Walter Siti – Dialoghi con Anchise (prima parte)

Diamo il via al progetto Dialoghi con Anchise, un ciclo d’interviste letterario-generazionali agli scrittori italiani più influenti degli ultimi vent’anni. Avevamo illustrato il progetto in questo articolo. Non si poteva che iniziare da un maestro: ecco dunque l’intervista a Walter Siti, a cura di Michele Maestroni e Pierpaolo Moscatello. Di seguito la prima parte; la seconda è già disponibile QUI.
Potete anche scaricare la versione integrale per leggerla su altri dispositivi:  PDF  MOBI – EPUB

sara dealbera ritratto di walter siti

Quando è uscito Scuola di nudo lei era già abbastanza grande: aveva quarantasette anni e una vita professionale avviata. Prima di esordire aveva mai praticato la scrittura in forma privata? Oppure Scuola di nudo è stato un lento lavoro di accumulo?

Io fino ai vent’anni non ho scritto niente. Ero un grande lettore di classici, e mi sembrava che le mie capacità fossero così scarse al confronto che non mi veniva neanche in mente di provarci: leggevo Baudelaire e poi non riuscivo a scrivere un verso, perché mi sentivo uno schifo. Poi, intorno ai trent’anni, dopo una crisi personale e come critico letterario, ho cominciato a buttare giù dei versi pensando che non li avrei fatti leggere a nessuno. Li feci leggere al mio capo in università, Mario Baratto, e lui un po’ scherzando mi disse che non erano male. La cosa mi incoraggiò.

Di quei versi la maggior parte l’ho poi buttata via, tranne alcuni che sono rimasti incastonati dentro Scuola di nudo. Sono passati altri due o tre anni sempre senza scrivere, e poi di colpo, in un periodo in cui abitavo a Firenze, mi ha preso come una pazzia e per una settimana, tutte le notti, non ho fatto che scrivere versi: ne sono nati dieci poemi abbastanza lunghi che io stesso non capivo molto bene.
Questi ultimi hanno avuto una strana storia. Uno è stato pubblicato nell’ «Almanacco dello specchio»che allora era una piazza abbastanza prestigiosa – con la prefazione di Franco Fortini. Questo mi ha gratificato parecchio: addirittura c’è stata una presentazione pubblica. Un altro paio sono state pubblicate su una rivista che si chiamava «Linea d’ombra», diretta da Goffredo Fofi.

Com’è passato dai versi al romanzo – tra l’altro un romanzo così imponente?

Al proposito ci sono due aneddoti. Il primo riguarda il mio amico Alfonso Berardinelli: gli avevo fatto leggere i versi usciti su «Linea d’ombra», e lui mi aveva detto che erano buoni ma un po’ contratti, andavano sciolti nella prosa. Io l’ho preso talmente sul serio che poi ho scritto un romanzo di seicento pagine.

L’altro aneddoto riguarda Franco Fortini, che era un amico ma anche una persona molto severa. Quando aveva letto i miei versi, mi aveva detto che erano belli, ma sembravano scritti da un mio “subalterno”. La cosa mi aveva abbastanza colpito perché non capivo chi fosse questo mio subalterno; poi man mano che mi avvicinavo all’idea di scrivere il romanzo sono riuscito finalmente a capirlo: era un nevrotico che non voleva dire la verità su se stesso. E allora mi sono buttato a scrivere partendo dall’unica cosa che sapevo per certo nel mondo, e cioè come sono fatto io.

Quindi ho cominciato quello che sarebbe stato Scuola di nudo, ma non sapevo verso cosa andavo. In quel momento stavo lavorando a un libro su Leopardi che mi avrebbe consentito un salto in avanti nella mia carriera di critico, ma lo piantai a metà. Lì è partito un lavoro sotterraneo che è durato dodici anni, durante i quali continuavo a scrivere e riscrivere. Quando la pagina era piena di correzioni – perché scrivevo ancora con la macchina da scrivere, una Olivetti Lettera 22 – bisognava ribattere tutto per avere di nuovo una versione pulita, e allora portavo il manoscritto in una copisteria a Pisa e poi mandavo un mio amico a ritirarlo, perché pensavo che quello che l’aveva battuto a macchina l’aveva anche letto, e quindi mi vergognavo come un cane ad andarlo a prendere io.

