L’anima delle città, Jan Brokken
(Iperborea, 2021 – Trad. di C. Cozzi)
Quanto l’ambiente in cui scrittori, compositori, pittori nascono e vivono influenza la loro arte? Quanto c’è nelle loro opere del mondo di cui fanno esperienza nel quotidiano, e in cui talvolta si ritrovano quasi per caso? Jan Brokken, nel suo ultimo libro L’anima delle città, edito da Iperborea, indaga proprio sul rapporto tra artista e ambiente, mettendo in luce quanto l’artista sia influenzato nella sua arte dal luogo in cui ha vissuto e viceversa.
Talvolta ciò avviene per semplice contatto prolungato tra le due essenze, con corpo e ambiente che si plasmano a vicenda non tanto attraverso il milieu socio-culturale che, secondo la tesi quasi matematica di Vygotskij, modella inesorabilmente le inclinazioni e i comportamenti dei singoli, quanto più in relazione anche alla dimensione temporale, e quindi per contrapposizione o aderenza di solito consapevole al «secolo in cui si vive», secolo in cui ci si può specchiare e decidere in che misura farne parte.
Infatti, come Brokken scrive nel capitolo dedicato al compositore russo Šostakóvič, gli artisti hanno da sempre sentito l’urgenza di trasferire in arte le «impressioni del mondo che avevano intorno». Nemmeno durante le grandi dittature del Novecento il cordone ombelicale che unisce persona a luogo perse la sua importanza: Giorgio Morandi, ad esempio, dopo aver aderito prima al movimento futurista e poi, senza farne mistero, al fascismo, in un momento in cui a Bologna già erano evidenti i soprusi e la violenza sostenuti dalla neonata ideologia del Duce, scelse il silenzio e si ritirò in un’esistenza per lo più solitaria, non esprimendo più le sue idee in fatto di politica. Pur senza volergli perdonare il «flirt con il fascismo», Brokken propone di vedere le nature morte del pittore come una «silenziosa protesta contro le grossolane, violente e chiassose espressioni del mondo moderno».
In altro modo, Konstantinas Čiurlionis, pittore e compositore lituano vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, dovette fare i conti con il fatto che la Lituania non fosse riconosciuta come Paese indipendente e il lituano come lingua nazionale. Tuttavia prese le distanze dai movimenti patriottici, troppo reazionari e antisemiti per attrarlo. Il suo essere nazionalista si «limitò alla lingua e all’arte», trovando nei canti popolari lituani un punto di partenza per l’invenzione e la costruzione di uno «stile lituano» specifico e riconoscibile. Tra gli artisti Romantici, Čiurlionis non fu certo l’unico a interrogarsi sulla questione del nazionalismo, seguendone l’ideologia per poi metterla in discussione in relazione alla scena internazionale e dell’inevitabile progresso, impossibile da mettere in atto se si rimane troppo legati alla tradizione. Sofija Kymantaitė, l’insegnante di lituano che lo sposò, disse di lui che «divenne improvvisamente un tutt’uno con la città»:
“Vilnius in una notte d’estate, Vilnius, osservata all’alba dalla collina di Gediminas. Era come se fosse stata creata per lui. Non è un caso che nei dipinti di Čiurlionis appaiano così tante città immaginarie. Una sera, tornando da Kaunas, Vilnius era la più bella delle fiabe” […] “Konstantinas viveva costantemente immerso nella bellezza della natura”, e ne “assorbiva con gli occhi” la meraviglia.
Secondo Brokken, però, Čiurlionis non vedeva in Vilnius solo una città carica di magia e simbolismo, ma anche la sua sposa, con la quale condivise il suo amore per l’arte per tutto il tempo che vissero insieme («mai in casa nostra si parlerà di grigia prosa», le diceva), e fu lei stessa a prendersi carico, dopo che il marito venne internato in manicomio, di tradurre l’Iliade in lituano e, da insegnante, di salvare diversi ragazzi ebrei dalle milizie lituane, che iniziarono a perseguitarli prima ancora che arrivassero i nazisti.
