L’irripetibile modulazione estetica del testo

Aldo Busi traduttore di Christina Stead

di Franca Cavagnoli

La traduzione è una delle forme dell’interpretazione, come ci ricorda Umberto Eco, ma è anche una delle forme della scrittura. Quando si traduce, infatti, non entrano in gioco solo due lingue naturali bensì anche due linguaggi: quello di chi scrive e quello di chi traduce. Spesso si dice che questo è particolarmente vero quando chi traduce scrive di suo. Ma tutti coloro che traducono sono potenziali scrittori e scrittrici in proprio: hanno solo scelto di scrivere nella loro lingua i libri degli altri. In questo non c’è nulla di diverso da chi pubblica i suoi libri e traduce libri di altri. Entrambi portano spesso dentro di sé i libri che vorrebbero scrivere o che non hanno ancora scritto.

L’interferenza del proprio mondo narrativo, del proprio immaginario, può essere molto alta e il rischio di sovrapporre la propria soggettività e scrittura incombe sempre. In questo caso chi traduce deve fare in modo che il suo linguaggio narrativo non si sovrapponga a quello dell’autore o dell’autrice in questione. Credo sia una dinamica ancora più sottile di quella tra il proprio e l’altrui in termini culturali, perché se di questa si è consapevoli mentre si traduce, non sempre si è consapevoli della dialettica tra il proprio e l’altrui in termini di immaginario, di concezione della scrittura, di interpretanti che possono differire ed entrare in conflitto. La sovrapposizione di tutto ciò può recare danni consistenti al tessuto del testo tradotto.

Per questo è importante creare dentro di sé uno spazio di accoglienza, uno spazio fra il proprio immaginario e quello dell’autore o dell’autrice che si sta traducendo, un luogo scomodo ma necessario nel quale lavorare. L’aspetto più interessante di questo interstizio è dato dall’elemento estraneo che consente di mettere in discussione le conoscenze di chi traduce, spesso vittima di un suo lessico famigliare e di una grammatica mentale corriva. Solo così si potrà mettere alla prova la propria capacità di creare il nuovo: nuovo per sé e per la propria lingua. Il che non vuol dire forzare in modo innaturale la lingua madre, generando calchi scolastici o incorrendo in falsi amici, bensì allargare i propri orizzonti linguistici e culturali e, così facendo, allargare anche quelli di coloro che leggeranno il libro al quale si sta lavorando. È in questo luogo che bisogna mettersi alla prova, provare ed errare per tutta la durata della traduzione: come la consapevolezza della perdita inevitabile rende possibile il farsi della traduzione, così la consapevolezza di dover errare, nel suo duplice significato di sbagliare e di vagare senza meta, in un luogo scomodo consente di rinvenire cose che in parte compensano le perdite.

Se all’interno del polisistema letterario di un certo Paese il sottosistema della letteratura tradotta occupa una posizione primaria, come è il caso dell’Italia, l’attività traduttiva può partecipare attivamente alla creazione di nuovi modelli. In una situazione di questo tipo chi traduce non deve necessariamente attenersi ai modelli tradizionali e alle norme imposte dal mercato editoriale, ma può permettersi un atteggiamento meno pavido e violare le convenzioni del sistema. E, in queste condizioni, le possibilità che la traduzione si avvicini di più all’originale in termini di adeguatezza, per dirla con Even-Zohar, ossia in termini di riproduzione delle relazioni testuali dominanti dell’originale, sono più grandi. A maggior ragione, credo, deve violare le convenzioni del sistema chi scrive in proprio, e non solo perché così dà il buon esempio. È compito dell’intellettuale non rispondere alla logica della convenzione ma all’audacia dell’osare, ci ricorda Said, e credo che questo valga anche per le scrittrici e gli scrittori che traducono. Se chi traduce è intrepido e osa, è il bagaglio letterario e culturale di un intero Paese a trarne beneficio.

Violare le convenzioni del sistema non significa, però, scorrazzare in una libertà incondizionata. In italiano – ed è un tratto decisamente singolare – la parola traduzione si usa nella lingua di ogni giorno solo nel linguaggio della polizia, con cui si intende il trasferimento di un detenuto da un carcere all’altro. Allo stesso modo la parola tradotta indica il convoglio ferroviario adibito all’esclusivo trasporto di reparti militari. In entrambi i casi, la parola tradurre viene riportata al suo significato etimologico di ‘trasportare’ (transferre). Il fatto che l’uso sia limitato a questi due ambiti porta a chiedersi se i vincoli non siano implicitamente già lì, nell’uso. Come se ci fosse una mancanza di libertà assoluta, o ci fosse solo una libertà limitata nel solco di un cammino tracciato da altri. Al tempo stesso non è una questione di annullamento del sé, come purtroppo a volte si sente dire e si legge anche nelle motivazioni dei premi di traduzione, ma di ferrea disciplina in modo da intervenire con misura nel processo traduttivo e mettere le proprie competenze e la propria autorialità al servizio dell’autorialità altrui.