Per cui pensavo a Scuola di nudo come una cosa molto privata, da non far leggere a quasi nessuno. Anche perché i primi amici dell’università a cui cominciai a far leggere alcune parti mi dicevano che se lo pubblicavo ero matto, la mia carriera universitaria sarebbe finita. Però io non potevo più tirarmi indietro, ormai dovevo andare fino in fondo.

E come è avvenuta la pubblicazione?

Dopo la, credo, settima o sesta riscrittura, nel ‘93 raccolsi quel malloppo di circa seicento pagine e lo portai a Einaudi: fu una mossa azzardata portarlo subito al più grande editore italiano, un po’ da suicida. Pensavo che se Einaudi me l’avesse rifiutato, non lo avrei presentato a nessun altro editore. Non volevo fare il giro delle sette chiese: se non andava mi sarei rimesso a fare il critico.

Con Einaudi comunque avevo un contatto: avevo pubblicato con loro già due libri di critica, quindi non ero un illustre sconosciuto. Tra l’altro, una mia amica della Scuola Normale era la moglie di Paolo Fossati, che era un pezzo grosso di Einaudi. Allora portai il malloppone a Torino da Paolo, mi fermai a dormire quella notte lì da loro. Il giorno dopo dissi a Paolo che ci avevo ripensato, gli chiesi di non portarlo in casa editrice. Lui mi rispose: “Ormai hai fatto il passo, vediamo cosa succede”. Dopodiché c’è stato un mese, un mese e mezzo di attesa durante il quale ero convinto che avessero rifiutato il libro senza avere il coraggio di dirmelo. Finché non mi chiamò lo stesso Fossati, dicendomi che c’era stata una riunione molto burrascosa in casa editrice: metà delle persone lo volevano pubblicare, l’altra metà no. Quello che mi ha salvato è stato Giulio Einaudi: sembra che uno di quelli che non volevano pubblicare fece l’errore di dire che il mio romanzo non avrebbe fatto guadagnare una lira; Giulio Einaudi rispose una cosa oggi impossibile e cioè che loro non pubblicavano romanzi per fare soldi.

In realtà poi aveva ragione quello che non lo voleva pubblicare, perché il romanzo vendette pochissimo, credo cinquemila copie in tutto. Tra l’altro il contratto era capestro, perché io ero l’ultimo arrivato in narrativa, quindi non ci guadagnai quasi niente. Però intanto il libro era uscito.

Quindi mentre scriveva non si è mai posto il problema che un eventuale lettore avrebbe potuto annoiarsi?

Mi sono posto il problema che i lettori mi togliessero il saluto. Pensavo soprattutto a quelli che mi conoscevano e a quelli che si sarebbero riconosciuti nel libro. Ad esempio, un rapporto sentimentale che avevo andò a finire malissimo: la persona si riconobbe e anche se io pensavo di avergli fatto una specie di monumento lui non mi volle più parlare per parecchi anni. Fortunatamente, mio papà e mia mamma, essendo quasi analfabeti di ritorno, non lessero il libro; mia sorella invece sì, però è di dieci anni più piccola di me quindi forse non osava dirmi niente. Con gli altri tutto sommato andò abbastanza bene; ci fu addirittura una presentazione a Pisa, al Teatro Verdi, con un sacco di gente. Cosa che il mio maestro – Francesco Orlando, professore di francese – mi aveva molto sconsigliato; io invece testardo lo volli presentare lì, nella bocca del leone. Dopo la presentazione, che andò piuttosto bene, Francesco venne da me e mi disse che avevo fatto bene. Per cui, finita quella presentazione, i rischi per me erano passati.

Per il resto, lo sapevo che era un romanzo in cui c’erano troppe cose, e che quindi il rischio di una eventuale noia del lettore che non mi conosceva ci sarebbe stato. Ma visto che mentre lo scrivevo avevo l’impressione che sarebbe stato il mio unico libro, ci volevo mettere dentro tutto. Tra l’altro avevo paura di avere l’AIDS e non osavo farmi l’esame, quindi mentre scrivevo mi pensavo anche come moribondo.

