Quarto incontro dei Dialoghi con Anchise, un ciclo di interviste alle scrittrici e agli scrittori italiani contemporanei più influenti. Giovani “figli” (aspiranti critici e scrittori nati sul finire del secolo scorso), faccia a faccia con le proprie madri e i propri padri letterari. L’obiettivo è indagare l’aspetto umano della scrittura, farsi raccontare le difficoltà e le sfide superate per diventare grandi autori, senza trascurare l’idea di letteratura e il macrocosmo intorno ai propri libri, in un confronto letterario-generazionale. La ricerca, infine, di un testimone da raccogliere e di consigli di cui far tesoro.
Negli dialoghi precedenti avevamo incontrato Walter Siti, Edoardo Nesi e Sandro Veronesi.
A confrontarsi ora con Helena Janeczek, già Premio Strega e Premio Campiello – Selezione Giuria dei Letterati, sono stati Pierpaolo Moscatello e Giuseppe Rizzi.

C’è sempre un momento nella vita di chi scrive in cui avviene un primo incontro privato, intimo con la scrittura. E in questo momento scrivere è ancora solo gioco o passatempo, e non ancora pratica, metodo, tantomeno lavoro o ambizione. Volevo che iniziassimo raccontando questo suo momento. Com’è iniziato tutto tra lei e la scrittura?
Come moltissimi ragazzi della mia generazione, io avevo semplicemente dei taccuini su cui scrivevo delle cose, ma non propriamente un diario. E come tanti ragazzi della mia generazione, ho cominciato a scrivere poesie. Leggevo tantissimo, ho cominciato anche molto presto – cosa lo stesso non molto unica ai miei tempi – a leggere narrativa, poesia, saggistica. E quindi ho iniziato ad avere questo modo di stare al mondo da “ragazza della fine degli anni ‘70” che aveva come interessi i libri, il cinema, la musica. È così che ho cominciato a scrivere.
Un senso di ambizione, di ricerca è arrivato dopo. Ai tempi della scuola ho cercato per la prima volta di scrivere un racconto intero, però senza mai pormi l’obiettivo di pubblicare.
E la prima pubblicazione com’è venuta?
È capitato che a vent’anni – mi ero già trasferita in Italia – ero dovuta tornare spesso a Monaco perché all’improvviso era morto mio padre. In una di queste occasioni ero andata in una libreria per una presentazione. Dopo la presentazione si andò in una pizzeria, e così chiacchierai con l’autrice, che mi disse di scriverle. Iniziò così un carteggio. Il libro di questa scrittrice aveva al centro la morte di un padre, io così le scrissi lettere che avevano a che fare con il mio lutto. Mi disse: “Scrivi queste lettere così belle, secondo me non scrivi soltanto lettere”. Al che tirai fuori delle poesie che avevo scritto nel frattempo e gliele mandai.
Finché un giorno, nell’appartamento in cui abitavo come studentessa a Milano, arrivò la lettera della casa editrice tedesca che pubblicava questa scrittrice, la Suhrkamp, che è come dire l’Einaudi tedesca. Io ero sconvolta, sembrava un film di Hollywood. La lettera era del suo editor, che mi diceva: “Mi piacciono le sue poesie, ne ha ancora qualcuna?” E da lì si arrivò alla pubblicazione di questo mio primo e unico libro di poesia, nell’89 credo.
Quando ha presentato questo libro di poesie, ci credeva o era più un esperimento, un gioco, un assecondare gli eventi?
Certo che ci credevo. Il tipo di ricerca fatto nella scrittura aveva una consapevolezza, una linea tematica e stilistica. Dietro aveva qualcosa che possiamo chiamare estetica. Ma non avevo pensato a una pubblicazione. Nel momento in cui me l’offrirono, ne fui molto contenta.
Lei ha origini polacche, è nata in Germania, è italiana da quasi quarant’anni. Mi incuriosisce l’effetto che questa triplice appartenenza ha avuto sulla sua scrittura. Il modo in cui queste tre diverse letterature hanno dato un apporto alla sua identità di lettrice prima e poi di scrittrice.
