«KURT: […] ciascun uomo, in una simile umanità, sarà a tutti gli effetti un dio. Il dio Horst, il dio Max, il dio Fritz, il dio Heinrich, il dio Ludwig e così via.
TERZO UFFICIALE SS: Anche il dio Kurt, immagino?
KURT: S’intende, anche il dio Kurt.»
(A. Moravia, Il dio Kurt, in A. Moravia, Teatro, II, Bompiani, 1998)
«EDIPO: Il cervello è una macchina furba e idiota, che natura ci ha fabbricato studiandola apposta/ per escluderci dallo spettacolo reale, e divertirsi ai nostri equivoci.»
(E. Morante, La serata a Colono, ne Il mondo salvato dai ragazzini, Einaudi, 2020)
Nello stesso anno in cui Alberto Moravia finì di lavorare al testo che sarebbe diventato il suo pezzo di drammaturgia più noto, Il dio Kurt, Einaudi dava alle stampe l’ultima fatica di quella scrittrice che oltre a essere nella forma ancora sua moglie, prima della separazione aveva frequentato assieme a lui i medesimi ambienti letterari. Si trattava di una silloge poetica, Il mondo salvato dai ragazzini: una bomba a orologeria la cui carica innovativa è stata in un primo tempo sottovalutata, e che rivelava già nel titolo il presentimento del bollore culturale che avrebbe di lì a poco raggiunto anche l’Italia. Fin qui niente da stupirsi. Ma se aggiungessi che quello era in realtà un anno molto particolare, il ’68; se aggiungessi che con Il dio Kurt Moravia dava una riscrittura dell’Edipo re di Sofocle; se aggiungessi che il libro della Morante nascondeva, nella sua seconda parte, l’unico testo teatrale mai composto dall’autrice; se aggiungessi che quel testo, La serata a Colono, rimodulava l’Edipo a Colono sofocleo: insomma, in tal caso le cose cambierebbero.

Ma la lista delle coincidenze non è ancora terminata. Pasolini, per esempio, amico di entrambi, l’anno prima aveva diretto il suo Edipo re, e l’anno prima ancora aveva scritto Affabulazione – opere che presentano veri punti di possibile confronto specialmente col testo morantiano. Intuiamo quindi come, a dispetto della grande distanza che separa le due opere per motivazioni, obiettivi e mezzi, un accostamento tra Il dio Kurt e La serata a Colono possa in fin dei conti non essere poi così azzardato. A maggior ragione qualora si considerino le opere tanto nel loro inserirsi sulla scia di una medesima tradizione – i possibili rovesci del mito di Edipo – quanto nel loro condividere certi elementi distintivi cui il mito si pone al servizio.
Una forte componente metateatrale condiziona infatti l’intreccio logico di entrambi, affiancata dai richiami – sottotraccia in Moravia, espliciti in Morante – a quell’immaginario di implicazioni e problematicità che qualsiasi figura di folle, di pazzo, di uomo in preda al delirio, vero o simulato – e simulato nell’istante dall’attore –, è sempre in grado di riproporre sulle tavole di un palcoscenico. Un’ipotesi di concorrenza sistematica di questi due elementi riceve conferma spulciando tra le opere di uno dei coetanei più apprezzati da Moravia, Peter Weiss, da cui forse ha preso ispirazione replicando in modo personale alcuni tratti del Marat/Sade (1964), scritto in versi come La serata a Colono e ambientato allo stesso modo in un ospedale psichiatrico.
Ma il Marat/Sade e le drammaturgie di Moravia e Morante non sono certo le uniche opere a presentare una corrispondenza tra l’espediente della recita nella recita e una riflessione sulla fragilità dei sistemi di pensiero: i testi pirandelliani ne forniscono un esempio lampante. Una linea strategica che ora il mito di Edipo grava di un bagaglio di allusività pesante secoli. In effetti tanto la vicenda edipica quanto la struttura metateatrale si prestano a un gioco di decostruzione dell’idea di esperienza come blocco fenomenico unitario.