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E invece dopo Scuola di nudo ne sono venuti molti altri. Ma nel momento in cui uno scrive un romanzo del genere, così assoluto, come fa ad approcciarsi a un secondo lavoro? Perché Scuola di nudo ti taglia le gambe in tutti i sensi, anche letterariamente: allora come si fa a scrivere il romanzo successivo?

È quello che mi ha detto un mio amico, anche lui allievo di Francesco Orlando: “Dopo un romanzo così o ti suicidi o ti getti ai piedi della croce”. Questa sembrava l’alternativa. In realtà, credo che la cosa che mi ha disincagliato da Scuola di nudo sia stata la vita privata. Io ho avuto una vita sentimentale ed erotica molto rovesciata rispetto alle persone comuni, nel senso che da giovane non battevo un chiodo, ero timido e chiuso, non ho incontrato nessuno e non avevo storie d’amore. Poi, invece, il momento per me più vitale e soddisfacente dal punto di vista erotico è stato quello tra i miei cinquantacinque e cinquantotto anni. C’è stata una storia bella (che poi è quella che racconto nel secondo libro) che mi ha tolto da quell’odio che sentivo per tutto, mi ha fatto passare la misantropia e il pessimismo radicale. Ho pensato che potesse essere l’apertura di un discorso più lungo, ed è stato proprio per questo che scrivendo il secondo romanzo ho realizzato che ce ne sarebbe stato un terzo. Perché non era più soltanto la storia di un disperato che vuole chiudere i conti con il mondo e poi morire; ma cominciava a raccontare delle cose nuove che gli succedono. Ho pensato che forse poteva diventare un romanzo di formazione.

È stata un’esigenza di pancia, quindi. Non una cosa di testa. La vita l’ha chiamata a scrivere quel secondo romanzo.

Sì, ma siccome poi sono matto c’erano anche dei riferimenti letterari. Nel primo romanzo molti avevano visto una sorta di Inferno dantesco. Nel secondo c’erano inseriti molti testi in versi, scritti apposta per il romanzo, quindi avevo l’impressione di star scrivendo una cosa analoga alla Vita nova. A quel punto restava solamente il Decameron: infatti in Troppi paradisi pensavo di inserire dei racconti – i quali però non sono finiti in Troppi paradisi ma in un libretto di racconti che si chiama La magnifica merce, uscito poco prima.

Quindi avevo un po’ l’idea di seguire nel mio piccolo la storia della letteratura italiana. E adesso sono orgoglioso che nell’ultimo romanzo i capitoli delle due storie siano alternati, la narrazione di una è costantemente interrotta dall’altra: è una cosa che faceva Ariosto, quindi è come se fossi arrivato al Rinascimento.

I romanzi cominciano a funzionare davvero quando diventano diversi da come li avevi pensati all’inizio.

C’è stato un momento – durante la stesura di Scuola di nudo ma anche dei libri successivi – in cui ha smesso di percepire la fatica della scrittura e ha visto che il romanzo proseguiva per conto suo?

All’epoca no, non ebbi quella sensazione. Avevo l’impressione che il romanzo contenesse più o meno quello che io avevo deciso di metterci dentro. La cosa ha cominciato a essermi più chiara nei libri successivi. Mentre scrivevo il secondo ho cominciato a pensare che avrebbe potuto essere una trilogia – come poi in effetti è stato: la trilogia dell’autofiction, quella che si è conclusa con Troppi paradisi. Lì cominciai a pensare che la forma, diciamo così, stava prendendo il sopravvento, che mi stava dicendo lei che cosa quei libri avrebbero potuto diventare.

Il fatto per esempio di seguire per quella trilogia una specie di percorso Inferno–Purgatorio–Paradiso, come risulta poi anche dalle copertine, è un’idea che mi venne soltanto all’altezza del secondo libro, nel primo non ce l’avevo ancora. Adesso mi è assolutamente chiaro: i romanzi cominciano a funzionare davvero quando diventano diversi da come li avevi pensati all’inizio.

