Alberto Savinio, pseudonimo per quell’Andrea De Chirico fratello del pittore Giorgio, appartenne alla difficile quando non silenziosa generazione di intellettuali che, appena usciti dal bozzolo del fervore avanguardistico primonovecentesco, operarono a cavallo tra i due conflitti mondiali. Alla nebbiosa temperie degli anni post e insieme pre bellici, si aggiunga come i caratteri della sua variegatissima produzione abbiano reso questo nostro autore un personaggio difficilmente identificabile, scivolato via dalle categorie del suo tempo e così dal canone del nostro. L’inafferrabilità del tentacolare, camaleontico Savinio è stata la causa della sua progressiva messa in disparte, ma anche della sua indiscutibile originalità.

Che si sia incarnato in Savinio il gusto trasformistico di un’epoca è evidente dalla fatica con cui, all’esame della sua opera, si riesce a circoscriverne i limiti teorici: bersaglio in continuo moto oscillatorio, il sistema di pensiero di Savinio, come corpo vivo, e mai simulacro, rigido immobile dogma, sfugge alla mira di chi, con un solo colpo in canna, voglia delineare il profilo complessivo della sua parabola artistica. La metamorfosi delle opinioni segue però nel percorso intellettuale di Savinio, spirito autonomo, un principio all’opposto dell’utile e del vantaggio: la libertà dal pensiero imperativo, la libertà del pensiero complesso, la libertà di «ospitare contemporaneamente due idee diverse» – nel passo, dalla raccolta di articoli Scatola sonora, Savinio scrive poi: «un’idea sola può dare la fede, ma a farci intravedere la verità almeno due idee sono necessarie – e che (apparentemente) si contraddicano».
Questa “polifrenia” è di fatto il cardine stesso della struttura dialogica e non mediata del genere teatrale, una delle tante muse frequentate da Savinio, con esiti che saranno oggetto dell’articolo. Come vedremo, l’impressione d’indeterminatezza che se ne riceve scaturisce sì dall’atteggiamento dell’autore nei confronti del suo stesso metodo autodialettico, dal suo ininterrotto interrogarsi, mettersi in discussione, ma anche dalla posa, una sorta di escamotage per confondere le acque, che è per eccellenza congeniale al suo stile di scrittura: l’ironia, un’ironia tanto sottile da lasciare il lettore in dubbio sulla sua presenza quando questa non venga resa esplicita.
Al problema del comprendere lo spettro variabile del pensiero di Savinio si collega ovviamente il problema del capire dai suoi scritti e articoli quali rapporti questi intrattenesse col regime, e se insomma ne condividesse le linee ideologiche. Se da un punto di vista biografico possiamo delineare un tracciato di iniziale adesione al fascismo e poi di graduale definitivo allontanamento, resta ancora da illuminare la natura di una simile adesione. Semplice sottoscrizione culturale o incrollabile convinzione politica? Forse nessuna delle due, vista l’idiosincrasia di Savinio per il controllo esercitato dal regime sulle menti del paese. Stento però a credere nel consolatorio “naturale antifascismo” attribuitogli da Sciascia; credo piuttosto che quello di Savinio fosse un antifascismo ragionato.
Quell’intellettuale che professava la propria fede nella «infinita varietà delle verità» (Scatola sonora) si sentiva chiamato a rispecchiare il reale in tutte le sue sfaccettature, in una rappresentazione il più possibile complessa, il più possibile impura. Impura, varia doveva essere l’arte con cui filtrare la realtà, perché della realtà venissero alla luce tutte le incoerenze. Non si può dire certo che Savinio, sperimentatore di molteplici linguaggi, sia venuto meno a questo impegno: scrittore di poesia, racconti, romanzi, opere ibride, pittore come il fratello, critico, drammaturgo, regista, scenografo, fu iniziato all’arte nel segno della musica e della composizione musicale e tramite la musica si avvicinò al teatro – il genere che offriva forse più mezzi per ammettere al dialogo in una sola occasione diverse tra queste discipline.
