Ormai da un po’ di tempo qui al Rifugio dell’Ircocervo ci interessiamo di recupero letterario: abbiamo avuto l’occasione di discutere questo tema con editori e realtà indipendenti che se ne occupano quotidianamente e da un anno contribuiamo alla diffusione dei racconti delle riviste letterarie del passato con Vite Subacquee, la nostra newsletter.
Non potevamo lasciarci sfuggire l’occasione di parlare di recupero letterario direttamente con una persona che ne ha fatto l’oggetto del suo ultimo libro: Giulia Caminito. In Amatissime, il suo ultimo lavoro per Giulio Perrone Editore, Caminito ripercorre alcuni momenti della vita e delle opere di cinque scrittrici fondamentali del nostro Novecento: Elsa Morante, Paola Masino, Natalia Ginzburg, Laudomia Bonanni e Livia De Stefani. Non si tratta però di una semplice raccolta di saggi biografici: le vite delle scrittrici sono intrecciate a quelle dell’autrice e creano una geografia di rimandi e connessioni che restituisce respiro al loro lavoro, evidenziandone la centralità nella nostra storia letteraria.
Vorrei partire da un dato personale: mi ha colpita molto come in Amatissime descrivi il tuo rapporto con Elsa Morante. Tramite l’esperienza di tua madre, per te la scrittrice è sempre stata quasi una persona di famiglia. Anche io sono cresciuta in una casa piena di libri, ma con pochi libri scritti da donne: alle scrittrici mi sono avvicinata in seguito e in autonomia. La vicinanza, fin dall’infanzia, tra la tua vita e quella delle scrittrici che racconti mi è quindi sembrata molto significativa e interessante.
Come racconto nel libro, sono cresciuta in una famiglia di bibliotecari: mia madre ha sempre scritto e quando io ero piccola pubblicava libri per bambini e bambine. Quindi ho sempre considerato la scrittura come un mestiere possibile e, soprattutto, possibile per una donna.
Mia madre si è laureata in lettere e quando è uscito La Storia ha deciso di fare una tesi sulla sua autrice. È rimasta folgorata da Elsa Morante e dalle sue idee: probabilmente per la sua generazione alcune scrittrici, Morante tra queste, sono state importanti perché hanno qualificato la scrittura delle donne come all’altezza della letteratura generale. Per molto tempo, come sappiamo, nonostante le donne scrivessero degli ottimi romanzi e racconti non sono state considerate al pari degli scrittori. Esiste ancora il pregiudizio per cui le donne scriverebbero libri più commerciali e meno interessanti mentre la vera letteratura è quella prodotta dagli uomini. Mia mamma è sempre stata una donna anticonformista da questo punto di vista: non è mai stata un esempio di donna di casa, ma di donna che sta nel mondo e conosce tante cose.
La presenza di Elsa Morante l’ho capita nel tempo: in casa mia c’erano due locandine con la sua immagine, penso di mostre degli Anni Ottanta che lei era andata a vedere. Morante quindi come immagine e immaginario ha fatto sempre parte della mia vita, solo crescendo mi sono resa conto di chi era, e che scrittrice è stata, e quale è stato il suo apporto alla letteratura. Fino a che non ho finito l’Università facevo a volte delle riflessioni su questo, ma non mi rendevo conto di quanto le donne fossero state e fossero ancora ostracizzate da certi livelli di riconoscimento – pur avendo studiato Filosofia, e le filosofe studiate sono ancor meno delle letterate. Dopo è affiorata questa passione trasmessa da mia madre e con il lavoro in casa editrice è iniziata la mia ricerca nelle biblioteche e negli archivi alla scoperta di altre scrittrici del Novecento.
È vero, la scrittura femminile è stata spesso dismessa come sentimentale: nella mia esperienza questo può essere anche un punto di forza, tra le autrici dimenticate del passato è facile trovare delle prose belle e vive che raccontano l’amore in un modo molto efficace per il presente, e forse un po’ troppo in avanti per il suo tempo. Questo capita meno con gli autori uomini.