In quello che è uscito adesso, La natura è innocente, la cosa è stata abbastanza clamorosa: all’inizio avevo deciso di raccontare due storie che non c’entravano niente l’una con l’altra; poi a lavoro in corso mi  sono accorto che le due storie confluivano nel mio privato, in un aspetto abbastanza fastidioso da raccontare. Sono abbastanza convinto che i romanzi siano più intelligenti del loro autore.

A proposito dell’autofiction: Gipi – che è un altro che attinge molto dalle proprie esperienze personali – dice che non riesce a scrivere nei momenti in cui la vita è incasinata, per farlo deve essere tranquillo. Però è proprio nei momenti di tranquillità che c’è meno da raccontare. Lei ha bisogno di avere la vita pulsante intorno a sé per scrivere o preferisce stare tranquillo?

Gipi mi piace molto, perché è cinico e abbastanza sadico. Io la vivo un po’ come lui: prima devi avere la vita incasinata, ma quando ce l’hai incasinata è impossibile mettersi a scrivere, al massimo puoi prendere appunti. Dopodiché devi isolarti da tutto, aspettare che la serenità ti ritorni, ricominci a ragionare e allora lì puoi cominciare a scrivere. Penso che avesse ragione Elsa Morante quando diceva che in certi periodi viveva e in altri scriveva, ma le due cose insieme non le sapeva fare.

Ha scritto poesie, racconti e romanzi. Perché alla fine ha scelto di concentrarsi sulla forma romanzo?

Credo che il romanzo fosse per me obbligatorio perché è il genere più onnivoro di tutti: dall’inizio della sua storia, nel Satyricon di Petronio, il romanzo ha sempre ospitato di tutto. Già nel Satyricon, appunto, ci sono dei versi. Poi ci sono dei romanzi che contengono dei saggi, addirittura delle dissertazioni; nel Moby Dick c’è tutta una parte sulla caccia alle balene, nelle Illusioni perdute c’è un trattato sulla stamperia. Il romanzo è un genere che ingloba quello che trova nel suo passaggio. Quindi da questo punto di vista, per uno come me, che all’inizio non si pensava come uno scrittore ma come un dilettante che si cimenta nella scrittura, era l’unica cosa possibile.

I racconti non sono tanto capace di scriverli perché non ho la misura breve: tendono sempre a diventare dei racconti lunghi che poi diventano quasi dei romanzi. Per quanto riguarda le poesie, invece, non ho la nervatura del poeta, la grazia: i poeti stanno lì e ogni tanto gli piovono dentro dei versi; a me non succede quasi mai, io i versi me li devo sudare. Non sono un poeta nativo. I versi li uso solo come integrazione della prosa. Li metto dentro nella storia quando la temperatura emotiva sale a un punto che c’è bisogno di andare a capo: è una questione di fiato: quando il fiato si sospende per la troppa emozione allora provo a passare ai versi. In quest’ultimo l’ho fatto soltanto alla fine, quando a un certo punto, parlando di mia mamma, non ce la facevo a raccontare tutto con la pacatezza della prosa.

Quando ho scritto Il contagio mi hanno detto che era come Pasolini, anche se io dicevo di no: mi trovavo a seguire i suoi percorsi senza volere.


In Troppi paradisi compare Laura Betti, che parla sempre di Pasolini. Verso di lui sembra che il Siti personaggio, forse anche l’autore, provi invidia, competizione. Che rapporto aveva da giovane con Pasolini e con i grandi modelli canonizzati?

Pasolini lo frequento letterariamente da quando avevo ventidue anni, perché la tesi l’ho fatta su di lui. Ho avuto modo di conoscerlo, è stato lui che ha fatto l’editing del mio primo saggio letterario, che era appunto sul suo endecasillabo. Quando gli ho mandato la tesi mi ha detto che era molto buona soprattutto nella parte metrica – perché per il resto era una cosa un po’ strutturalista e lui mi prendeva per il culo: “Non mi riconosco in tutti questi quadrati, triangoli, strisce per terra”. Mi invitò a Roma per rivedere la mia tesi insieme, quindi sono andato spesso in via Eufrate da lui. Perdeva un sacco di tempo a suggerirmi correzioni, poi mi riaccompagnava alla stazione. Da questo punto di vista ne ho un ricordo molto tenero, di una persona estremamente generosa.