Ma guardi, bisogna distinguere tra il legame con le lingue e il legame con le letterature. Il fatto è che io a casa non ho mai imparato il polacco. I miei parlavano polacco tra di loro ma non con me. Sostanzialmente la lingua e la letteratura su cui mi sono formata è stata in primis quella tedesca, e altre in traduzione, come quella russa, poi quella sudamericana – più di quella americana, com’era normale per la mia generazione.
E poi chiaramente quella italiana, soprattutto dopo essermi iscritta qui all’università, ma già un poco prima. Io in realtà sono cresciuta non con il polacco, come forma di bilinguismo, ma con l’italiano. Perché ho passato tutte le estati dalla mia nascita in Italia, in un ambiente di persone che parlavano solo italiano. Una di queste figure per me molto importanti è stato un professore di italiano e latino molto colto. Mi metteva in mano sin da piccola libri italiani: prima quelli per l’infanzia, come Salgari, poi, quando sono cresciuta, mi ha consigliato cose anche molto difficili da leggere, come Gadda. Quindi è andato così il mio incontro con le lingue e con le letterature.
Quindi poi il passaggio alla pubblicazione di un libro in italiano è avvenuto in maniera naturale, mi pare di capire.
Sì. Ma anche il discorso della pubblicazione in italiano è avvenuto non proprio per decisione programmatica. Mi ero trasferita in Italia con l’idea che non sarebbe stata una cosa di passaggio, e questo a causa di una storia familiare che mi porto dietro: da quando ho raggiunto l’età della ragione ho pensato che fosse il caso di andarmene dalla Germania, come del resto hanno fatto gran parte dei miei amici, figli di sopravvissuti della Shoah. E così, dopo vari anni in Italia, ho cominciato a scrivere nei famosi taccuini anche in italiano.
Rileggendo quelle pagine, a un certo punto mi sono resa conto che potevano essere un libro. Ho cominciato a farmi delle domande su come strutturarlo, su come impostarlo. È così che è venuto fuori Lezione di tenebra, che andò anche lì inaspettatamente molto bene. A quel punto mi si è posto il problema di una scelta, e la scelta è stata quella di continuare a usare l’italiano e a lavorare sulla prosa invece che sulla poesia. Mi sembrava che in poesia avessi esaurito l’originalità e che non avessi ancora trovato una svolta, una voce, mentre invece l’esperienza di Lezione di tenebra mi sembrava che mi avesse dato una direzione da prendere.
Questo esordio italiano è avvenuto con un grande editore come Mondadori. Com’è successo?
Anche lì sono stata fortunata. All’epoca avevo iniziato a collaborare con Mondadori come consulente esterna per la letteratura straniera, soprattutto leggendo libri tedeschi. Poi negli anni ho dato un mio contributo anche sulla letteratura italiana. Quindi mi sembrava buona cosa che i primi a cui far leggere questo manoscritto fossero loro.
Ma lei crede che questa esperienza di lavoro editoriale abbia in qualche modo formato la sua scrittura? Crede cioè che lavorare ai libri degli altri l’abbia resa una scrittrice migliore?
Sicuramente l’esperienza del leggere con uno sguardo professionale ti insegna molto. Perché è una forma di lettura diversa, anche da quella più comune di chi fa un lavoro critico-letterario vero e proprio. Lo sguardo è certo più attento su com’è fatta la scrittura, la struttura di un libro. Bisogna valutare la sua tenuta, le sue qualità intrinseche.
Vedevo la sua bibliografia, e mi ha colpito molto il fatto che i suoi romanzi sono usciti a distanza di lungo tempo l’uno dall’altro. Cinque anni tra il primo e il secondo, poi otto anni per Le rondini di Montecassino, e altri sette anni per La ragazza con la Leica. Mi chiedevo come mai. Cosa fa scattare in lei l’urgenza di scrivere?