L’autore, per Savinio, ha insomma una serie di responsabilità nei confronti del suo tempo, prima fra tutte quella di stare al passo ed entrare in comunicazione con esso, come dimostrano, nei suoi testi per la scena, i paragoni tra la remota, impossibile, atemporale, antichità del classico e il presente di chi scrive; come dimostrano, via metateatro, i molti tentativi del drammaturgo di abbattere le barriere tra il palcoscenico e il pubblico. Nemico del superficiale dramma veristico borghese, il teatro di Savinio intende la complessità dell’essere come una mescolanza di realtà, mistero, immaginazione, fantasia, laddove dagli ultimi si risale alla prima, al suo nucleo profondo, con un procedimento tutt’altro che simbolico o induttivo – il simbolo è per definizione imposto al suo significato, e non da esso dedotto.

L’origine degli accostamenti saviniani tra innovazione e tradizione e tra vero e fantastico va forse ricercata in quell’università e quella pista di prova che fu per l’autore Parigi prima della Grande Guerra. Parigi, città europea, accogliente e intelligente, cultrice della libertà e di una positiva indifferenza, culla di avanguardie di ampio respiro; la città dove si poteva scegliere un maestro come Apollinaire e insieme rivendicare la propria autonomia dal surrealismo, dal cubismo, dal futurismo, come fece Savinio; la città che aveva vissuto da protagonista il periodo d’oro della letteratura ottocentesca francese e che adesso, seppur lungi dal distruggere il passato, poneva il suo veto alla cultura ufficiale; era la città di Cocteau, di Picasso, di Apollinaire, e Apollinaire soprattutto svolse un ruolo di mentore nella formazione del giovane Savinio.
Nuovi erano i tempi, cambiata la meccanica del mondo, e gli intellettuali parigini se ne erano accorti. Serviva una nuova metafisica, da individuare non al di là della natura ma dentro la natura, che agisse non dall’esterno sull’artista ma dall’interno nell’artista. Una metafisica senza Dio e senza quei modelli e punti di riferimento che, prima d’essere ormai crollati, impedivano all’uomo di essere pienamente se stesso, di inventarsi e soprattutto di accettare senza angoscia i propri limiti, e lo illudevano di essere avviato alla perfezione e all’immortalità: «poiché con la scomparsa dei Modelli sono venuti a mancare all’uomo i personaggi con i quali egli “giocava” un dramma tra sé e i Modelli, l’uomo ora è ridotto […] a fare tutto da sé e a “giocare” un dramma con se stesso».
Non è un caso che qui, nel dialogo radiofonico Fine dei modelli (1947) Savinio si appropri di una terminologia teatrale. Si tratta di concetti che troveranno infatti la loro più compiuta teorizzazione nel maggiore tra i drammi dell’avanzata maturità di Savinio, Alcesti di Samuele, che si apre all’insegna di una simile dichiarazione di intenti: «La natura è il modello. L’uomo imita il modello. […] Se oggi il teatro non si divide più in scena e sala, in attori e spettatori, è perché la natura stessa non si divide più in scena e sala, in attori e spettatori».
Ma già molto prima dell’Alcesti l’obbligo morale di attinenza al presente e ai suoi meccanismi guidava il teatro di Savinio. Mi riferisco al testo sul quale ci concentreremo maggiormente, Capitano Ulisse (1925), titolo parafrasato dall’autore come l’“Avventura Colorata” nella nota introduttiva La verità sull’ultimo viaggio: come, nei quadri di Savinio, di suo fratello, degli altri pittori intenti alla resa dell’interiorità dell’individuo, forme e colori sgargianti riportano all’esterno il “rovescio” delle vesti umane, così Capitano Ulisse, ironica palinodia in chiave moderna dell’Odissea, desidera rappresentare nel suo finale una piccola utopica vittoria del vindica te tibi, del volere individuale, dell’individualità mortale e umana piuttosto che illusoriamente immortale ed eroica, la vittoria del colore sulla nera aulica musealizzazione di cui la democrazia ha ammantato il teatro – queste le parole cifrate di Savinio: si ricordi che l’ascesa del fascismo fu riconosciuta per via elettorale.