Dal punto di vista della narrativa degli uomini c’è ancora molto da recuperare soprattutto fra chi si è allontanato molto dai generi e ha sperimentato tra i registri linguistici, ad esempio con il comico e l’umorismo.
Per quanto riguarda le donne, nel Novecento scrivevano di tanti temi, soprattutto riguardo le relazioni, da un punto di vista femminile. Cosa voleva dire trovarsi all’interno di un matrimonio costretto, cosa voleva dire essere un’adultera, essere una giovane adottata, essere un’insegnante in un piccolo borgo con un marito possessivo, la famiglia, la maternità, i rapporti con le altre donne, il fatto che essere donne irregolari causasse soltanto infamia. Insomma, raccontano tutta una parte di mondo che esisteva e che accadeva: e lo fanno con una lingua molto viva e molto brillante che anticipa linguisticamente i tempi. Noi magari ci immaginiamo dei registri vetusti e antiquati, invece c’era anche grande sperimentazione di vocabolario.
Non considerare le donne vuol dire non avere un quadro completo di quello che si scriveva nel corso dei secoli, avere uno sguardo di parte sul mondo dando per scontato che l’altra parte non stesse facendo nulla o che, se scriveva qualcosa, si trattava di cose poco interessanti. Questa è una grande menzogna culturale che piano piano oggi le generazioni più giovani e le donne stanno smantellando, tirando fuori studi e articoli sulle scrittrici in modo da riqualificarle e riportarle al loro giusto peso letterario.
Parlando della difficoltà che le scrittrici provavano nel trovare il proprio posto e la propria voce, in Amatissime tu descrivi una incredibile rete di scrittrici, una Roma che nel Secondo Dopoguerra era un centro di scambio e sorellanza. In particolare, la tua descrizione del romanzo breve È stato così nel capitolo su Natalia Ginzburg mi ha ricordato molto Dalla parte di lei di Alba de Céspedes, ci ho trovato la stessa rabbia verso il potere che hanno gli uomini di rendere le donne infelici. Questa commistione quindi non riguardava solo le amicizie, ma anche i contenuti, come se queste donne stessero in qualche modo scrivendo un romanzo collettivo. Come hai ricostruito questa rete di contatti e di donne?
Il potere che gli uomini hanno avuto sentimentalmente sulle donne è un tema cardine della produzione delle scrittrici anche nel secondo Novecento, quel che Morante chiama il voler essere amate e che viene declinato in moltissime forme. Penso ad esempio a tutta la vita e la scrittura di Sibilla Aleramo, a Pia Rimini, che ha scritto dei racconti dolorosissimi soprattutto sul potere degli uomini sulle donne più giovani. È un tema che ritorna, e non è una questione di sentimentalismi, ma di dinamiche di potere che passano attraverso l’emotività e i rapporti sociali. Tutte queste scritture hanno contribuito a guardare alla donna dalla prospettiva della donna, dalla parte di lei per l’appunto.
Questa ricostruzione la devo ad alcuni libri che si sono occupati della scrittura delle donne e del loro ruolo nell’editoria nel Secondo Dopoguerra. Quando ho iniziato a tracciare la scrittura di Amatissime, mi sono resa conto che tutte queste autrici erano passate da Roma, e poi facendo degli studi mi sono accorta che Roma era dopo la guerra un luogo di passaggio per moltissime altre come loro, che lavoravano, che scrivevano; a partire da Mercurio, che è stata un’importantissima rivista del dopoguerra dove hanno scritto moltissime autrici. Molte di loro si conoscevano, erano amiche, si scrivevano e facevano progetti insieme, parlavano dei loro libri ed esprimevano opinioni sulla scrittura dell’una e dell’altra. Ci sono stati dei legami molto interessanti anche tra le autrici di cui parlo nel libro, per esempio tra Paola Masino e Livia De Stefani, oppure tra Natalia Ginzburg ed Elsa Morante. Natalia Ginzburg è stata l’editor di Elsa Morante e colei che ha fatto pubblicare in Einaudi Menzogna e Sortilegio.
