Un modo tutto umano di raccontare Maria

Si vede che non era destino, Daniele Petruccioli
(Terrarossa, 2023)

In questo ultimo romanzo di Daniele Petruccioli, pubblicato con Terrarossa come il suo esordio narrativo La casa delle madri, la narrazione ha origine da una contorsione dello sguardo, un’acrobazia fatta per raggiungere l’altra sponda della Storia: lungo la trama si impilano il racconto dell’annunciazione, della nascita e poi della vita di Cristo, raccontati dal punto di vista di Maria.

Nel riposizionare l’angolatura di questo punto di vista storicamente estromesso dalla sua propria storia, l’autore gli consegna protagonismo e centralità assolute: tutta la materia narrata s’imbeve negli umori di questa «voce bambina», come lui stesso l’ha definita in un’intervista.
Maria ha quattordici anni quando capisce di aspettare un bambino: la sua è una gravidanza dall’origine misteriosa, estranea, persino inquietante, com’è inquietante per una giovanissima vergine, promessa sposa a un caro amico, il pensiero di dover ammettere sì di essere incinta, ma senza aver mai conosciuto un uomo.

Se questo rappresenta già qualcosa di straordinario, ci sono poi altri aspetti della personalità di Maria che sgusciano fuori da ciò che, da famiglia e società dell’epoca, è considerato generalmente accettabile o normale. Fin da piccolissima infatti Maria scivola di frequente in stati di trance: si assenta, i suoi occhi si fanno di vetro e l’espressione opaca.

In quei momenti nessuno può scuoterla da tali stati di torpore: quel vuoto che le illividisce il volto la inghiotte per minuti eterni, a volte anche per ore intere. Mentre questo è ciò che si vede dal di fuori, il lettore — che tasta le cose attraverso lo sguardo di Maria —  sa cosa succede al suo mondo interiore durante quelle assenze: si sente investita da un argento che si sparge piano tutt’intorno:

«A un certo punto, tutto il mondo era foglie di ulivo. Tutto era morto e brillava. Il cielo si era diviso in centomila pezzettini d’argento gelato e sfarfallante, l’orizzonte non esisteva più, si era fuso con il centro della terra e vomitava argento sulle colline e sopra i campi tutto intorno. Tutto era immobile. Come me. Era come se il mondo volesse salutarmi. Era tanto bello» (p. 20)

È come se Maria vivesse dei momenti di estasi panica, dove tutto ciò che la circonda è spalmato d’argento; nel risalire a galla, trova sempre faticosissimo rassicurare sua madre e suo padre in merito allo stato — per loro spaventoso e incomprensibile —  in cui fino a poco prima era precipitata: «Tutto era dolorosissimo e tranquillo, immobile, di pietra e luce. Era mio, lo è sempre stato, l’ho sempre saputo, questo mondo morto e brillante, solido, da cui mamma e papà mi hanno sempre voluto salvare. Solo che non si può» (p. 14).

In più, durante quelle parentesi di tempo Maria ha delle visioni: si percepisce attorniata da voci a cui dà l’aspetto di “bambini”.
Mentre la sua vita prende a cambiare e iniziano i trasferimenti — lo sradicamento da casa, il parto in una stalla, una vita nuova altrove, Ieshua che nasce, cresce, sgambetta per casa, ciarla e parla e poi cammina spedito, da solo, e all’improvviso è già troppo grande e troppo saggio per la sua età —  i ‘bambini’ vanno e vengono. Si alternano periodi di latenza, in cui se ne stanno acquattati da qualche parte nella galassia visionaria di Maria, a momenti in cui tornano a formicolarle intorno. Scopre poi che fanno compagnia anche a Ieshua, ma anche dal suo sguardo ogni tanto spariscono.

È proprio Ieshua bambino a chiarire alla madre, con fare laconico eppure già illuminato, che quei bambini sono tutt’altro che ectoplasmi o larve di sogno: essi rappresentano piuttosto un modo di vedere il mondo. Perciò Ieshua ha il terrore che non ricompaiano più: «Andandosene, si portano anche via gli occhi con cui ero capace di vederli. Ho paura, se perdo loro, di perdere anche quelli» (p. 89).

In questo esprimere uno sguardo sulla realtà, i bambini sono un simbolo, un modo (dopotutto laico, neutrale, perché Maria non li chiama mai “angeli”) per intendere la fede, che è a sua volta una maniera di vedere le cose e di sentirsele addosso.

In questa trinità rivoluzionata raccontata da Petruccioli, dove si intravede un po’ di spazio per la Madre che nella trinità canonica neppure è contemplata, Ieshua, che si è abituati a conoscere come protagonista, è ermetico, distante, e il lettore fa fatica a entrare in comunicazione con un personaggio tanto sibillino. Di contro, Maria gronda di un’umanità dolorosissima, e dell’umano ha tutti i limiti e le risorse e i tifoni emotivi.

La lingua di Maria è paratattica, formulare, rimastica continuamente alcune frasi fatte, cristallizzazioni di un sapere popolare; prima fra tutte la frase che dà il titolo al romanzo, che Maria si ripete continuamente: si vede che non era destino.
In questo stile dopotutto semplice, sorgivo, Maria esprime in realtà una personalità combattuta. Il suo ragionamento procede per una logica interna che si vorrebbe a maglie strette, e che pure deve concedersi di sfrangiarsi quando scopre inservibili le chiavi di lettura con cui è stata educata a valutare ciò che è giusto o sbagliato.

Infatti, non solo Maria ha avuto un figlio in una maniera che non capisce e non si sa spiegare, ma in più quello stesso figlio che adesso le cresce intorno è per lei qualcosa di sconosciuto e illeggibile: procedono gli anni, e alcuni comportamenti di Ieshua finiscono per irritarla o farle paura. Perciò più che una parabola d’amore incondizionato, la storia di Maria coincide con un perpetuo e pervicace tentativo di comprensione: «Passo la vita per cercare di spiegare mio figlio a me stessa» (p. 173). Per addentrarsi almeno di qualche passo nell’imperscrutabilità prodigiosa ma anche terrificante di suo figlio, che è anche il Figlio di Dio, ma in questa storia è in primo luogo sangue del suo sangue, amatissimo alieno.

Non c’è il rischio di svelare il finale di una storia il cui epilogo è noto a tutti se ci concediamo di dire anche che, verso la fine, l’autore cesella un’immagine bellissima, che ricalca poi quella della pietà delle braccia di Maria che reggono il corpo senza vita di suo figlio: come in una lungimirante previsione, che un po’ la arma rispetto al dolore che verrà, Maria dice: «[…] sono cresciuta tutta di lato. Preferisco starmene in disparte, guardare le cose un poco da lontano, prepararmi ad aprire le braccia e accogliere i protagonisti al momento della caduta» (p. 191).
Che è poi un modo tutto umano e lacerante di reagire al dolore.

Viviana Veneruso

Immagine di copertina: Dettaglio de La Pietà Vaticana di Michelangelo – dominio pubblico (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Roma_2010_(5047066167).jpg?uselang=it)

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