Uccidiamo lo zio, di Rohan O’Grady
(WoM Edizioni, 2021 – trad. di M. Pinna)
Qualcuno ricorda un vecchio film prodotto nel ’66 con il titolo di Gioco mortale? Il regista, William Castle, è stato un prolifero autore cinematografico, attivo tra gli anni ’40 e l’inizio degli anni ’70: ha avuto occasione di collaborare con Orson Welles, ha prodotto il Rosmary’s Baby di Polański e ha contribuito a inondare le sale cinematografiche di gradevoli B-Movie. Uno di questi è stato proprio Gioco mortale, un film girato con un budget irrisorio, tra i meno significativi all’interno della produzione dello stesso Castle. Ebbene, il titolo originale di Gioco mortale era in realtà Let’s kill uncle, e anche se in pochi si ricorderanno quel film, spero che più di qualcuno abbia voglia di recuperare la traduzione italiana del romanzo da cui è tratto.
Gli aspiranti assassini di zii sono due bambini iperattivi, odiosi e sfortunati. Christie e Barnaby arrivano un giorno su una splendida e lussureggiante isola canadese: lei è stata letteralmente spedita a casa di un’amica della madre per trascorrere le vacanze estive lontana dal trambusto, lui è un orfano milionario che attende di essere preso in custodia dal suo unico parente in vita, lo zio. Questo fantomatico zio è in realtà un personaggio spregevole, anche se di fronte agli abitanti dell’isola si atteggia da persona affabile e cortese. Insomma, non vi è da stupirsi se Barnaby e Christie decidono di ucciderlo, anche perché lui pare condividere con loro un certo gusto omicida.
Uccidiamo lo zio gioca molto con le atmosfere gotiche declinate sui toni dello humour nero, mischiando insieme elementi dell’horror e del thriller – alla Castle, ma fatti meglio – con situazioni ironiche dove la morte e il macabro diventano spunti per far sorridere il lettore. L’unico punto di contatto tra il film e il libro è lo stile cinematografico della narrazione, che rende il racconto di O’Grady dinamico e ritmato, ricco di elementi, svolte narrative e personaggi pienamente partecipi. Le peripezie di Barnaby, Christie e dello zio sono arricchite dalle dinamiche di tutti gli altri abitanti dell’isola, molti nei quali non svolgono solo ruoli di contorno.
C’è il Sergente Coulter, l’unico sopravvissuto dei trentatré uomini partiti per servire la patria durante la Seconda Guerra Mondiale, che ora deve mantenere l’ordine sulla sua isola nonostante questa non gli renda facile superare il senso di colpa per non essere morto al posto dei (o insieme ai) suoi trentadue compagni. Ci sono il Signore e la Signora Brooks, i temporanei tutori di Barnaby mentre lo zio è impegnato altrove, che cercano di rimpiazzare il loro unico figlio, morto in guerra, con quel ragazzino scalmanato. C’è Un-Orecchio, un vecchio puma stremato e moribondo, la cui dignità viene infangata quando Barnaby e Christie decidono di trasformarlo nel loro animale domestico. C’è Desmond, lo scemo dell’isola, un povero uomo con un forte deficit mentale, anche lui vittima dell’affetto dei due ragazzini. La lista potrebbe continuare: sono decine i personaggi che, nel loro piccolo, contribuiscono a vitalizzare una narrazione sempre sul pezzo, sempre in corsa, che non lascia fiato al lettore anche quando non si respira aria di pericolo.
Rohan O’Grady, pseudonimo dell’autrice canadese June Margaret O’Grady Skinner, gioca con le regole del thriller scardinando alcuni dei suoi elementi ricorrenti. Uccidiamo lo zio è un divertente gioco al massacro che supera il dualismo manicheo tra bene e male per mettere in scena personaggi prevalentemente negativi. Fin dalla primissima pagina, il lettore è spinto a provare antipatia per Barnaby e Christie, nonostante le loro personalità turbolente si smorzino con il proseguire della narrazione. Al tempo stesso, è quest’antipatia spontanea che contribuisce a umanizzarli quel tanto che basta a trasformare un’avventura adolescenziale in un thriller maturo e irriverente. Barnaby e Christie non sono eroi, non possono salvare il mondo – al massimo possono distruggerlo, ma ciò non gli fa onore. In un’altra storia sarebbero stati degli ottimi villain. Per fortuna, nel romanzo di O’Grady si scontrano con un cattivo più cattivo di loro.
Questo mix tra macabro e ironia, tra l’oscurità pulsante del thriller e l’atmosfera gioiosa della vacanza estiva, è la ragione per cui Rohan O’Grady è stata recentemente riscoperta nel panorama letterario internazionale, decenni dopo la sua prima pubblicazione. Anche se l’isola dove è ambientata la narrazione cavalca l’idea nostalgica di un luogo ameno, legato alle tradizioni e alla purezza d’animo dei suoi abitanti, le tensioni tipiche dei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale si respirano tra le righe nei tormenti di alcuni personaggi e nei retroscena delle esperienze familiari di Barnaby e Christie.
In Italia, Uccidiamo lo zio arriva grazie all’interessante operazione di una neonata casa editrice, la WoM Edizioni, che ha l’obiettivo di riscoprire capolavori dimenticati della letteratura italiana e straniera, contraddistinta soprattutto da quello humour nero che tanto vitalizza il romanzo di O’Grady. Nell’edizione curata da WoM, il romanzo in sé è affiancato anche da una finta pagina di giornale che simula ironicamente una copertina del New York Times, interamente dedicata a Uccidiamo lo zio e alla sua autrice. Un modo originale di approcciarsi alla lettura prima di farsi trascinare dalla vivida narrazione di O’Grady.
In ultimo, vorrei portare un attimo l’attenzione su un piccolo dettaglio dell’edizione italiana curata da WoM: sul retro della copertina, sopra il codice a barre e di fianco al prezzo del volume, è scritto un elegante “grazie”. Siccome temo non ci siano altre occasioni per rispondere, ne approfitto ora: grazie a voi, è stata una bellissima lettura.
Anja Boato