La narrazione del passaggio da una verità a un’altra, antonomasia dei disturbi novecenteschi per eccellenza, mito di cerniera tra due mondi culturali e storici diversi, si colora della presenza multipla di vari livelli del reale: teatro nel teatro, cornice teatrale, cornice situazione-teatro della cornice teatrale, eccetera, con conseguente confusione tra i piani della finzione e della realtà, specialmente nel caso in cui tra i protagonisti figuri un personaggio bollato come folle. La follia – non la malattia della psiche, ma il suo immaginario nella letteratura – è per definizione teatrale: il folle finge e crea tanto quanto, alle sue spalle, il drammaturgo.
Quando una struttura metateatrale fa proprio argomento un mito come quello di Edipo, incentrato sulla verità e sui punti di vista, ecco che tutte le verità, scoperte o abbandonate, perdono ogni valore nel momento stesso in cui viene ribadita la loro debolezza: una macchina di specchi nata per sprigionare un intero spettro di prospettive differenti, e insieme un gioco di scatole cinesi, dove le cornici esplicano o implicano il dibattito imposto dal loro nucleo mitico. Per comprendere nello specifico il gioco tra contenitore e contenuto nei testi di Moravia e Morante sarà necessario dare qualche indicazione sulla trama.
All’inizio de Il dio Kurt ci troviamo in un piccolo teatro allestito alla meglio all’interno di un campo nazista, dove il maggiore delle SS Kurt dichiara davanti a un pubblico di colleghi e deportati di aver vestito i panni e i meccanismi d’azione del Fato nella tragedia greca, e di aver architettato un piano, poi andato a buon fine, per mettere in scena una versione “vissuta” dell’Edipo re: una volta fatto entrare l’ex attore ora prigioniero Saul, Kurt svela all’ebreo di averlo spinto a sua insaputa a unirsi con la madre e a uccidere il padre.
Lo scopo di Kurt è un esperimento culturale, di cui cavie non sono solo il pubblico del campo e i membri della famiglia di Saul, ma anche gli spettatori di entrambe le rappresentazioni: Kurt vuole dimostrare come il Fato del mito, quella moralità di ispirazione divina basata sulle regole dell’equilibrio familiare, sia obsoleto, nonché dannoso per l’uomo e contrario al pensiero nazista, che vuole la razza ariana libera e padrona di sé quanto degli altri. Una condizione raggiungibile al costo di abolire la morale e con essa la coscienza di un concetto di famiglia – l’incesto e la tragedia hanno senso fintantoché una famiglia esiste –, di sostituire al Fato greco un nuovo Fato, quello che Kurt ha sempre agito in quanto SS.
La serata a Colono si serve invece del mito di Edipo al suo punto estremo di arrivo: dopo cecità e pellegrinaggi infiniti insieme alla figlia e sorella Antigone, Edipo ha raggiunto l’ultima fermata della vita, la stazione finale di una Colono che non è Colono, ma il reparto neuro-deliri di un policlinico. Perché nella stessa misura in cui la quattordicenne analfabeta Ninetta non è Antigone, Edipo non è Edipo ma un vecchio, alcolizzato e tossicodipendente, che tra un sedativo e l’altro vaneggia il proprio mito, e che nella cecità è divenuto incapace di dormire per l’impressione che sia sempre giorno: nella sua pretesa di conoscenza ha perso la vista e crede di essere accecato dalla luminosità del sole nel pieno della notte.
Sebbene i rispettivi autori abbiano scelto pretesti metateatrali diversi e creato due punti di contatto distanti con il contorno storico, sociale e culturale in cui le scrissero, appare chiaro come il cuore di entrambe le opere pulsi là dove alza la voce il loro interrogatorio sulla necessità, ovvero l’illusorietà, di un grado più o meno alto di autocoscienza nel vivere umano. Il primo passo di questo interrogatorio consiste nell’accettazione del continuo ribaltarsi di prospettive cui è sottoposta l’esistenza. La follia si può sempre concretizzare: è uno status mentale bandito dalla realtà, quindi non esiste se non se non come parametro relativo, in dipendenza dal pensiero dominante di un determinato momento storico e sociale: Edipo e Kurt sono personaggi – anche quando nel male più assoluto o nell’errore – controcorrente, che rappresentano modi di pensare alternativi.
