Walter Siti – Dialoghi con Anchise (seconda parte)

La letteratura deve avere uno scopo? Come cambia la vita vincere il Premio Strega? E l’invidia per i colleghi o l’ambizione influenzano il modo di scrivere? E che consiglio può dare agli aspiranti scrittori?
Questo e anche molto altro nella seconda parte dell’intervista a Walter Siti (qui trovate la prima) per il progetto Dialoghi con Anchise: una vera e propria lezione di letteratura.
Potete anche scaricare la versione integrale per leggerla su altri dispositivi:  PDF  MOBI – EPUB

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Ritratto di Sara Dealbera

(…continua)

In una recente critica a Saviano ha sostenuto l’importanza di una letteratura pura, priva di intenti civili. In quello che lei scrive c’è una forma di impegno intellettuale?

Intanto a me non piace la definizione di letteratura “pura”, perché secondo me la letteratura quasi mai è pura e tantomeno il romanzo: se c’è un genere impuro è proprio il romanzo, per quello che dicevo prima, perché ingloba di tutto. La chiamerei letteratura fatta di spessori sovrapposti. Non è solo Saviano, ma una concezione nata negli ultimi anni secondo cui la letteratura deve aiutare il mondo a stare meglio. In Francia per esempio è uscito un libro di un giovane critico, Riparare il mondo, il quale sposa appunto quest’ottica, aggiungendo che se la letteratura invece peggiora il mondo allora non è letteratura. Questo era uno dei rimproveri che mi venivano fatti quando pubblicai Bruciare tutto.

Io ho l’impressione che se la letteratura fa solo questo finisce per essere un po’ al servizio della storia: come se le cose andassero dette solo perché quello è il momento giusto, positivo, per dirle; e il resto non si deve dire. Mi sembra un impoverimento. Trovo che la forza vera della letteratura, e quindi anche il suo impegno, stia proprio nella possibilità di dire tutto, sia il bene che il male, anche quando l’autore non è perfettamente conscio di quello che sta dicendo. Ma è proprio lì che può funzionare: perché come tira fuori qualcosa di te che non avevi calcolato, così può fare anche con la società, denunciando evidenze prima di qualsiasi autorità politica o mediatica.

Engels aveva ragione quando diceva che Balzac aveva scoperto il capitale. Però Balzac non lo sapeva, lui non era socialista e non aveva idea di cosa fosse il capitale. Solo che al di sotto dell’intreccio narrativo e delle vicende dei personaggi, quell’elemento rimaneva, in modo irriducibile. E quindi ogni tanto la letteratura va a scoprire dentro la società delle magagne che la società non sa di avere dentro, e le tira fuori per prima. Questo per me è l’impegno della letteratura.

Per quanto riguarda le cose che scrivo, io penso che mi sono impegnato ad andare contro un certo ottimismo coatto diffuso, di tipo consumistico, nei confronti del progresso e della ricchezza. Ho tentato di indicare dei bachi che stanno sotto e stanno rosicchiando le cose da dentro. Oppure, ultimamente, sono andato contro lo spirito da crocerossine che hanno tutti, che non tiene conto che esiste anche l’egoismo, non tiene conto della natura come elemento che se ne frega del benessere umano. Ho provato a fabbricare dei campanelli di allarme, per dire che forse dovremmo fermarci e guardarci indietro, che forse stiamo andando a sbattere contro un muro.

Quindi adesso ha in mente qualcuno che legge.

Sì, da un po’. Ho visto che sostanzialmente sono persone colte, irrimediabilmente elitari. Io penso poi che il lavoro del romanziere sia un lavoro di élite, perché comporta tante di quelle competenze diverse, nello scrivere come nel leggere. Quindi in genere i miei lettori sono intellettuali o paraintellettuali (come gli insegnanti), stranamente sono in maggioranza donne – la cosa mi ha stupito quando l’ho saputo ma è così, non so dire perché. I miei lettori sono persone, credo, che hanno avuto a che fare con dei propri luoghi oscuri, che nella vita non hanno avuto la pappa pronta. Diciamo, probabilmente, un pubblico di nevrotici.

Scrivo più per gli scrittori morti che per i lettori vivi.

Pensa che questa sia una cosa che trascende dalla sua volontà? Non le piacerebbe che il suo pubblico fosse più vasto e che questo impegno passi anche alle fasce più basse?

C’è una risposta geniale che diede Oscar Wilde durante il suo processo, quando il pubblico ministero gli chiese se avesse mai cercato di spingere i giovani a leggere i suoi libri: “Non li ho mai scoraggiati”. Allo stesso modo, io non ho mai scoraggiato nessuno a leggermi. Se mi leggono mi fa piacere. Però in genere quando scrivo non penso mai al pubblico che mi leggerà, è una cosa che è rimasta identica dal primo libro fino adesso. Sembra una cosa un po’ curiosa e megalomane, però è come se io scrivessi per stare all’altezza dei libri che a me sono piaciuti: scrivo più per gli scrittori morti che per i lettori vivi.