La dialettica tra i due linguaggi personali e la dialettica tra i due immaginari è una questione fondamentale. Credo che il linguaggio narrativo dello scrittore o della scrittrice che traduce non debba mai sovrapporsi a quello dell’autore o dell’autrice che si sta traducendo. A chiederlo è il senso di responsabilità nei confronti di sé e del lavoro che si è scelto di fare, e nel contempo nei confronti di chi ha scritto l’opera e di chi leggerà la traduzione. Ciò che non dovrebbe accadere nel processo di traduzione è assimilare l’Altro, proiettare sull’Altro le proprie idiosincrasie, le proprie ipersensibilità allergiche nei confronti di aggettivi e sostantivi, la propria ripugnanza esasperata per certi segni di interpunzione, rendendo così la propria scrittura dominante e la scrittura altrui subalterna.

Tradurre non è sovrainterpretare, non è adattare, non è appropriarsi di ciò che appartiene all’Altro. Se per chi non ha più una patria il posto dove vivere è la scrittura – com’è il caso di molte autrici e molti autori – ciò equivarrebbe ad appropriarsi della sua casa. Il che significa anche costringere qualcuno nella precaria condizione di un “migrante scasato”, il modo in cui mi piace chiamare – con l’aiuto di Bacchelli, Pascoli e Pirandello, che molto amavano l’uso del verbo ‘scasare’ nelle sue varie accezioni di ‘essere senza casa’, ‘essere sfrattato’, ‘essere cacciato via’, ‘traslocare’ – l’unhomed migrant di cui parla Homi Bhabha. “Quando uno scasato cerca podere” lo si accoglie nella propria terra – nella letteratura come nella vita. Il gesto dell’autore che traduce dev’essere un gesto autorevole, non autoritario.

Un eccellente esempio di come lo scrittore-traduttore può intervenire con autorevolezza nel processo traduttivo, mettendo la propria creatività al servizio dell’autorialità altrui, ci viene da Aldo Busi, che nel 1988 ha tradotto per Garzanti Seven Poor Men of Sydney (1934) di Christina Stead. Il passo riportato più avanti mostra chiaramente come sia l’intelligenza emotiva di Busi e non la sua intelligenza speculativa a consentirgli di aderire con tanta vivida e partecipe energia creativa alla scrittura di Stead. In una nota incompiuta, redatta in appendice alla traduzione inedita dei Sonetti di Shakespeare (un lavoro interrotto al Sonetto 103), Busi scrive: “Nel mare della conoscenza, in cui due rive si guardano ma sono remote e di fatto spesso dislocate una troppo in alto e l’altra troppo in basso rispetto a ogni ideale e convenzionale medietà di comodo (geografica, storica, linguistica e retorica) non si potrà mai andare oltre l’assunto che il guadagno è implicito nella perdita e la perdita implicita nel guadagno”.

Lo sguardo di Busi sul tradurre è lucido, come dimostra il suo riconoscere l’inevitabilità del guadagno implicito nella perdita e viceversa. Il suo obiettivo dichiarato non è quello di assimilare l’estraneo bensì di «trasformare il sé in altro», come afferma poco più avanti con perspicace prontezza nel valutare la situazione traduttiva, una sagacia che esprime con toni e parole in cui riecheggia Schleiermacher: “Tradurre, trasformare il sé in altro per una migliore comprensione del problema dell’identità propria e altrui, è vitale. E ogni Bravo Traduttore, pur di conservare intatta la radice e più gemme possibili, decide quali sono i rami morti da tagliare. Se invece è affetto dalla mania e dalla mitomania integraliste di trapiantare tutto l’albero da un certo clima in un clima a esso del tutto alieno (per epoca, convenzioni, linguaggio, registri) e di costruirgli attorno artificialmente un paesaggio vero per rendere più verosimile lo sforzo mimetico, avremo sì, in apparenza, un albero intero e integro ma in sostanza di morta segatura che non dà alcun frutto. Non c’è innesto riuscito senza previa potatura”.

