modificato.
Il protagonista è dotato di una particolare predisposizione narrativa, si autodefinisce ‹‹la cornice perfetta di una raccolta di racconti potenziali›› e afferma di non aver mai vissuto veramente, ma di aver solo osservato le vite degli altri. Questa condizione di esclusione è anche dovuta alla sua mutilazione, che lo rende sterile. Vorrei chiederti quanto e in che modo questo personaggio si avvicina alla tua idea di “narratore” in generale.
Il narratore, dice Vargas Llosa, è sempre un personaggio, anche quando si identifica nello scrittore stesso, ed è il personaggio più importante di un romanzo o di un racconto perché è l’unico che ha il potere magico di parlare direttamente ai lettori. Nel caso de La Carne il narratore è completamente dentro la storia ma a sua volta racconta una storia parallela, quella di Tancredi che potrebbe essere a sua volta un suo personaggio. Per me la scelta del narratore è la chiave di volta della scrittura, non riesco a cominciare veramente la stesura di un romanzo fino a che non sento il timbro della voce del narratore.
Possiamo dire che La carne è un romanzo distopico. Mi sembra che questo genere abbia un certo seguito oggi, basti pensare alle moltissime serie tv che evocano atmosfere di questo tipo. Al livello letterario, di che salute gode in Italia il genere?
Il genere c’è soprattutto nei romanzi che non sono “di genere”. Credo che ognuno di noi viva una distopia personale; il nuovo secolo ci sta insegnando che non esiste una sola società e che molte dinamiche sociali e politiche che ci sembravano eterne si sono sgretolate velocemente. Credo quindi che la distopia permei le nostre vite molto più di quello che pensiamo. Il realismo è costretto a fare i conti con una realtà che si è rivelata essere molto meno granitica e interpretabile, ma già nel Novecento la letteratura l’aveva intuito.
Per concludere tornerei al punto da cui siamo partiti. Nel tuo romanzo ricorre molto spesso la forte contrapposizione tra due momenti storici: quello che precede la comparsa del “virus cannibalistico” ed il presente in cui il protagonista narra; il primo era un “tempo dell’abbondanza”, in cui vi era sempre qualcosa di nuovo, mentre nel secondo ‹‹sembra non ci sia più niente da raccontare, che non ci sia più nessuno a cui interessi vedere e ascoltare››. Credi che anche la pandemia diverrà uno spartiacque della Storia, che cambierà persino il nostro modo di raccontare storie?
Quello che racconto nel romanzo credo sia il sentimento dominante della generazione a cui appartengo, quella che ha vissuto a pieno il Novecento e poi ha fatto il salto di secolo. Essere bambini negli anni Ottanta significava avere la testa piena di promesse di crescita e prosperità senza fine. La disillusione non è stata facile da digerire. Per quanto riguarda la pandemia da Covid credo che essa rappresenti la vera fine del Novecento, il grande evento che mette in crisi le vecchie regole e che lo fa senza mezzi termini. Da ora in poi siamo davvero nel nuovo secolo e dovremo cominciare a riscrivere la società e a ridiscuterne le priorità.
Giacomo De Rinaldis