Però la storia della letteratura è piena di scrittori che vendevano molto e che oggi studiamo perché sono riusciti a cogliere lo spirito del loro tempo: Hugo, Dickens. Anche volendo, non riuscirebbe a fare lo stesso?

No, non ne sarei in grado. È come quelli che volevano fare la carriera di Mike Bongiorno: non puoi far finta di essere Mike Bongiorno: o lo sei altrimenti non la fai. Io scrivo difficile, non riesco a scrivere per tutti e allo stesso tempo non ho quella straordinaria capacità di dare a ciò che scrivo degli spessori, per cui si può leggere il mio libro a diversi livelli: uno di intrattenimento, uno più profondo, e così via. Non mi viene, non mi è mai venuto. Credevo di scrivere un libro di intrattenimento con La natura è innocente. Poi mi hanno spiegato che le due storie contenute in quel libro in realtà non sono per niente d’intrattenimento.

Le viene in mente qualche scrittore suo coetaneo, o più giovane, che oggi fa letteratura “alta” ma al contempo riesce a essere letto da un ampio pubblico?

Non mi viene in mente nessuno. Gli scrittori che mi piacciono sono scrittori che non hanno un grande pubblico. Penso a Michele Mari, Francesco Pacifico… Sono tanti gli scrittori che mi piacciono ma non sono scrittori di grande pubblico. Forse adesso è anche più difficile di quanto non lo fosse nell’Ottocento, perché la società di massa ha già i suoi canali, per cui è difficile che uno legga un romanzo se ha voglia semplicemente di divertirsi: per quello c’è Facebook, ci sono i social, le serie televisive e tanti altri strumenti. Mi sembra più facile che un autore di serie tv possa fare un lavoro cinematograficamente alto, piuttosto che un romanziere – abituato a fare delle macchine complicate – riesca a dargli quella patina di leggerezza in modo da essere letto dal grande pubblico.

Anche a livello internazionale, gli autori che mi piacciono – Houellebecq, Easton Ellis – non sono scrittori per il grande pubblico. Forse Philip Roth. Anche se non credo che il pubblico di Roth fosse lo stesso che guarda le serie televisive. Forse gli autori di quello che una volta veniva chiamato “terzo mondo”: mi viene in mente I figli della mezzanotte di Salman Rushdie, perché c’è una certa gradevolezza nella lettura; come anche in certi romanzi sudamericani, per esempio in Cent’anni di solitudine. Nei Paesi dell’Occidente sviluppato mi sembra invece difficile, perché ormai l’informazione e l’intrattenimento hanno preso una strada molto definita.

C’è un punto di Un dolore normale in cui parla di una teoria per cui il personaggio sarebbe più importante della trama – una cosa che apparentemente la allontana dal cinema e dalla serialità. Però pensandoci c’è tutto un filone cinematografico – i più importanti film di Fellini, di Pietrangeli, ma anche Euforia di Valeria Golino a cui lei ha partecipato. Sono film che costruiscono verticalmente il personaggio; strutturalmente somigliano molto ai suoi romanzi. Ha mai pensato di cavalcare forme espressive più popolari del romanzo, usando però lo stesso approccio?

Ci ho pensato, ma le poche volte che ho provato ad accostarmi alla televisione (per programmi televisivi o serie tv) la risposta che mi davano era sempre che quello che proponevo non si poteva fare perché era troppo alto. C’è stato un periodo della mia vita in cui avevo un certo bisogno di denaro liquido, e quindi ho provato a chiedere a qualche produttore di serie televisive se potevo fare il dialoghista, perché in genere i dialoghi mi vengono abbastanza bene, però nessuno si è mai fidato.

Per il resto c’è stato qualche tentativo di trasposizione cinematografica di miei scritti. Quella che è andata fino in fondo è stata quella de Il contagio, però anche lì personalmente avevo l’impressione che i personaggi fossero proprio diversi, continuavo a guardare quel Marcello lì e non riconoscerlo. Questo mi impediva di provare un’emozione forte.

Al contrario invece della versione teatrale: quando Marcello in carne e ossa diceva alcune delle battute che io avevo scritto mi sono venute le lacrime agli occhi. Ho capito quale poteva essere la potenza di un corpo vivo sul palcoscenico. Mi sarebbe piaciuto enormemente lavorare per il teatro, più che per il cinema.

La cosa buffa è che io non credo che Resistere non serve a niente sia il mio libro migliore. Mi hanno dato lo Strega, penso, come si dice “alla carriera”.

A un certo punto della sua carriera, vince il Premio Strega con Resistere non serve a niente. Come si inserisce un traguardo così importante nel suo percorso di scrittore e nelle sue ambizioni?