Intanto io sono abbastanza lenta di mio, a volte lentissima. Sicuramente il libro che ho scritto più velocemente è stato Lezione di tenebra. Altri hanno avuto una gestazione molto lunga perché è stato necessario fare anche un po’ di ricerca. Le ragioni sono tante, e sono quelle di chi ha un lavoro, una famiglia. Il tempo da dedicare alla scrittura non è poi tantissimo. E questa è la ragione esterna.
La ragione interna, più mia, è che ci metto tanto a capire se sia proprio necessario scrivere quel libro e cosa io veramente desidero scrivere. Prima di avere la fortuna di essere selezionata, poi premiata con lo Strega, non avevo mai pensato che i libri a cui mi dedicavo sarebbero stati dei libri tali da poterci vivere, o destinati ad avere un pubblico vasto. Cosa che credo non sarà così neanche in futuro. Quindi non è che c’è un mondo che aspetta un libro mio. La cosa più importante sono io che penso che il mio libro abbia un senso e sia fatto nel modo migliore possibile… cioè al meglio delle mie possibilità.
Quindi non pensa a un pubblico quando scrive?
Del pubblico mi preoccupo, sennò sarebbe ipocrita. Però ho sempre pensato di fare un tipo di ricerca e di letteratura il cui pubblico fosse molto di nicchia, e che lo stare sul mercato, e il cercare di starci in maniera anche abbastanza centrale, non fosse compatibile con il tipo di libri che avevo interesse a scrivere.
Parlando di interesse e di urgenza di scrivere, vorrei riproporle una domanda che abbiamo fatto a Sandro Veronesi. È importante per lei la consapevolezza di sé quando scrive, oppure è la scrittura stessa che consente di compiere un’indagine su se stessi?
Credo che dipenda da che persona sei e da che tipo di libri scrivi. L’atto di scrivere, e soprattutto di scrivere “vite che non sono la tua”, parafrasando Carrère, ti fa scoprire cose sulle tue motivazioni profonde che magari lì per lì non ti sono neanche tanto chiare. Naturalmente è necessario essere in contatto con il proprio mondo profondo, se così lo vogliamo semplificare, ma questo avviene con una modalità decisamente diversa da uno scavo psicanalitico o psicoterapeutico.
Certo, a volte il frutto dello scrivere i libri per gli altri e sugli altri è capire di te stesso ciò che non avresti capito altrimenti. Ma non è quella la spinta per scrivere libri. La spinta per scrivere libri è quella di voler conoscere qualcosa degli altri e del mondo sperando che abbia un interesse, un senso, non solo per se stessi. Anche chi scrive la propria storia pensandola come un libro, sotto forma di invenzione o meno, sta effettivamente scrivendo un libro, qualcosa che per un insieme di ragioni contenutistiche e formali vuole parlare agli altri, e avere un senso per gli altri e non solo per se stessi.
Quindi bisogna fare una sorta di selezione delle cose da raccontare, in modo da rendere il proprio racconto universale.
Esattamente. Questo mi era piuttosto chiaro sin dall’inizio, proprio a partire da Lezione di tenebra: lì ho usato una prima persona, ho raccontato tante cose di me stessa e di mia madre. Ma ho raccontato ciò che di me stessa e di mia madre pensavo avesse un senso per gli altri: altre cose non ho preso neanche in esame di raccontarle perché erano affari nostri. Il punto è definire i contorni di storie che anche se sono “autentiche”, nel momento in cui si scrivono diventano un’altra cosa, e quella cosa deve avere una sua consistenza e una sua credibilità nell’arrivare dall’altra parte.
Tutti i suoi romanzi sono ancorati a fatti reali: penso a Le rondini di Montecassino e a La ragazza con la Leica, che si confrontano con la Storia, o addirittura a Lezioni di tenebra che parte, come dice lei, da alcuni quaderni. Da cosa nasce questa tendenza a scrivere storie vere?