Kurt dimostra come il pensiero tradizionale sia naufragato nel mare di indifferenza che ha permesso il nazismo. Valori, eroi e numi tradizionali vengono sostituiti da una società-lager dove un gruppo di uomini-dei, insieme potenti e miseri, sindaca sulla sorte di altrettanti uomini passivi, una società dove ognuno è ligio al proprio copione e abbastanza insofferente da non reagirgli. Non più individui, non più eroi da tragedia, ma etichette, masse di singoli chiusi nel loro bozzolo e sospinti nelle direzioni dettate dalle circostanze, insiemi polarizzati nel rapporto dicotomico tra vittime e carnefici. L’esperimento di Kurt, nella sua assurdità, riesce. Se Celan e Adorno sostenevano che non ci potesse essere poesia dopo Auschwitz, era perché niente sarebbe mai potuto tornare come prima. Seppure in un senso molto diverso da quello assunto dal discorso di Celan e Adorno, appare chiaro che la “parentesi” nazista abbia in realtà comportato un’irreversibile rivoluzione di pensiero anche in altre zone dell’esperienza umana, e Moravia sembra, con il dio Kurt, prenderne atto.
Elsa Morante registra con Il mondo salvato dai ragazzini un desiderio di annullamento dell’io simile. Nella babele di voci del mondo moderno – il coro – urge il bisogno di un’eterna pace dei sensi, da raggiungere al più presto e con qualsiasi mezzo, sia esso la droga o la morte: il ritorno a quel posto da dove veniamo, l’unione con Giocasta. Edipo è stato cresciuto, da bambino, nell’adorazione di Apollo dio del Sole, cioè in una beatitudine divina e indifferente. Dopo che questa gli è stata preclusa dal dio stesso con i suoi oracoli, Edipo ha vanamente speso l’intera vita al servizio di un unico desiderio: risolvere il mistero di quella beatitudine, comprenderla e ottenerla indietro. Adesso invece, nella confusione del neuro-deliri, desidera soltanto la morte, un sonno eterno che gli permetta recuperare proprio quella condizione di inconsapevolezza originaria che era in realtà il segreto del suo idolo: la figura di Apollo si fa metafora dello stato di incoscienza caratteristico dei bambini, così come degli animali e di tutto ciò che non è umano e quindi pensante.
Non si creda infatti che alla ricerca dell’annichilimento la Morante non contrapponga un secondo atteggiamento verso il mistero dell’esistenza, anch’esso folle e alternativo. L’autrice elegge a rappresentante di questa possibilità la giovane Antigone, che a fronte delle litanie sciorinate dal padre, dimostra in un paio di versi ingenui di aver conosciuto da sempre la soluzione all’enigma più semplice ma più spaventoso al mondo, quello della Sfinge – quello della vita. L’errore di Edipo risiede nel suo tentativo di decifrare la logica alla base dell’ordine naturale delle cose, della sorte del singolo quanto dell’umanità. Ma l’inettitudine dell’uomo rispetto a questo compito, il fatto cioè che il senso delle cose gli risulti incomprensibile, rende ininfluente la presenza o meno di un senso: l’inconsapevolezza, la serenità e la gioia del lasciarsi vivere – proprie degli ingenui, come lo è Antigone – sono condizioni molto più vicine al mistero dell’esistenza di quanto lo sia l’angoscia lasciata da un’inutile operazione di raziocinio.
