Il faro: una piccola luce rassicurante

Quaderno dei fari, Jazmina Barrera
(La Nuova Frontiera, 2021 – trad. it. Federica Niola)

Ben prima del Cristianesimo, che sulla dicotomia luce-buio, ha costruito la propria identità e tutta la stupenda iconografia che ancora ammiriamo, la luce ha sempre rappresentato un’àncora di salvezza, una condizione a cui anelare. In greco antico il Vero è detto Aletheia, letteralmente ciò che è non-nascosto, non-oscurato dal buio e, quindi, in luce

Furono gli stessi greci a inventare il faro, «una torre di pietra alta 135 metri, con fiamme che sovrastavano la cima insieme a una fulgida statua del dio Elio» (p.12). Il primo di questi si trovava sull’omonima isola davanti ad Alessandria, in Egitto. Nella notte scurissima che il Mediterraneo risucchiava dentro le proprie acque, quelle fiamme altissime permisero alle navi di avere un punto di riferimento, un luogo a cui guardare. Il mare, infatti, è da sempre considerato un elemento naturale spaventoso, incontrollabile eppure così ricco di fascino e potere (inutile sottolineare quanto sia stato importante, e quanto lo è ancora, l’affaccio sul Mediterraneo). I fari hanno tentato di sanare in parte questa mancanza dell’uomo nel controllare la natura del mare. Come scrive Jazmina Barrera nel suo Quaderno dei fari (La Nuova Frontiera, 2021):

Il mare è impeto della natura. Il faro è l’artificio che nella sua dignitosa piccolezza gli si oppone. (p. 21)

La storia degli uomini è piena di artifici che nella loro dignitosa piccolezza tentano di opporsi all’impeto naturale; ma Jazmina Barrera si occupa solo dei fari, entità poetiche e simboliche che ci appaiono così tanto anacronistiche da sembrare fuori dal tempo. Per riportarli nel tempo – in quel tempo eterno che sono la letteratura e la fantasia – Jazmine Barrera ripercorre alcune delle più intense pagine di Stevenson, di Virginia Woolf, di Walter Scott, di Edgar Allan Poe, ma anche di Omero. L’obiettivo è appunto scoprire pezzo a pezzo quanta solidità c’è alle spalle di tutto il portato emotivo, simbolico e letterario che i fari si trascinano dietro da millenni. 

I fari parlano l’idioma primordiale delle fiamme e il loro messaggio è, in prima istanza: qui ci sono degli umani (p. 54).

Barrera mescola a questo tema una serie di viaggi che l’hanno portata a toccare e visitare alcuni fari tutt’ora in funzione, quasi a volerci testimoniare che essi esistono davvero. Il “quaderno” che compila è dunque rapsodico, ricco di spunti che a volte vengono volontariamente tralasciati perché avrebbero portato in una direzione diversa rispetto a quella principale: il faro, la sua grandezza e insieme la sua fragilità. Una fragilità che non è solo quella nei confronti della forza del mare, ma che è connaturata al suo interno. L’autrice, infatti, più volte si sofferma sulle difficoltà incontrate dagli abitanti del faro, sulle loro vite complicate. Vite che oscillano fra il rumore bianco del mare e il silenzio di un luogo isolato come pochi altri. Vite fatte di appunti e registri nei quali annotare tutte le attività compiute per garantire la funzionalità del faro, di regolarità e veglie al “fuoco sacro” delle lampade a gas – poi sostituite dalle lampade alogene di nuova generazione. 

Poi bisognava rimanere vigili, come le donne preistoriche che badavano al fuoco nelle caverne, come le vestali, sacerdotesse vergini votate a controllare che non si spegnesse il fuoco sacro della dea (p. 58). 

Nella seconda parte del Quaderno l’autrice innesca un pensiero che si porta dietro fino in fondo al libro: per quanto possa impegnarsi, non potrà mai visitare e conoscere tutti i fari del mondo. Il collezionismo è destinato al fallimento, infatti, perché – come nelle stringhe numeriche – ci sarà sempre qualcosa che eccederà il reale. Barrera sembra dirci che, anche se potesse descriverci fattualmente tutti i fari censiti, rimarrà sempre qualcosa oltre quelle descrizioni. Non tanto un volume di cose, quanto un tabernacolo di pensieri, riflessioni, ispirazioni che il faro come oggetto storico-culturale rappresenta ed è. Per questo non poteva esserci titolo più corretto di Cuaderno de faros per questo libro: un tentativo irrealizzabile di fare ordine, dare un senso compiuto, una struttura immutabile, a sensazioni e percezioni verbali e non verbali. 

Il Faro di Tapia si affaccia sull’Oceano Atlantico, in Asturia, Spagna, ed è l’ultimo faro che la Barrera visita. Per questa gita al faro l’autrice scrive delle pagine di natura diaristica, scandite giorno per giorno: dall’avvicinamento, all’allontanamento. Inizialmente la accompagna Agustín – un ragazzo di cui sappiamo ben poco –, poi un uomo incontrato in città. Lei nel mentre legge un libro di Sir Walter Scott scritto «durante il viaggio che [Scott] ha fatto con Stevenson nonno, per visitare i fari che quest’ultimo aveva costruito in Scozia» (p. 103). Arrivata al faro Barrera si ritrova davanti a un monumento dedicato ai morti in mare. Ci sono nomi e date di morte. L’ultima riportata è quella del 1995 di tale José Ramón Suárez Méndez. «Nel 1995 la gente continuava a morire in mare. La gente continua a morire in mare», scrive la Barrera. Lo sguardo del lettore allora si alza inevitabilmente a guardare il mare dove la storia dei fari è iniziata, il Mediterraneo. La gente continua a morire in mare. 

I fari – artifici deboli del passato contro la forza del mare – non sono mai bastati; l’acqua illuminata a intervalli regolari dalla luce rassicurante di una lampada ha continuato a inghiottire corpi e vite. Della forza incontrastabile della natura, così come del fallimento di ogni collezionismo, questo libro si fa portavoce.

Saverio Mariani

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