È prima di tutto indispensabile ricondurre Capitano Ulisse al suo contesto di composizione. Siamo nel 1925, un anno prolifico per Savinio e promettente sul versante del teatro. Tra riadattamenti e progetti di spettacoli che a loro volta avevano a che vedere col mito (La morte di Niobe, Agamennone), Savinio approda per la prima volta alla prosa teatrale con Capitano Ulisse, scritto per la compagnia diretta da Luigi Pirandello, pubblicato nel ’34 ma mai portato in scena prima del ’38, data del suo insuccesso. Di certi stilemi pirandelliani si avverte peraltro l’influsso, e lo si avvertirà anche nelle opere a seguire, quando, dopo una pausa di circa vent’anni, Savinio tornerà al teatro in veste di drammaturgo.
Nonostante ciò Savinio resta originale nel riciclo di simili stilemi, e quanto a contenuto eredita poco della poetica di Pirandello. Una lettura incrociata di Capitano Ulisse con l’Alcesti permette ancora meglio di colmare le ambiguità che rendono entrambi i copioni particolarmente difficili da classificare. Capitano Ulisse gioca soprattutto con le risorse di uno strumento misterioso quale è il sipario. Una scelta significativa, se si prende in esame il ruolo di confine che questo medium di tela esercita tra il “mondo delle idee” che vi si nasconde e il “mondo delle cose” che lo anticipa. Savinio rimette in contatto questi due mondi, sfruttando per l’appunto dei personaggi di confine. Ciò che in Capitano Ulisse fa la figura dello Spettatore, in Alcesti di Samuele lo fa la figura dell’Autore. Savinio si adopera per un teatro dimostrativo, e Alcesti di Samuele esaspera al parossismo le singolarità della sua drammaturgia, con un testo lungo, che abbandona la compattezza ancora visibile in Capitano Ulisse, lascia ampio spazio alle parentesi e non teme il vantaggio della parola sull’azione.

L’antiteatralità si accompagna a quel discorso di genere così limpidamente denunciato da Luca Ronconi, ultimo grande regista dell’Alcesti in linea di tempo, nell’intervista a cura di Mario di Giuseppe per il programma di sala dello spettacolo (per l’intervista completa, si veda il link contenuto nella sitografia dell’articolo): «L’intero dramma è costruito su un equivoco e precario equilibrio tra commedia e tragedia, prodotto da quella che, per lo stesso Savinio, è la “storica” impossibilità del tragico nel mondo moderno». Non soltanto gli elementi tragici si affiancano a quelli comici, ma addirittura gli uni si confondono con gli altri. Questa mescolanza dai limiti sfocati rende ancora più interessante, perché più complicato, l’interminabile esercizio critico richiesto allo spettatore: con abilità da illusionista, Savinio mischia le carte tra il serio, sotto il quale si possono celare i più miseri pensieri, e lo scherzoso, sotto il quale invece si raffina la vera profondità come le perle nelle ostriche più brutte.
Due i campanelli d’allarme: il grottesco, che spesso eclissa ma sottintende il tragico, e il didascalico, che spesso con grande ironia riveste di belle parole una visione che Savinio non condivide, o una delle tante visioni che Savinio ci propone senza parzialità alcuna. Ne La verità sull’ultimo viaggio l’autore immagina di sentirsi dire dal suo stesso protagonista che «è intelligente non lasciarsi sedurre dall’intelligenza». L’affermazione viene tradotta all’inverso dal personaggio dell’Autore nell’Alcesti: «Più l’uomo è sciocco più si serve del tragico per mascherare la propria sciocchezza». Avanti nello spettacolo ci si interroga: «come far capire […] che lo scherzo in certi casi non è scherzo, e la serietà in molti casi non è seria?».
A buona ragione Ronconi pone l’accento sulla «“storica” impossibilità del tragico nel mondo moderno» agli occhi di Savino. Questi apparecchia il suo teatro ad arena di scontro per mettere alla prova il mito con la storia. Rinuncia cioè al restauro del primo, e ne produce anzi una rassegnata ma serenissima negazione nel confronto con la fattualità. Il Capitano Ulisse fa il verso all’Odissea, buttando in pasto alla scena un protagonista stanco di cercare in un eterno “ultimo viaggio” – la versione marinaresca dell’“ultima sigaretta” di Zeno Cosini – quella pace, quella felicità che non troverà nemmeno a Itaca dalla sua tanto desiderata Penelope, copia perfetta delle rinnegate Circe e Calipso.