Dopodiché ho continuato a lavorarci fino ad adesso: proprio in questo momento sto preparando insieme a Garzanti una nuova versione commentata di Petrolio. Quindi non l’ho mai abbandonato. È vero che ho sempre avuto nei suoi confronti quella cosa che Harold Bloom chiama angoscia dell’influenza, cioè la paura di somigliargli troppo. Per reazione ho sempre cercato di evidenziare tutte le cose di lui che mi facevano incazzare, per esempio il fatto che parla di ragazzi in una quantità enorme nei suoi romanzi, ma non fa mai accenno ai soldi: un residuo di romanticismo che non gli ho mai perdonato, perché si sa che i soldi erano il tramite con cui avvicinava questi ragazzi.

Però, come quando ti ritrovi a cinquant’anni e ti accorgi che un certo modo di farti la barba ricalca i gesti di tuo papà, irrimediabilmente, dopo aver passato tutta la vita ad allontanarti da tuo padre, a pensare che non vuoi fare la sua vita… Così è il mio rapporto con Pasolini: facevo delle cose apposta per allontanarmi dal suo modo di scrivere, per poi trovarmi comunque a scrivere di borgate, senza pensarci. Quando ho scritto Il contagio mi hanno detto che era come Pasolini, anche se io dicevo di no: mi trovavo a seguire i suoi percorsi senza volere.

In Un dolore normale fa dire questa cosa al Walter Siti personaggio: “Intelligenza forse, sofferenza di sicuro, talento neanche un po’”. Quindi secondo lei la letteratura è una questione di lavoro duro più che di talento? Crede di non essere un talentuoso?

Lo credevo all’altezza di Un dolore normale, adesso ho un po’ cambiato idea, nel senso che uno non scrive tredici romanzi, sopravvivendo a tredici romanzi, se non ha un po’ di talento. Credo di potermene riconoscere un po’. Soprattutto, credo di essere molto mimetico. Spesso le parole che sento me le ricordo per decenni. Quando devo fare il ritratto di un personaggio so già come parla: da questo punto di vista è difficile che un personaggio mi faccia delle stonature. So se un personaggio va fuori registro, di quello me ne accorgo quasi subito.

Ho acquisito anche la capacità di descrivere gli ambienti trovando quel particolare che basta per definirli, senza bisogno di farla lunga. Adesso mi capita di insegnare in alcune scuole di scrittura, e in alcuni ragazzi lo vedi subito: o ce l’hanno o non ce l’hanno. La cosa che proprio non puoi insegnare è l’orecchio, quella cosa che leggi due pagine e sei già dentro a quell’ambiente, conosci già quei personaggi. Magari non sono neanche i primi della classe, sono quelli che arrivano già rassegnati. Mentre altri bravissimi, che fanno tutti i compiti, lo vedi subito che non diventeranno scrittori nemmeno se si mettono a piangere.

Ho bisogno di ingannare il lettore, di fare una specie di magia per cui lui deve credere che la cosa che racconto sia realmente accaduta.


Lei fa un grande lavoro di raccolta prima di iniziare un romanzo: tutto il mondo finanziario di Resistere non serve a niente, le questioni religiose, ontologiche di Bruciare tutto. Com’è che si approccia a questo lavoro preparatorio, di setting di quello che scrive?

Faccio quelli che nel cinema si chiamerebbero sopralluoghi. Non sono capace di scrivere una cosa che non sia realistica: darei un braccio per poter scrivere Alice nel paese delle meraviglie ma non sono proprio capace, ho bisogno che il contesto che racconto sia credibile. Ho bisogno di ingannare il lettore, di fare una specie di magia per cui lui deve credere che la cosa che racconto sia realmente accaduta.

Per fare questo devo immergermi nelle cose. In Scuola di nudo c’era poco da fare perché erano tutti ambienti che conoscevo benissimo da anni. Ma per esempio già in Un dolore normale, dove c’è un’operazione a cuore aperto, ho davvero assistito, grazie a un amico medico chirurgo, a un’operazione a cuore aperto, perché ci sono delle cose che non ti puoi inventare. Per esempio, la grande disinvoltura con cui i chirurghi avevano il paziente sotto e continuavano a dire cose del tipo: “Mah, speriamo che vada bene, se non tiene non è mica colpa nostra”; oppure la battuta rivolta a un’infermiera che parlava troppo: “Ventila di meno la bocca e ventila di più il paziente”. Ecco, una cosa così non avrei potuto inventarla.

