Luro, Luciana Sousa
(Edizioni Wordbridge, 2021)
L’epigrafe di questo brevissimo romanzo è già un indizio dell’atmosfera che ci inghiottirà non appena avremo girato la prima pagina. Si tratta di una citazione di Italo Calvino, ovvero «l’altrove è uno specchio in negativo». Nello specifico, l’altrove in cui ci trasporta Luciana Sousa è Luro, un piccolo paese della pampa argentina che è più un modo di vivere che un vero luogo geografico.
Il centro della vicenda è in realtà ancora più delimitato: una stazione di servizio nel mezzo del nulla, una di quelle in cui i camionisti assonnati si fermano per mangiare qualcosa e riposare prima di ripartire. In questo posto di passaggio lavora la protagonista, una giovane donna incinta, di cui non sappiamo il nome, che sembra guardare tutto con occhi stanchi e indifferenti. Le sue giornate si susseguono senza grandi scossoni, finché una mattina trova nel bagno della stazione il corpo rannicchiato di un migrante, che la guarda confuso e sorride mostrando «una fila di denti lunghi e brillanti». La prima reazione a quel ritrovamento è di sconcerto totale («penso che non ho mai visto un nero in carne e ossa»); Julio – il proprietario del locale – si preoccupa subito della potenziale pericolosità dell’intruso («Un nero, nero? È armato?), mentre Sánchez – un uomo bizzarro e solitario che lavora insieme alla protagonista – è l’unico che sembra essere realmente preoccupato per la salute del migrante.
Presi alla sprovvista dalla situazione, i tre lasciano che il loro «problema» rimanga chiuso a chiave in bagno per tutto il giorno. Quando la mattina dopo tornano per portargli da mangiare, nel bagno non c’è nessuno.
La fuga di quell’uomo innesca una serie di reazioni a catena che coinvolgono principalmente Sánchez e la protagonista; un tarlo comincia a lavorare nella loro testa: che senso ha rimanere fermi in un luogo desolato e vuoto, dove piuttosto che vivere si passa il tempo?
I due si gettano così alla ricerca dello sconosciuto, animati da un’improvvisa voglia di libertà e conoscenza («andiamo, mi risponde. Gli brillano gli occhi»). Tutto ad un tratto vedono la loro esistenza per quello che è stata fino a quel momento: una lunga distesa piatta, ferma nel tempo, immutabile, come la pianura arida in cui vivono da sempre.
Ecco che allora comincia a nascere in loro l’idea dell’altrove, lo «specchio in negativo» che mostra tutto ciò che non siamo, ma che forse potremmo essere. La protagonista inizia ad immaginare un futuro possibile in un luogo diverso, magari in città, anche se le risulta difficile pensare che esista qualcosa nel mondo che non sia solo un incrocio di stradine deserte («Lo guardo confusa. È questa la campagna? Non mi è mai stato molto chiaro cosa fosse la campagna. Ma se è tutto questo: la strada, la stazione di servizio, il paese, il campo incolto, la piazza principale, che cosa non è campagna allora?»).
Se l’esigenza della donna è più manifesta e forse più giustificata – in fondo, come può crescere il suo bambino lì? – il sentimento che muove Sánchez è più sottile e quasi inaspettato. Tra i personaggi della storia, lui è l’unico che sembra provare della vera compassione per il migrante, l’unico che si indigna quando viene a sapere che alcuni poliziotti hanno tenuto in prigione un migrante nero (che lui ritiene essere lo stesso che si era rifugiato alla stazione di servizio) per una notte intera senza alcun apparente motivo:
«Vedi come sono?» si gira e mi chiede. «Sono corrotti e disumani. A me importa del nero. Non importa a nessuno, ma a ma sì»
Sappiamo poco di Sánchez, ma non possiamo fare a meno di provare empatia per lui. Dà l’impressione di essere un uomo solo, sicuramente non più giovane, e forse proprio per questo la sua improvvisa ribellione allo stato delle cose suscita un senso di tenerezza. Il suo modo di parlare e di esprimere le proprie emozioni ha qualcosa di ingenuo e infantile, come quando la donna gli chiede dove andrebbe, se avesse l’opportunità di cambiare vita, e lui risponde semplicemente «a me piacerebbe andare nella foresta».
Questa voglia di fuggire, di esplorare le possibilità dell’altrove, si scontra con l’atmosfera pesante, immobile, che pervade tutto l’ambiente circostante e che finisce per inghiottire anche il lettore. Lo stile rende bene questo senso di oppressione, grazie ad un lessico preciso e visivo, che costruisce la realtà con immagini semplici ma tridimensionali, come quando viene descritta la scena di un’invasione di cavallette:
«Nel locale non si respira e mi allontano fino alla porta di vetro. Su di essa, le locuste formano un mantello giallognolo che si gonfia e si restringe in maniera regolare. Appoggio le mani sulla macchia. A gruppi di due o tre, si intrecciano le uno con le altre, allungando le zampe davanti e dietro. Lo spettacolo si replica, con movimenti meccanici. La sensazione di infinito mi ipnotizza».
La scrittura di Luciana Sousa è anche molto sensoriale. La narrazione passa attraverso il punto di vista della donna incinta, che si limita a raccontare il lavoro quotidiano nella stazione di servizio, senza svelare nulla dei suoi sentimenti, ma utilizzando principalmente i sensi per descrivere il suo stato d’animo:
«La pelle, secca e tesa, resiste alla pressione del corpo che mi cresce dentro e che ora, più che mai, assomiglia a una pietra, tonda e pesante, morta»; «Sorrido. La pancia di rilassa e si fa più leggera. La pietra diventa aria e mi dà l’impressione di avere in grembo un palloncino».
Grazie a questo espediente, la scrittrice crea un alto grado di immedesimazione nel lettore. Così, come la donna aspetta il suo bambino, anche noi aspettiamo che qualcosa succeda, che un movimento improvviso proietti i protagonisti nel tanto agognato “altrove”. Il finale arriva inaspettato, lasciandoci solo poco prima del grande avvenimento. Luciana Sousa riesce così in un compito estremamente difficile: fotografare un’attesa, dando corpo a tutti quei momenti della vita che sono “il prima”, e raccontando la tensione continua che ci muove verso il futuro.
Francesca Rossi