Prendiamo a esempio questo passo di Christina Stead, tratto da Seven Poor Men of Sydney:

When he looked over the edge of the woven rattan at the garden, everything was more lively than a moment before. The dusty leaves blazed, the grass reared itself with a pugnacious thrust, the plants were marshaled, the snail crawled over the leaf with a rushing voluptuous impulse, and all animal and vegetable creations were aware of the sun, wind, sky, shadow, and of their neighbours and of the footfalls and shadows of men, through prehensile senses. A ladybird on the melon-leaf looked like a tortoise; the melon, scarcely pressing the grass, rolled in space as a green universe, self-creative. He thought of the growth of the melon, and immediately saw it bounding towards maturity. The veils of the flesh were torn; he saw the sun pouring in torrents through translucent creatures with millions of cells. Dehiscent seeds burst, pods split, sheaths flew back, grass sprouted, ants scurried, the sun leaped, the sky vibrated, sap hissed, the eucalypt at the foot of the path arched its foolish light head, and the cicadas shouted to turn one’s brain. At the same moment that he feared he would lose this pitch of vision, indeed, the phoenix passed over the house, leaving no more than a bright feather, a brilliant hour, for him ruefully to contemplate

Ed ecco la traduzione di Aldo Busi:

Quando guardò al di là dello steccato di canne del giardino, ogni cosa era più vivida di un momento prima. Le foglie polverose sfavillavano, l’erba s’impennava con spinta pugnace, le piante erano schierate, le chiocciole arrancavano sulla foglia con un convulsivo quanto voluttuoso impulso e tutte le creazioni animali e vegetali erano consapevoli del sole, del vento, del cielo, dell’ombra e dei loro vicini e dei passi e delle ombre degli uomini, grazie ai loro prensili sensi. Una coccinella sulla foglia di melone sembrò una testuggine, il melone, premendo appena l’erba, ruotava nello spazio come un universo, una verde autogenesi. Pensò alla crescita del melone e immediatamente lo vide slanciato verso la maturità. I veli della carne furono strappati; vide il sole riversarsi nei torrenti attraverso creature translucenti con milioni di cellule. Semi deiscenti si spaccavano, bozzoli si aprivano, involucri si ritraevano, l’erba spuntava, formiche brulicavano indaffarate, il sole sussultava, il cielo vibrava, sibilava la linfa, l’eucalipto ai piedi del sentiero arcuava la sua stolta e leggera testa e le cicale gridavano fino a far scoppiare il cervello. Nel momento stesso in cui temette di perdere questa acuità visionaria, proprio allora, la fenice passò sopra la casa, non lasciandogli che una penna lucente, un’ora brillante da contemplare mestamente.

Per versare in italiano la prosa di Christina Stead, Aldo Busi sceglie una dominante precisa. Come Michael, il personaggio creato da Stead, non vuole perdere la sua pitch of vision, così Busi è ben deciso a conservare l’acuità visionaria che permea l’intero passo. Con la precisione da entomologo che caratterizza Stead, anche Busi sceglie di farci vedere quanto accade sulla pagina, aderendo con umiltà alla minuziosità lessicale del testo fonte (‘testuggine’ per tortoise, e non ‘tartaruga’ che è creatura d’acqua marina mentre qui si descrive un universo di terra; ‘la  stolta e leggera testa’ dell’eucalipto per foolish light head, in cui la presenza di entrambi gli aggettivi prima del sostantivo, in italiano, se da un lato imprime un’accelerazione solenne, dall’altro strappa un lieve sorriso; ‘un universo, una verde autogenesi’ per a green universe, self-creative, con quel sapiente spostamento dell’aggettivo self-creative nel sostantivo ‘autogenesi’ per nulla perdere del senso così originalmente espresso, e il conseguente slittamento dell’aggettivo green; ‘sensi prensili’ per prehensile senses; ‘semi deiscenti’ per dehiscent seeds, ‘mestamente’ per ruefuelly).