La dicotomia si ripresenta qui, nel testo della Morante, al livello del rapporto tra categorie di individui detti potenti e individui detti deboli secondo i parametri del pensiero comune: tra adulti e ragazzini, tra forti e vecchi, tra ricchi e poveri, tra colti e analfabeti, tra sani e “matti”. Sono, i secondi, coloro che abitano il mondo liberi dalla fatica del grigiore moderno, graziati in ragione di quell’ignoranza che li rende ancora capaci di meraviglia e di forza vitale: i Felici Pochi tra gli Infelici Molti. Chi insomma sa già da sé che, a dispetto della morale sofoclea, la realtà è come appare. Così, Felici Pochi e Infelici Molti, sono definite dalla Morante stessa queste due categorie: in un mondo stratificato come il nostro, cercare di rompere il velo di Maya significherebbe rompere al massimo un velo e impazzirne; felice risulta quindi chi resta in grado di accogliere la realtà in maniera empirica, per come questa appare ed è, senza caricarla di significati.
Le due categorie non si identificano in possibili soluzioni al mistero dell’esistenza, che in ogni caso rimane inavvicinabile. La Morante non avanza proposte, ma mette in scena gli atteggiamenti che le classi da lei teorizzate adottano di fronte a un simile mistero – senza preoccuparsi di dimostrare una certa simpatia per il modello Antigone e un certo compatimento per il modello Edipo, cui si sente suo malgrado più simile. L’appartenere alla classe dei Felici Pochi, la capacità di assumere l’atteggiamento che tra i due non è forse il più semplice, ma è il più istintivo e naturale, costituisce un dono, e raramente dipende da una scelta. I restanti Infelici, quando fanno scoperta della propria infelicità – scoperta non ovvia –, non possono che cercare nell’annullamento di qualsiasi forma di pensiero un rimedio al danno della consapevolezza.
Il motivo per cui allora la Morante abbia scelto di fare di Edipo il protagonista de La serata a Colono è lo stesso per cui il personaggio di Kurt porta la divisa. Il problema posto dai due testi è infatti anche un problema di potere. Come Kurt aspira a rimpiazzare il Fato nella sua smania di prevaricazione e controllo, così Edipo si macchia della colpa di voler risolvere col raziocinio l’enigma di Apollo – “conosci te stesso” – nella sua brama di rimpiazzare il mistero, il dio, con la propria soluzione: il parricidio. Edipo lo storpio si elegge a “Edipo re”, e smette di vedere. In entrambe le drammaturgie il potere è veicolato dalla forza creatrice della parola, arma col doppio taglio del bene e del male nell’uso che ne si fa, fascino persuasivo e leva scardinante (Il dio Kurt); ma insieme mezzo limitato nella sua attitudine a descrivere ma non a spiegare (La serata a Colono). Ne consegue un implicito paragone tra personaggio e drammaturgo. Alla luce dell’accostamento tra i due, quest’ultimo, come il primo, risulta innalzato nelle sue responsabilità di comunicatore e ridimensionato nei limiti più umani della sua arte
Messo a fuoco il loro complesso meccanismo di funzionamento, non resta che chiedersi a quale genere di teatro le due opere appartengano e se per i due autori il mito di Edipo possa essere riproposto ancora oggi. Quanto alla prima domanda, questa prevederebbe una risposta più semplice di quella che nei fatti bisogna dare. Il dio Kurt, definito da Moravia “tragedia”, ha per unico eroe un antieroe diabolico che mette in scena proprio la morte della tragedia; La serata a Colono si presenta come una “parodia”, ma si dimostra tale solo nel senso di un “controcanto” il cui finale tarda a essere comico o addirittura edificante.
Non che la seconda domanda sia poi di più facile soluzione della prima. Se dovessi dare un responso univoco, mi limiterei a far notare come l’Edipo sofocleo venga messo totalmente sottosopra dal messaggio dei due testi. Ma se d’altronde l’essenza del mito è proprio questa, l’idea di illusione implicita in qualsiasi verità data per certa, perché non ammettere che esso potrebbe ancora servire al nostro presente? Servire anche solo per ricordare, come suggerisce il titolo di una delle più belle riscritture dell’Edipo, che la vita è sogno, oppure, citando un altro testo teatrale di Moravia, che la vita è gioco. La Morante non manca di aggiungersi al coro: «È uno scherzo, è uno scherzo, è tutto uno scherzo».
Elisa Ciofini
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