Tarmacadam. Ventuno incantesimi, Vanni Bianconi
(nottetempo, 2021)
La ricerca di uno spazio comune entro il quale non esistono linguaggi particolari ma solo un’unica lingua universale, comprensibile a tutti eppure così difficile da utilizzare, può diventare un’ossessione. Alcuni hanno pensato che il campo emotivo – così comune, così condizionato dalle leggi morali, religiose, ideologiche e, in alcuni casi, anche dalla conformazione geografica del luogo in cui ci si trova a nascere – potesse essere lo spazio di parentela tra tutti gli uomini. I Ventuno incantesimi di Vanni Bianconi si muovono continuamente fra il piano del linguaggio e tale utopico piano comune, nella costante ricerca di un punto di contatto fra questi due fuochi in mezzo ai quali sembra essere catapultato.
A partire da questa complicata posizione “metafisica” Bianconi prende in esame, con un acume che è il miglior aspetto del libro, i luoghi che visita e attraversa: da Beirut a Londra, da San Paolo del Brasile a Buenos Aires, dove incontra persone del luogo, scrittori, poeti, traduttori e soprattutto la loro lingua, l’autenticità del loro dire. I ventuno racconti, scritti in prima, seconda e terza persona, nascono a seguito di un periodo ricco di viaggi e spostamenti che Bianconi racconta nella brevissima e necessaria nota iniziale. «Un periodo di mobilità sfrenata» lo definisce l’autore, che ha a che fare con il portato storico, emotivo e culturale, della parola che dà il titolo al libro: Tarmacadam.
Parola che racchiude questa tensione al viaggio e la sua mutazione – parola che non s’usa ed è più lingue in una […]. In diverse lingue i termini tarmacadam, macadam e tarma si riferiscono a una varietà di superfici stradali, tra cui il macadam al catrame e il conglomerato bituminoso, come pure alle piste di atterraggio e decollo degli aerei. (pp. 9-10)
Bianconi dunque (poeta e traduttore, al suo esordio narrativo) non si limita ad osservare ciò che lo circonda, piuttosto cerca di penetrare negli interstizi del linguaggio che costruisce la percezione del paesaggio e viceversa. La volontà è quella di dare vita all’inerte, di amplificare i deboli suoni delle cose che stanno nelle crepe, per mettere in luce ciò che di solito viene tralasciato nella descrizione dei luoghi e delle persone. Per fare questo l’autore rintraccia dei lemmi, delle espressioni, dei gesti, dei tic linguistici, e li pone in rapporto allo spazio in cui questi vivono. Molto spesso per riuscire in questo enorme progetto, affida sentimenti alle cose, trasformando le cose in oggetti animati e rendendo così tutto un po’ magico e oltre il realismo.
“Ci sono parole che, come la chiocciola nella sua spirale, prendono senso dal significante, aboliscono l’arbitrarietà del segno. Ci sono anche parole che, come la lumaca, passando da una voce all’altra, da una lingua all’altra, portano il loro tragitto con sé” (pp. 223)
La lettura dei Ventuno incantesimi ci mostra come questi non siano stati registrati in presa diretta durante i viaggi che li hanno stimolati. Si percepisce l’esistenza di un punto di rottura (causato dalla pandemia e quindi dallo stop forzato dei viaggi, dei voli e quindi dell’intreccio di luoghi e voci) e un movimento retrogrado che ha guidato Bianconi nella scrittura. La ricerca di un filo rosso – quello di un “luogo” comune in cui esiste una lingua unica, elemento di comunità fra tutti gli uomini – emerge e si fa oggetto letterario. Un oggetto, però, sfumato e non necessariamente comprensibile, che tende a sfuggire durante la lettura.
I racconti, infatti, appaiono spesso come delle schegge impazzite, come ottime intuizioni che però finiscono per arrovellarsi su se stesse aggiungendo poco a quanto svelato all’inizio o, altre volte, prendendo direzioni distantissime dal punto focale. Alcune vicende risultano paradossali per quanto potenzialmente vere (come gli incontri e le voci a Bruxelles nel racconto Retrovisore – acronimi), tanto da lasciare una sensazione amara nel lettore: ogni nodo, infatti, si perde subito in ramificazioni il cui senso appare sfumato. La lingua di Bianconi, però, è ricchissima, bella, profonda: figlia di un solido background poetico; tuttavia a volte ammanta storie e riflessioni di cui sfugge la destinazione finale risultando quindi fine a se stessa. Uno dei passaggi più belli dell’intero libro:
Giona mi aveva convinto a sniffare un particolare sonnifero e sono stato fortunato a finire soltanto all’ospedale con lo scafoide (ossicino peculiare con una tendenza ad autodistruggersi se non irrorato di sangue) fratturato. Giona è l’amico che ha avuto più influenza di tutti su quello stile di vita scafoideo. Giona è morto cinque mesi fa. (pp. 103-104)
Lo stile di vita “scafoideo”, che quindi necessita di una continua irrorazione di sangue per evitare di autodistruggersi, è assimilabile al mutamento continuo del linguaggio intorno al paesaggio che descrive e in cui è inserito. C’è anche questo nel libro di Bianconi, la volontà di mostrare che ogni cosa resta, in tracce più o meno evidenti, dentro il senso delle parole e dei gesti: incunearsi in questo tentativo di ricostruzione può essere dispersivo e inconcludente, come spesso accade ai Ventuno incantesimi.
Ma c’è un ultimo passaggio che conviene mostrare, per dar conto anche della bontà dell’operazione letteraria. Si trova nel ragionamento sulla mutazione del linguaggio operato dall’immaginario collettivo creato dalla Prima Guerra Mondiale, la quale «ha modificato il linguaggio più di qualsiasi avanguardia», scrive Bianconi. «Il realismo scarno e feroce masticato nelle attese nel fango, mutilato e ricucito come i corpi, era in rottura con la retorica politica come pure con la grandiloquenza ispirata di tanta letteratura precedente» (p. 221). Se è vero che ogni atto drammatico modifica la struttura della narrazione, è altrettanto vero che l’immaginario comune si forma e plasma attraverso il linguaggio: un incontro/scontro a cui Bianconi accenna e la cui risoluzione appare impossibile. La sfida è ardua e questa, forse, non è che la prima tappa di un percorso (narrativo) più lungo.
Saverio Mariani