Intanto penso che Lezioni di tenebra non sia un romanzo. È più quello che in inglese si chiama memoir, anzi, per certi aspetti è ciò che viene codificato come un lavoro di post-memoria. È un libro che non ha un’impostazione neanche autofinzionale, ma proprio autobiografica e testimoniale. E per questo è una storia in cui proprio non ci sta l’invenzione, perché uno degli orizzonti di questo libro non è soltanto la dimenticanza ma anche il negazionismo. È un libro legato a un’idea di trasmissione della memoria o anche di impossibilità di passare il testimone a chi viene dopo, e quindi ha una motivazione molto ancorata alle vite vissute.
Dopodiché, togliendo quello che sta intorno, come i racconti o altri testi più brevi, diciamo che tre libri e mezzo questa componente ce l’hanno. È come un filone che si è alimentato da solo: ogni libro è sgorgato dall’altro, come se fosse una ricerca, uno scavo interiore all’interno delle stesse domande.
Però c’è anche un’altra questione. Sono partita da un libro che raccontava qualcosa di non inventato, qualcosa che a me sembrava e sembra tuttora avere una sua urgenza, autenticità e verità, perché ho sempre avuto una grande perplessità verso il “romanzo tradizionale”, cioè verso quanto la pura finzione, la pura invenzione (se mai esiste) siano oggi in grado di arrivare ai lettori toccando i nodi di quella richiesta di verità che è particolare, particolarissima, della scrittura letteraria.
Questo però non in maniera ideologica: io pensavo, sentivo, che confrontarsi con storie vere, anche se non nel mio diretto campo di esperienza, fosse una sfida che mi richiedesse uno sforzo in più: per entrarci dentro, per non semplificare, per raccogliere l’alterità di queste vite, e cercare di renderle nella loro complessità. E quindi, alla fine, per poter avere un risultato di scrittura più ricco.
C’è questo pezzo che ho trovato in Le rondini di Montecassino: “Seconda guerra mondiale (…) Troppo vasta per poterla afferrare tutta, troppo estranei i suoi attori per poterli raggiungere senza il veicolo dell’invenzione”. Quindi lei si appoggia comunque alla finzione, anche quando parla di storie vere?
In realtà non c’è cosa che scriviamo o mettiamo in scena che non sia reinventato. Lo fanno anche gli storici: solo che, quando ci sono dei piccoli buchi su cui non possono fare altro che esprimere delle ipotesi, segnalano che si trattano appunto di ipotesi, mentre magari una come me questa cosa non la fa.
Ci sono delle pagine a proposito di questo tema in L’impostore di Javier Cercas, che è uno scrittore che ha fatto dei percorsi simili ai miei su quel che riguarda la storia spagnola. Ha scritto questa trilogia che comincia con Soldati di Salamina, dove c’è una voce autobiografica ma non ancora una rivendicazione dell’assenza totale di invenzione. Nel romanzo successivo, Anatomia di un istante, non fa altro che trovare una forma, una struttura, per raccontare il golpe che ha tentato di sconfiggere la neonata democrazia spagnola: tutto quello che racconta lì dentro è fatto in un certo modo, con i montaggi, con la lingua, però lui lo chiama relato real, cioè racconto reale. Dopodiché si mette a scrivere L’impostore, un libro che, secondo le sue intenzioni, dovrebbe avere una ancora più rigorosa rinuncia all’invenzione. Finché a un certo punto c’è una pagina in cui si rende conto che questo è impossibile. Nel momento in cui noi aggiungiamo anche semplicemente un particolare descrittivo, creiamo un’atmosfera, un dialogo, di fatto inventiamo. E va bene così.
Per quanto mi riguarda, a partire da Cibo ho cominciato a mescolare in vari dosaggi e in varie forme il vero a ciò che è inventato, continuando ad averla proprio come tema questa mescolanza, questa possibile interferenza, questi possibili cortocircuiti tra la verità e la finzione. C’è un fluttuare tra realtà e invenzione costante, che viene ripreso, in varie forme, credo in più o meno tutti i libri che ho scritto.
Diceva prima che l’orizzonte al di là di Lezioni di tenebra era il negazionismo. Quindi si definisce una scrittrice impegnata?
Penso di sì, ma perché fa parte della mia storia. Essere stata segnata dalla politica è proprio il modo in cui sono venuta al mondo, in cui mi sono formata, fa parte della mia esperienza.
Ritiene che la scrittura possa avere una funzione politica?
Sicuramente la scrittura non può avere la pretesa di arrivare direttamente ai lettori e produrre un cambiamento di coscienza. In certi casi forse può anche accadere, ma oggi, con la diffusione che hanno i libri, anche quelli più popolari, è diventato molto difficile. Diventa più un discorso qualitativo: cioè è importante la qualità del tipo di allargamento di orizzonte da produrre in un lettore, piuttosto che l’idea per cui un’opera abbia una funzione come quella che è stata del J’accuse di Zola.
Quindi la narrativa in sé non è in grado di incidere sul mondo.
I libri tendenzialmente non influiscono sulla realtà esterna, è nel mondo interiore dei lettori che ben che vada trovano spazio. Ci sono poi delle eccezioni: penso al caso che ho seguito dall’inizio, cioè Gomorra di Saviano – prima ancora di diventare film, serie e poi un discorso comunicativo molto più ampio –, che ha proprio cambiato lo sguardo sulla mafia, come qualcosa al tempo stesso di moderno e di estremamente pervasivo e tossico, come fattore inquinante dell’economia. Lì per lì è stato veramente un cambio enorme, il caso di un libro che entra e modifica l’immaginario in una maniera assolutamente sorprendente. Ma di solito i libri non fanno questo. I libri arrivano a poche persone e in quelle poche persone creano un sedimento.
Poi c’è una possibilità di impegno esercitata in vari modi, che non deve necessariamente riflettersi nelle cose che uno scrive. Mi ha colpito il fatto che sulla situazione in corso alla frontiera tra Bielorussia e Polonia si siano espresse con una lettera aperta quattro vincitrici del premio Nobel: Olga Tokarczuk, polacca, Svjatlana Aleksievič, bielorussa, Elfriede Jelinek, austriaca, ed Herta Müller, scrittrice di lingua tedesca nata in Romania. Sono quattro scrittrici molto diverse, ma nessuna di loro pratica un tipo di scrittura a diretta trasmissione di messaggio, come quella a cui Walter Siti fa riferimento in Contro l’impegno. Quindi, in realtà, il discorso dell’impegno in letteratura a me sembra secondario alla domanda se l’autore, con quello che scrive, continua a cercare dei modi – inerenti a un discorso di ricerca letteraria – per esprimere qualcosa che evidentemente fa parte della sua identità, del suo modo di essere scrittore o scrittrice.
Mi elenca due o tre caratteristiche fondamentali che dovrebbe avere secondo lei uno scrittore giovane oggi?
Innanzitutto raccontare le cose a cui si tiene veramente. Anche se è una cosa a cui si arriva per gradi. Quasi sempre chi comincia a scrivere non trova subito la propria voce e spesso viene facile imitare la voce di qualcuno a cui si è particolarmente legati. È come mettersi l’abito di un altro, che è un bell’abito, perché non si vuol andare in giro nudi. Ha un senso anche questo. Però non bisogna rinunciare a interrogare con il senno di poi i propri testi su cosa dicono di noi, non come persona ma proprio come scrittori. Su quanto c’è di nostro in particolare.
E ovviamente leggere tanto, perché poi assimili e ti viene facile appoggiarti alla voce degli altri, diventa come un deposito di risorse che ti servono, che ti arricchiscono, di cui sei fatto. A volte ti può essere utile consapevolmente: “forse potrei fare più o meno come ha fatto tizio”. A volte non lo sai nemmeno. Però mettendo i piedi sui sentieri nella neve dove già sono passati altri prima di te fai un po’ meno fatica.
Intervista di Giuseppe Rizzi e Pierpaolo Moscatello