Non dobbiamo immaginarla come una rete angelica e solo sororale, c’erano anche discussioni, dispute e antipatie, ma le donne sapevano che se non si fossero considerate tra di loro non sarebbe arrivato qualcuno dall’esterno a fornire quell’attenzione. La rete quindi è un modo di fare letteratura che permette a tutte di coesistere, di conoscersi e di far parte dello stesso ambiente. Quando il Premio Strega è stato creato c’erano moltissime donne che ne facevano parte, non da ultima Maria Bellonci che insieme a Goffredo Bellonci lo ha fondato. È stato molto interessante cercare di mappare in parte queste corrispondenze e questi incontri.
Le ultime due scrittrici di cui parli nel libro sono Laudomia Bonanni e Livia De Stefani: sono due nomi quasi sconosciuti per i non addetti ai lavori e ci portano nel vivo del momento in cui il recupero letterario è diventato il tuo lavoro. Come hai scelto queste due autrici? È stata una scelta facile e naturale o ci sono state delle indecisioni?
In realtà sono entrate molto naturalmente: mi sono appassionata fin da subito a Laudomia Bonanni e Livia De Stefani, erano due delle scrittrici che erano state ripubblicate da Elliot nella collana Novecento italiano e tra le autrici del catalogo erano tra quelle che mi interessavano di più e mi sono piaciute maggiormente nella loro scrittura. Mi interessava che fossero due scrittrici molto ben inserite nella società letteraria del periodo e abbastanza rinomate, tradotte all’estero – Bonanni ha anche vinto dei premi -, pubblicate da grandi editori, l’una da Bompiani e l’altra da Rizzoli, eppure completamente rimosse.
A partire da questo mi sono interessata molto alle loro vite. Sono stata anche fortunata, perché Gianfranco Giustizieri, il più grande studioso di Bonanni, mi ha da subito accolta e guidata in questo percorso: i libri di Bonanni hanno iniziato a far parte della mia vita. Dall’altro lato, ho conosciuto le eredi di De Stefani e anche in questo caso si è creato un legame piuttosto stretto, hanno scritto un racconto della nonna dal loro punto di vista per Letterate Magazine. Quindi, pensando a due scrittrici molto rinomate e molto rimosse, non potevo non includerle, non ho avuto dubbi.
Ho avuto invece dubbi su Morante e Ginzburg, perché sono due scrittrici note e avevo un po’ di timore ad approcciarmi a loro nella scrittura. Ma dovendo scegliere delle scrittrici per delle tappe della mia vita sarebbe stata una forzatura estrometterle, dato che sono così significative per me. Quindi ho pensato che se avessi trovato un angolo da cui raccontarle forse sarei riuscita a dire qualcosa di interessante.
Vorrei concludere chiedendoti quale pubblico ti sei immaginata mentre scrivevi questo libro, e se l’hai immaginato come uno strumento utile per i ragazzi nelle scuole per interpretare il presente tramite la letteratura.
Non ho pensato a un pubblico, ho pensato solo a chi potesse essere interessato a capire qualcosa di diverso su queste scrittrici e su cosa può muovere una persona a fare questo recupero. Il libro si occupa di genealogia, cioè del fatto che ad un certo punto noi ci siamo chieste chi sono le nostre antenate e abbiamo dovuto cercarle piuttosto che trovarle sul cammino.
È una scoperta per assenza: ci chiediamo perché non ci siano scrittrici sul programma, perché non abbiamo libri di scrittrici da leggere durante le vacanze, perché sembra che le donne siano assenti dal contesto storico. Una presenza per assenza che porta alcune di noi a fare ricerche. Sarei molto contenta se questo libro fosse letto nelle scuole, magari per poi approfondire le opere di una delle scrittrici che io nomino.
Sono fiduciosa che possa avvicinare a degli approfondimenti, adattamenti cinematografici, articoli, anche pagine social e riviste come la vostra. Quando vado nelle scuole invito sempre gli studenti e le studentesse a mettersi alla prova cercando online qualcosa di interessante a cui magari non si riesce ad accedere nello studio, cercare quello che vogliamo studiare. È anche un’educazione ad un rapporto positivo con i social media e con internet che potrebbe diventare parte integrante con la didattica.
Intervista di Loreta Minutilli