Busi aderisce pure con grande cura alle immagini di luce e vita (‘vivida’ per lively; ‘convulsivo quanto voluttuoso impulso’ per rushing voluptuous impulse; ‘sfavillava’ per blazed; ‘lucente’ per bright; ‘brillante’ per brilliant), cui fanno da contrappunto quelle della natura in guerra (‘s’impennava con spinta pugnace’ per reared itself with a pugnacious thrust; ‘schierate’ per marshaled). Mostra inoltre una rispettosa attenzione per la variazione nell’uso della lingua (creations, e non creatures,adeguatamente reso con ‘creazioni’ e non ‘creature’) e mostra riguardo per la diversa tradizione retorica in cui è germinato il testo originario, che accoglie il polisindeto con una disinvoltura impensabile in italiano, scegliendo una traduzione adeguata per and all animal and vegetable creations were aware of the sun, wind, sky, shadow, and of their neighbours and of the footfalls and shadows of men (‘e tutte le creazioni animali e vegetali erano consapevoli del sole, del vento, del cielo, dell’ombra e dei loro vicini e dei passi e delle ombre degli uomini’). Lievi inversioni infine gli consentono di riprodurre il ritmo della prosa: ‘il sole sussultava, il cielo vibrava, sibilava la linfa’, dove il chiasmo finale consente di compensare in parte le perdite avvenute nel corpo sonoro del testo.

Busi, poi, decide di ricorrere al calco creativo consapevole quando decide di tradurre translucent con ‘translucente’ (la traduzione italiana del verbo latino translucere è tralucere). Credo che la ragione di questa scelta ardimentosa stia nel desiderio di rendere più esplicito il richiamo intratestuale alla luce che si diffonde per l’intero passaggio. A volte accade che la tentazione del calco si trasformi da semplice oggetto di repulsione in una minaccia feconda, che imbandisce una tavola di frutti saporosi. In questi casi la scrittura nella lingua della traduzione attinge la sua forza dal fatto di essere stata scossa con violenza dalle strutture della lingua straniera. Tradurre diventa dunque come percorrere la sottile corda del funambolo, sospesa tra l’equilibrio e il rischio. La corda vibra, oscilla, a volte di pochissimo, a volte di molto, e il baratro che si apre di sotto è il rischio che si deve correre se si decide di non omologarsi, di sfidare le convenzioni lessicali e sintattiche. In questo caso, la sfida è riuscita: Busi regala un aggettivo alla lingua italiana.

Nella sua traduzione Busi non prescinde mai dalla forma della fruizione finale e nulla concede al  traduttese, quel linguaggio, cioè, che, “invece di pedinare sillaba per sillaba le forme originali del veicolare senso in quel dato modo e in nessun altro, fa il riassunto ‘di quanto voleva dire l’autore’ e lo scarica all’ingrosso nella fogna sommaria del ‘messaggio’ e della ‘comunicazione al lettore’ (di bocca buona), tradendo e l’originale e l’energia estetica della propria lingua e il lettore”.

Dopo aver individuato nell’acuità visionaria con cui il personaggio percepisce il mondo intorno a sé la dominante contenutistica e formale del passo, Busi la rispetta nelle sue scelte traduttive. E al tempo stesso rispetta, nelle parole di Busi stesso, “l’irripetibile modulazione estetica” del testo di Christina Stead, perché chi traduce dovrebbe con determinazione attingere fino all’ultima goccia del testo fonte per esaltare la singolarità del testo sul quale sta lavorando, senza limitarsi a farne passare la mera comprensione contenutistica. Quella di Busi è un’immedesimazione che nel contempo segnala una distanza, come si confà a un grande traduttore. L’italiano di Busi ricava dalla prosa di Stead la nettezza delle immagini e il ritmo narrativo lavorando sodo sulla lettera.

L’atteggiamento di Busi mostra chiaramente ciò che la lingua madre riesce a sopportare quando la lingua straniera la sollecita, la scuote, la dilata, la malmena. La scelta cui si giunge, alla fine – ciò che ci permettiamo e ciò che ci vietiamo – è il riflesso spietato del rapporto che abbiamo con la nostra lingua. Nel caso della traduzione di Busi assistiamo a un rapporto assai dialettico fra il traduttore e la sua lingua madre. Busi lo scrittore-traduttore si permette di agire e si sottrae alle costrizioni entro cui la lingua madre si muove. E leggendo si avverte il desiderio di fare spazio dentro di sé alla scoperta di un immaginario profondamente diverso dal proprio, e avvertiamo “quell’accanimento necessario per concentrarsi e scavare mesi e mesi sempre dentro quel tunnel”, come scriveva Calvino, essenziale per svolgere con senso di responsabilità una traduzione. Un lavoro condotto, sempre nelle parole di Calvino, che alla traduzione ha dedicato scritti illuminanti, “con uno scrupolo che ogni momento è sul punto d’allentarsi, con una facoltà di discernere che ogni momento è sul punto di deformarsi, di cedere ad andazzi, allucinazioni, stravolgimenti della memoria linguistica, con quel rovello di perfezione che deve diventare una sorta di metodica follia, e della follia ha le ineffabili dolcezze e la logorante disperazione”.

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