Capiterà spesso di incontrare in questo teatro statue che si disfino dei loro piedistalli. Non diversamente si comporta Ulisse nel finale, quando abbandona il suo titolo onorifico di eroe – pari ai nostri commendatore, cavaliere, capitano, appunto –, scende in platea, vestito in borghese, ed esce a braccetto con lo Spettatore. Allo stesso modo nell’Alcesti la protagonista, donna ebrea sacrificatasi per il marito al tempo del nazismo, non ne vuole sapere di tornare in vita, dopo essere stata recuperata dalla morte da un Ercole che si crede più potente di quanto possa essere – niente di meno che Franklin Delano Roosevelt –, e anzi uccide il suo amato per un finale ricongiungimento alla Tristano e Isotta.
Il processo di destrutturazione del mito e di demistificazione dei suoi personaggi ha a che vedere, in particolare per Capitano Ulisse, con la retorica fascista dell’eroe, da cui Savinio vuole in ogni modo discostarsi. Ma persino nei luoghi in cui il classico non viene richiamato, un altro mito subentra alla berlina: il mito borghese per eccellenza, quello della famiglia, rappresentato da Penelope e dal clima di Itaca quanto Circe e la sua isola rappresentano invece lo stucchevole vitalismo del dannunzianesimo. Nel testo La famiglia Mastinu, il nucleo familiare assurge a congegno dell’ignavia, zona protetta nella quale vivere e far passare il tempo indisturbati dal tempo e dalla Storia.
A dir la verità il tempo, come tempo di un’esistenza scandita in infanzia e successiva tragica presa di consapevolezza sulla ultima meta della vita, la sua antinomia, occupa il centro del pensiero di Savinio. La drammaturgia di Savinio è costellata di metaforiche catabasi e riflessioni sulla morte. E nel rapporto tra vita e accettazione della morte si innesta il vero problema del suo Ulisse, insaziabile e infelice. Ulisse, l’eroe immortale nelle patinate pagine del mito, ha sperimentato la futilità dell’intera gamma del possibile, ma proprio per questo mai ha tentato di essere se stesso, di essere umano e difettoso d’eternità. Rifiutando gli ulteriori miraggi di superomismo proposti all’ultimo da Minerva, ulteriori condanne, imposizioni della società, Ulisse risponde all’unico vero dovere dell’esistenza, l’accettazione della morte.

L’ampiezza del teatro di Savinio non si esaurisce qui. Resterebbero molti altri aspetti da approfondire, di cui uno sul quale credo sia indispensabile soffermarsi almeno in queste poche ultime righe. È naturale dedurre da quanto esposto nei paragrafi precedenti che Savinio leghi il compito del teatro a una missione identitaria. Lo spazio teatrale diventa il più adatto contenitore in cui riversare la propria interiorità senza filtri e senza pericoli. Simile per intimità al sogno e alla morte, il teatro diventa così l’occasione per trasformarsi, per conoscersi e riconoscersi, vedersi dall’esterno e insieme dall’interno. Lo fa il pubblico, al momento della rappresentazione. Lo fa il drammaturgo, sempre, continuamente, all’infinito, nel suo privilegiato cantuccio a metà tra il dentro e il fuori di un testo.
Elisa Ciofini
Bibliografia:
- Alberto Savinio, Capitano Ulisse, a cura di Alessandro Tinterri, Adelphi, 2019
- Alberto Savinio, Alcesti di Samuele e altri atti unici, a cura di Alessandro Tinterri, Adelphi, 1991
- Alberto Savinio, Scatola sonora, a cura di Francesco Lombardi, Il Saggiatore, 2017
- Ugo Piscopo, Savinio, Mursia, 1973
- Luca Valentino, L’arte impura. Percorsi e tematiche del teatro di Alberto Savinio, Bulzoni, 1991
- Alessandro Tinterri, Savinio e lo spettacolo, Il Mulino, 1993
- Paola Italia, Il pellegrino appassionato. Savinio scrittore. 1915-1925, Sellerio, 2004
Sitografia: