“ὑμεῖς μὲν οὐχ ὁρᾶτε τάσδ’, ἐγὼ δ’ ὁρῶ·
ἐλαύνομαι δὲ κοὐκέτ’ ἂν μείναιμ’ ἐγώ.”
“Voi non le vedete, ma io sì;
sono trascinato e non posso più trattenermi”
(Eschilo, Coefore 1061-62)

Le mosche di Jean-Paul Sartre è un dramma in tre atti scritto nel 1942; per quanto il titolo non lo lasci intuire, nasce come riscrittura di una tragedia della classicità greca, le Coefore di Eschilo. Le Coefore, o Portatrici di libagioni, costituiscono la parte centrale della trilogia nota come Orestea, rappresentata alle Grandi Dionisie di Atene nel 458 a.C. e meritevole di un primo posto nell’ “agone tragico” tenuto per l’occasione.
L’Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi) si incentra sulle vicende della stirpe degli Atridi a partire dal ritorno di Agamennone ad Argo dopo la presa della città di Troia: l’omicidio del re da parte della moglie Clitemnestra – in combutta col suo amante Egisto e smaniosa di vendicare il sacrificio della primogenita Ifigenia –, la vendetta messa in atto da Oreste ed Elettra, i due figli superstiti e riuniti, le conseguenze del matricidio. I temi principali affrontati sono l’ereditarietà della colpa e il conflitto fra la ‘giustizia divina’ – le leggi non scritte, che aborrono l’uccisione di un parente di sangue – e la giustizia umana, che richiede che a un torto si facciano corrispondere un risarcimento o un’offesa equivalente, anche qualora questo significhi far corrispondere omicidio a omicidio.
Di questa materia, già in sé densa e facilmente attuale, Sartre fa un’opera decisamente peculiare. Il dramma fu poco apprezzato dalla critica ai tempi della prima messa in scena (giugno 1943), probabilmente per ragioni altre dall’estetica: il testo alludeva infatti alla situazione politica nella Francia dell’epoca, e non è difficile stabilire parallelismi tra il ‘nuovo’ Egisto e Philippe Pétain quando, nel 1941, afferma che lo Stato francese avrebbe continuato a soffrire finché non avesse finito di ‘espiare tutte le sue colpe’. Dal suo canto l’autore dichiara questo suo dramma un tentativo di “estirpare la malattia del pentimento”; dunque un’apologia dell’interventismo etico, della resistenza violenta, dell’intima convinzione di un pro bene malum.

La materia eschilea è ripresa abbastanza liberamente e modellata così da integrare nuovi temi accanto ai vecchi: in particolare, quelli della libertà, della responsabilità – individuale e collettiva –, della superstizione, del potere. L’Oreste di Sartre giunge in una città infestata dalle mosche. È già qui tutta la potenza della scrittura, in questo parassita, questo insetto nauseabondo che concretizza il rimorso di una città colpevole di essere stata complice connivente dell’assassinio di Agamennone. La città vive una perpetua putrefazione e di questa corruzione le mosche si pascono. Il rimorso diventa una condizione esistenziale, condivisa e normalizzata, gli unici ad esserne estranei sono Oreste – che in questa città-cadavere, Argo, non è cresciuto, lui allevato in casa di ricchi borghesi di Atene – e, parzialmente, sua sorella Elettra, che si rifiuta finché riesce di farsi carico di una colpa non sua.
Quel che è più interessante – il rimorso è chiaramente uno strumento e la sua funzione è quella di stabilire e mantenere l’ordine sociale, profittando dello stato di inquietudine delle coscienze – la superstizione è messa a nudo nel suo ruolo di ancella al servizio del potere. “Bisogna avere paura […]. È così che si diventa un uomo dabbene”, si legge in un passaggio dal secondo atto – una città spaventata, prostrata, tutta assorta nel pentimento e nell’espiazione, è docile, addirittura grata a chi l’ha condotta in tale stato.
L’Oreste di Sartre è inizialmente un antieroe, arriva ma vorrebbe andarsene, non sa se vuole vendicarsi o se sia pronto a farlo, è indeciso, smania per sentire un senso di appartenenza. Al contrario, l’Oreste di Eschilo arriva e ha un intento e una missione cui va incontro deciso. Il primo diventerà il secondo nel giro di una pagina, sconvolgendo Elettra che solo in quel momento si deciderà a chiamarlo col suo nome – e facendo tuttavia ancora fatica a riconoscerlo.
L’Oreste eschileo uccide guidato da un dio; l’Oreste sartriano è libero da dèi che non siano la sua propria ‘bussola morale’, il suo giudizio. Il primo si addolora per l’atto compiuto, pur nella consapevolezza di aver ‘fatto la cosa giusta’. Il secondo non ha rimorsi di sorta, proprio perché consapevole di aver ‘fatto la cosa giusta’. Le mosche è chiaramente un testo post-Nietzschiano, anche se in esso un dio continua strenuamente ad aggirarsi, cercando di impedire agli uomini di acquisire coscienza della loro intrinseca libertà, coscienza che Oreste ha e che è tale da renderlo una minaccia. La libertà porta con sé solitudine e vergogna, oscena e insipida esistenza, avvisa Giove, al che Oreste ribatte che non ha senso negare agli Argivi la sorte che è anche loro, ossia una vita di disperazione, e che
“[…] sono liberi e la vita umana comincia di là dalla disperazione”.
Non che questa libertà sia un dono facile da accettare. Difatti l’Elettra sartriana lo rifiuta, preferendo ad essa un orizzonte più limitato, ma rassicurante (“Ladro! Io non avevo quasi nulla di mio, non avevo altro altro che un po’ di calma e qualche sogno. Tu mi hai preso tutto […]”), e rinnega la passata insurrezione, scegliendo infine di chinare la testa e lasciarsi soffocare la vista dalle mosche, abbandonandosi al buio delle Erinni.
Una rilettura affascinante, una nuova veste per un capolavoro classico, pregna di un esistenzialismo ateo che non chiude gli occhi sulle difficoltà ma invita a contrastare la deresponsabilizzazione del singolo, e chiama a riappropriarsi delle proprie azioni senza lasciare spazio ai tentennamenti. Un’opera potente, la cui forza riassumo tornando alle parole con cui ho aperto questa lettura: le Erinni, che invisibili perseguitano il solo Oreste, qui si fanno concrete, visibili, endemiche, infestanti; paradossalmente sono per i più un orizzonte sinistramente sicuro, noto. Le mosche è un invito ad accogliere le scomodità della libertà, a non cedere al conforto delle facili credenze.
Alessia Angelini
in copertina: Orestes und die Erynnien, 1905, dipinto di Franz von Stuck
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