E così Pēteris Vasks, compositore originario della Curlandia, regione dell’attuale Lettonia che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, fu dichiarata zona militare dai sovietici e che per questo rimase nelle stesse condizioni inalterate per cinquant’anni, fu ispirato dalla “religione” della Natura incontaminata per scrivere le sue composizioni. Lo dimostrano i loro titoli: Messaggio della cinciallegra, Paesaggio verde, Piccola e magica giornata estiva, opere che, lodando la forza dell’amore, la purificazione, la luce, «protestavano sottovoce contro la retorica comunista». Opere che frequentemente andarono incontro a censura.
Il legame tra arte e Natura lo si ritrova anche in Debussy, che portava sempre sua figlia Chouchou in villeggiatura ad Arcachon sull’Atlantico, e si ispirò alla «cruda bellezza dell’oceano» per la sua composizione La mer, perché del mare e di quella sua melodia ripetuta e mai stonata non poteva fare a meno. Gli stimoli ambientali possono attraversare anche le generazioni, trasformandosi in ispirazioni artistiche che dai genitori passano ai figli; ciò accade con la Cagliari di Eva Mameli Calvino, prima botanica italiana nonché una delle prime docenti universitarie e madre di Italo Calvino. Nelle opere di Italo germoglieranno sempre le impressioni botaniche della sanremese Villa Meridiana e del giardino botanico che la madre curò nella città sarda. Infine, altro caso di relazione intima con la Natura si evince nell’arte di Joseph Beuys, che, durante una sua performance artistica durata sette giorni e sette notti, restò in una gabbia con un coyote tentando un dialogo tra uomo, animale, e il suo habitat naturale. Secondo i nativi americani, egli fu il primo che provò a «immedesimarsi nel mondo interiore di una popolazione legata alla natura».
In poco più di trecento pagine, Brokken riannoda i fili tra numerosi uomini di cultura vissuti tra il Settecento e gli anni Duemila, mostrando un’Europa dall’animo molto più cosmopolita di quanto si sia soliti pensare (l’unico intellettuale non europeo a cui è dedicato un capitolo è il filosofo giapponese Kitarō Nishida). Un’Europa unita dai dibattiti e dagli incontri tra intellettuali ancor prima che lo fosse dall’Accordo di Schengen. Ancor più, rintracciando le connessioni tra artisti e i luoghi in cui vissero e facendo emergere le peculiarità meno evidenti che nacquero da questo contatto prolungato, Brokken ricostruisce un itinerario estetico a misura di flâneur, un viaggio alla ricerca del bello e dei luoghi che hanno innescato l’ispirazione a creare arte.
Ancora una volta Brokken si rivela un abile biografo, capace di ricostruire esistenze con tratti leggeri, chiacchierando con le persone che hanno a loro volta incontrato, o studiato, gli stessi artisti protagonisti dei capitoli dell’Anima delle città. Per fare ciò inserisce, inoltre, il racconto di sue esperienze personali, ricordi e pensieri, indicando quanto la memoria di specifici momenti della sua vita si possa legare alle idee e ai concetti espressi dagli artisti di cui si è occupato nella raccolta. Se da un lato quest’artificio letterario rischia talvolta di investire di un certo tono autocelebrativo la voce autoriale, rallentando momentaneamente la lettura della raccolta, dall’altro risulta comunque parte integrante dello stile del libro, trasformando la narrazione nella sua interezza in un lunga alternanza tra racconto personale, racconto dell’artista, reportage e interviste allo scopo di mostrare quanto artisti e intellettuali, pur provenendo da tempi e luoghi diversi, fossero tutti uniti da un unico scopo: raccontare il mondo in cui erano immersi attraverso la propria arte.
Eleonora Mander