L’acqua del lago non è mai dolce, Giulia Caminito
(Bompiani, 2021)
«Questa non è una biografia, né una autobiografia, né una autofiction»: così Giulia Caminito nella nota conclusiva del suo nuovo romanzo edito da Bompiani e già proposto, a poco più di un mese dalla sua uscita, come candidato per il Premio Strega 2021 da Giuseppe Montesano. L’acqua del lago non è mai dolce è, piuttosto, una storia che ha inghiottito brandelli di vite di una generazione, li ha lasciati depositare sul suo fondo e infine ne ha fatto impasto narrativo di potenza vorticosa.
Tutto è vortice in questo romanzo, a partire da Antonia la Rossa, donna tenace, madre feroce, attorno alla cui figura ruotano succubi un marito rimasto invalido a seguito di un incidente sul lavoro e quattro figli: due gemelli, Mariano, avuto dal precedente compagno e presto svincolatosi dalla forza travolgente della madre, e Gaia, che tenta di fare lo stesso. Antonia si impone fin dalla scena iniziale con l’istinto animale di chi fa di tutto per mettere al riparo i suoi cari da un sistema che li condanna alla loro povertà: è lei che porta avanti la famiglia con lavori in nero, è lei che lotta con unghie e denti per poter dare loro una casa – e alla fine riesce a portarli da Roma ad Anguillara Sabazia, sulle rive del lago di Bracciano.
Ma è Gaia la vera protagonista e voce narrante del racconto: ragazza dal carattere timido, schivo e tagliente – che stride col suo nome, tanto che viene nominato solo una volta nel romanzo – Gaia cresce barcamenandosi in questa famiglia, povera e sgangherata, appartenente al proletariato del secondo millennio, che nulla possiede e tutto rincorre con quell’ansia di chi è consapevole di non avere nemmeno i mezzi per partecipare alla gara. La loro è una povertà irriducibile e Antonia è convinta di poterla riscattare mandando la figlia in una scuola di Roma:
«L’unica figlia femmina deve saper studiare, eccellere, andare all’università, diventare medico, ingegnere, entrare nella finanza, pubblicare romanzi e soprattutto leggere, compulsivamente, senza possibilità di tregua.»
Gaia accetta questa responsabilità con spirito di abnegazione: frequenta le scuole dei ricchi grazie ai sacrifici della madre, prima le medie, poi il liceo classico e infine l’università, ma la sua povertà è un marchio indelebile e presto deve imparare a difendersi da sola dagli attacchi di chi vede la sua diversità come ferita su cui infierire. L’autrice sviscera in modo chirurgico una vita dove non succede nulla di eclatante, riuscendo a dar voce al vuoto e al dolore di una generazione: gli amici, i ragazzi, il sesso, la violenza. L’unico obiettivo di Gaia è quello di farsi spazio, cercare un posto nel mondo – o perlomeno rimanere a galla e non affondare; studia senza passione per rispettare il “patto sociale” inseguendo il miraggio del giorno in cui potrà emanciparsi (soprattutto dalla madre, presenza ingombrante cui tutto rimanda con moto vorticoso e centripeto).
La penna dell’autrice scava in un passato pericolosamente recente, quello degli anni Duemila, consapevole di compiere un’operazione coraggiosa: racconta di cosa significhi essere giovani in una società che fa tante promesse senza mantenerle, che corre e non aspetta nessuno, che scava un baratro di ingiustizie tra ricchi e poveri, visibili e invisibili, che non concede la prospettiva del futuro. Narra di un presente che verosimilmente qualsiasi lettore conosce e ha vissuto sulla sua pelle e lo fa con una rabbia che sta perfettamente in bilico tra la distanza e l’immedesimazione. Scava e crea un vortice che non lascia scampo: non c’è idillio, non c’è redenzione, non c’è formazione in questo romanzo che si chiude su se stesso. Indicativo è il fatto che sia scritto interamente al presente: del futuro c’è solamente l’ombra minacciosa che incombe in ogni pagina con tutta la sua carica di incertezze. La contemporaneità non dà risposte certe riguardo al destino di Gaia: come la protagonista, anche il lettore dovrà attendere che il futuro si compia, mostrando la sorte di chi, come Gaia, ha creduto nella promessa della cultura e dell’istruzione, e nel riscatto che solo queste sembrano poter dare in una società che tutto ingoia e fa sedimentare nel silenzio. Un po’ come l’acqua del lago.
«Ci hai mai pensato all’acqua? Dicono acqua dolce, ma è una bugia. Questa acqua ha il sapore della benzina, quando avvicini l’accendino prende fuoco.»
Il lago, che a suo modo può essere considerato protagonista silenzioso di questa storia, si fa metafora della condizione paradossale di un presente che viene raccontato come tempo felice, inclusivo, specchio d’acqua apparentemente innocuo, mentre invece nasconde insidie, pericolosi mulinelli d’acqua che quando meno ce lo si aspetta trascinano nel fondo limaccioso e melmoso dell’inadeguatezza.
Il vero punto forte di questo libro, però, è la scrittura di Caminito, matura, tagliente e ferina – tanti sono i momenti in cui l’autrice usa paragoni tra i personaggi e il mondo animale, dando l’impressione che tutto, in questo libro, possa passare da una forma all’altra, e come fluido possa assumere la conformazione del contenitore che lo ingabbia. Come fluido, poi, come acqua di lago, la sua scrittura si infiltra nel cratere che è la vita di Gaia e lo riempie tanto da farlo esondare, travolgendo il lettore pagina dopo pagina e rendendo esplicito come, in effetti, il suo sapore sia tutt’altro che dolce.
Beatrice Palmieri
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