Per Resistere non serve a niente il lavoro di sopralluogo è stato molto lungo, perché non sapevo niente di finanza. Se non avessi incontrato questo finanziere (con cui poi sono rimasto molto amico) che mi raccontò tutto della sua carriera, non avrei saputo proprio da che parte cominciare. Ho seguito quasi alla lettera la sua carriera, sono andato due o tre volte nelle sale contrattazioni per capire come funzionava realmente il loro lavoro, mi sono studiato dei volumi di finanza come se dovessi dare l’esame alla Bocconi, mi sono fatto spiegare da un’amica laureata in matematica finanziaria le formule che non capivo.

A volte poi però succedono cose impreviste. Per esempio, sempre per Resistere non serve a niente, mi sono inventato una signorina di cui il mio protagonista è innamorato, una signorina che bada molto al soldo e poco ai sentimenti. I colleghi di questo finanziere volevano assolutamente che io gli dessi il numero di telefono della signorina: solo che non esisteva! Ogni tanto le cose inventate finiscono a essere più convincenti di quelle per cui hai fatto tanta documentazione.

Strappa le storie alle persone come se fosse in un confessionale: è un po’ un prete da questo punto di vista…

Uno psicanalista, sì, le due cose sono abbastanza vicine.

Ma come si fa? Ci vuole del talento umano per fare questa cosa. Non solo il talento dello scrittore, ma anche la capacità di generare fiducia nelle persone che vengono lì e ti raccontano le loro cose.

Sono situazioni tutte abbastanza diverse l’una dall’altra. Io credo di avere empatia verso le persone, anche se alcuni dicono che sono un misantropo e che non so star bene con gli altri. In alcuni casi semplicemente rubo: battute, frammenti di verità, anche se le persone non vogliono. Qualche altra volta è una cosa dettata dalla disperazione, per esempio nel caso del primo racconto de La magnifica merce. Ero innamorato di questo signore che romanzescamente ho chiamato Marcello, e non potendo trattenerlo abbastanza a lungo a un certo punto gli ho proposto di venire da me, non per fare sesso ma per raccontarmi la sua vita: lo pagavo per questo. Quindi in questo caso c’è stato un contratto quasi mercenario.

Altre volte invece nasce spontaneamente un’amicizia, come nel caso delle due vite che ho raccontato adesso ne La natura è innocente. Volevo abbastanza bene a queste due persone, perché mi sembravano veramente due figli. Allora sono stato delicato nel fare le domande. Per esempio, con Filippo – la storia catanese del matricidio –, fin dall’inizio mi sono detto che la domanda finale su cos’è successo la notte in cui ammazzò sua madre non gliela potevo fare subito, ma per ultimo, dopo che ci eravamo parlati e avevamo acquistato un po’ di fiducia l’uno nell’altro. Ed è la stessa struttura che ho mantenuto nel libro, perché la scena del matricidio è l’ultima che racconto. Però all’inizio è stata anche una faccenda di rispetto: non volevo aggredirlo con alcune cose che l’avrebbero immediatamente gelato; non è che puoi andare da uno e chiedergli: “Senti, mi racconti com’è che hai ucciso tua madre?”.

Nel caso invece del finanziere è stato casuale, nel senso che non conoscevo lui ma conoscevo la moglie che è una conduttrice televisiva piuttosto nota, ed ero fidanzato con un ragazzo che lavorava in televisione, come racconto in Troppi paradisi. Questo ragazzo ha chiesto alla conduttrice se potessi parlare con suo marito. Il quale inizialmente ha rifiutato – perché mi avevano presentato come un amico di un autore della D’Urso che voleva parlare con lui. Dopodiché, quando ha realizzato che ero uno che aveva già scritto molti libri, allora ha accettato.

(Continua…)

Intervista di Michele Maestroni e Pierpaolo Moscatello

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