Eros il dolceamaro, Anne Carson
(Utopia editore, 2021 – Trad. Patrizio Ceccagnoli)
A leggere l’ultimo saggio di Anne Carson verrebbe da credere (non è la prima volta) a Wittgenstein: i problemi filosofici sono problemi linguistici. E quelli poetici? Per rispondere a questa domanda, la poetessa canadese parte dal frammento 130 di Saffo:
Ἕροσ δηὖτέ μ᾽ ὀ λυσιμέλης δόνει, γλυκύπικρον ἀμάχανον ὄρπετον [1]
Il termine chiave è γλυκύπικρον, letteralmente “dolceamaro”. L’impostazione di Carson si impadronisce della cifra ossimorica dell’eros. L’accostamento cronologico e fisiologico odio/amore – anche in Aristofane, Eschilo, Catullo – è il terreno del paradosso erotico, che scaturisce da una contingenza di crisi sensoriali; da Emily Dickinson a Sartre, «il desiderio umano si trova in bilico sull’asse del paradosso» stesso, un imbroglio[2]. Per risolverlo, i poeti greci si sono inventati Eros.
Nel saggio – ricchissimo di un’ermeneutica dell’eros dei testi antichi – credo siano quattro le intuizioni di maggior spessore e innovazione di Carson.
La prima lega la natura bivalente dell’eros al tema onnipresente del confine. Il sentimento erotico comporta un processo cognitivo (dell’amante) che si muove sulla linea di confine del linguaggio. L’eros è oltre e come tale è espropriazione, mancanza – lo dirà bene Socrate nel Liside –; l’eros è anche al di qua del limite linguistico (del “dolce vs amaro”), dove il sé si modifica. È ciò che accade anche ne Le onde Virginia Woolf: Neville guarda il suo amato, Bernard, che lo raggiunge, e immagina una parte di sè pronta a staccarsi per abbracciare l’amico, ma diventare parte di un altro è al contempo doloroso. Applicando gli studi freudiani alla consapevolezza della scelta amore/odio, Carson individua nel termine γλυκύπικρον la rivoluzione dell’autocoscienza umana, la «scoperta dello spirito»[3]. La gelatina strutturale dell’eros ne rappresenta l’innesco (a doppia faccia); non a caso – ricordiamo il frammento 130 – l’eros è chiamato «scioglitore di membra» (λυσιμέλης).
Se la prima intuizione è di ordine semantico, la seconda riguarda la dimensione archeologica dell’eros. «È davvero una coincidenza che i poeti che inventarono l’Eros furono anche i primi a lasciarci le loro poesie in forma scritta? […] Cosa c’è di erotico nell’alfabetizzazione?». L’uso della scrittura ha reso la parola l’unità minima (con valore distintivo) del verso poetico a discapito della frase. Non solo: la vista diventa il principale veicolo orientativo delle facoltà percettive, fondate – dice Carson – sulla fenomenologia dell’autocontrollo; la separazione dell’io interiore e del mondo esterno è una tappa cruciale nello sviluppo «ontogenetico così come in quello filogenetico» e nella formazione di una personalità individuale che possa contrastare la disintegrazione e, al contrario, favorire “il possedersi”[4].
La terza intuizione tocca l’universo fonetico. È noto che i greci abbiano mutuato il loro alfabeto da quello fenicio introducendo le vocali[5]. C’è di più, racconta Carson: «[l’alfabeto greco] permette di scomporre la pronuncia delle unità sonore nelle loro componenti acustiche». Le vocali sono nate come conseguenza dell’invenzione (greca) ben più rivoluzionaria, le consonanti. Ma che c’entra l’Eros? Per Carson l’astrazione delle consonanti – ovvero l’inizio e la fine di un suono – ha un’evidente incidenza erotica. L’intuizione è questa: se i greci hanno inventato l’eros, e gli stessi greci hanno teorizzato l’alfabeto per la produzione poetica, «come l’eros insiste sui confini degli esseri umani, [anche] la consonante impone un confine ai suoni e insiste sulla manifestazione di quei limiti». A suffragare l’idea che l’alfabeto greco sia una struttura di limiti e demarcazioni (erotiche), v’è l’ipotesi che i greci lo concepissero come un sistema pittorico, le cui lettere fossero artigianalmente ben definite – «la competenza si rivela nel limite: lì risiede l’intersezione del piacere, del rischio e della sofferenza di uno scrittore».

L’ultima intuizione di Carson ci riporta all’inizio: la metafora è per antonomasia un problema linguistico (e cognitivo,) che per secoli è stato esplorato solo come un problema filosofico e/o poetico. Il punto di partenza è l’apporto epistemico della bipolarità del γλυκύπικρον; «c’è un che di elettrizzante» dice Carson, un “punto cieco” (figlio del paradosso dell’eros) in cui non riusciamo a «sentire i nostri sentimenti».
La poetessa si affida all’interpretazione di Michel Foucault del dipinto di Velázquez Las meninas[6] per ampliare il concetto di “punto cieco”. Per Foucault lo specchio del quadro propone una metatesi della visibilità: alle linee di profondità manca sempre un segmento di traiettoria, perché la presenza-assenza del re è un gioco illusionistico di Velázquez. Il pittore ha fatto in modo che nell’opera si veda tutto tranne noi stessi mentre guardiamo. Per Carson è un’azione metaforica, ovvero «un atto di intercettazione che scinde la mente mettendola in conflitto con se stessa», una denominazione enigmatica[7], come quella dell’oggetto che tutti i protagonisti del quadro di Velázquez guardano (fuori dal dipinto). La metafora ha un referente divisivo, sussume un’impertinenza semantica irragionevole, strappa la nostra visione/giudizio in due, e condivide con il desiderio lo stesso potere paradossale. L’eros non è che lo spazio in cui “amaro” intercetta “dolce”?
L’eros determina un’estensione dell’assenza-presenza, in cui l’immaginazione è il logos del desiderio. Per Carson, Eros è una crasi semantica, è una manifestazione del tempo epistemico; pure se dicessimo quantistico non andremmo per niente lontano: è un oggetto visibile da due (o più) punti di vista che non possono offrire una coscienza simultanea dell’evento. Credo che Carlo Rovelli non desidererebbe una prova (poetica) migliore dell’eros per ribadire che il tempo non assomiglia per niente a una linea retta, non è discreto. Il suggerimento finale di Carson è mozzafiato: il linguaggio – che disvela l’erotico – è un problema temporale?
Davide Spinelli
[1] «Eros scioglitore di membra, ancora una volta mi scuote, dolceamaro, impossibile da combattere, creatura insinuante» (trad. di Patrizio Ceccagnoli dalla traduzione inglese di Anne carson, in Eros il dolceamaro).
[2] dice Sartre in L’essere e il nulla.
[3] Snell B., The discovery of the mind in Greek Philosophy and literature, Dover, New York, (1953).
[4] Carson scrive «l’importanza a possedere se stessi».
[5] Lo sostiene Woodhed in The study of Greek inscriptions, Cambridge University Press, Cambridge, (1981).
[6] Nel quadro Velazquez ritrae se stesso nell’atto di dipingere il re e la regina di spagna; nel dipinto ci sono però molte persone e non si capisce chiaramente chi siano i reali; i loro volti sono persi in una giungla di sguardi e riflessi che sembrano fissare tutti e nessuno, tra di loro e chi guarda.
[7] Nella Retorica Aristotele definisce la metafora come «l’atto di denominare cose senza nome».