L’ambizione ce l’ho molto più sfrenata, perché è quella di essere un grande scrittore, ovviamente. Dopodiché forse non ci riuscirò mai, ma l’ambizione è quella, altrimenti uno non ci si mette. Il Premio Strega è venuto da solo: Massimo Turchetta, mio amico ed editore per Rizzoli, mi ha chiamato un giorno perché voleva proporre il mio Resistere non serve a niente allo Strega: “Ci sarà un casino, ti porteranno in giro, dovrai fare un sacco di telefonate…. Te la senti o no?”. E io non avevo da perdere nulla, quindi ho accettato. Dopo tutta questa carovana arriva la serata della premiazione. Io fino al giorno prima ero sicuro di perdere, anche perché lo stesso Turchetta mi aveva telefonato dicendo “Walter, abbiamo perso”. Quindi sono andato senza nessuna aspettativa, anzi, ho seguito lo spoglio da dietro il Ninfeo, dove non potevo sentire niente, perché altrimenti sarei stato male fisicamente. A un certo punto arriva sempre Turchetta con le braccia aperte verso il basso: “Hai già talmente tanti voti, puoi venire, hai vinto”.

La cosa buffa è che io non credo che Resistere non serve a niente sia il mio libro migliore. Mi hanno dato lo Strega, penso, come si dice “alla carriera”. Il contagio, Troppi paradisi e Bruciare tutto sono, in mia opinione, migliori di Resistere non serve a niente, dove invece c’è qualche personaggio che non mi è venuto bene. Comunque, ancora adesso, dopo otto anni, quando mi presentano da qualche parte, per le persone sono quello che ha vinto il Premio Strega. L’ortofrutticolo ora mi tratta meglio perché ho vinto lo Strega: dal punto di vista sociale questa cosa è servita molto, ma non serve ad aumentare o diminuire la stima che hai di te – soprattutto se lo vinci a 65 anni, come è successo a me. Se lo vinci a 27, 30 anni sicuramente ti può cambiare molto la prospettiva, vinto così da vecchi no.

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Walter Siti festeggia la vittoria allo Strega (Fonte)

Quindi lo Strega non ha influenzato i lavori successivi dal punto di vista della pressione e delle aspettative? Exit strategy è stato visto da alcuni come una “protesta” verso il premio. Walter Siti vince lo Strega proprio con il primo romanzo in cui non compare come protagonista. E guarda caso, in quello successivo quel narratore–protagonista invadente torna. Come a dire “io sono sempre lo stesso di prima”.

Lo Strega non ha influenzato, in linea di massima, la mia scrittura. Però fino all’altezza di Bruciare tutto c’è stato un sentimento di contrasto, di sfida, come a dire: “premiatemi questo, se avete coraggio”.

È come se in molti dei miei libri io avessi avuto voglia o bisogno di far suicidare un bambino. Non so perché, forse perché volevo far fuori il bambino che c’era in me.

Proprio Bruciare tutto è stato al centro di alcune polemiche, perché il protagonista è un prete pedofilo. Naturalmente non ha senso ridurre quel romanzo al tema della pedofilia, perché dentro c’è anche molto altro. L’aspetto della pedofilia è però indubbiamente il più scioccante: come è stato immaginare e raccontare quel protagonista?

All’inizio non nascondo che c’è stato un atteggiamento di sfida, residuo di quella cosa che dicevamo del Premio. Volevo affrontare una cosa che sapevo essere tabù, proprio perché penso che la letteratura debba parlare di tutto. La cosa spaventò il mio editore, che parecchie volte mi chiese se fossi sicuro di quello che stavo facendo. Anche se ero sicuro, comunque un po’ mi tremavano le gambe. Quando andavo nel deep web per documentarmi mi sentivo malissimo: uscivo dopo due ore di indagine come se mi avessero menato, perché erano cose altamente sadiche, a questi bambini veniva fatto di tutto, e io facevo fatica fisicamente a sopportarle. Ma dovevo vederle per entrare nel libro in cui mi ero ormai impegnato.

Mentre raccontavo dal punto di vista di Don Leo, però, queste cose sono andate gradualmente a sfumarsi: la pedofilia è scomparsa, sono rimaste solo una pagina o due con quella crudezza: a un certo punto l’onestà interiore di Don Leo mi sembrava talmente forte che non c’era bisogno di sporcarla. Dentro ci sono finite tante altre cose – come, per esempio, il mio senso del divino, la partecipazione emotiva al linguaggio dei bambini, nonostante non abbia mai avuto né un figlio né un nipote, la presenza così forte e potente del male… Quelli erano temi assolutamente miei, e ho finito per affezionarmi a questo Don Leo, come se fosse uno di famiglia.

Bruciare tutto è stato un libro in cui molto lavoro preparatorio, alla fine, l’ho buttato via. Quando scegli un protagonista sai che devi guardarlo da dentro, entrare nella sua testa: io sono entrato nella testa di questa persona che involontariamente ha questi turbamenti. E devo dire che questi “mostri” (come spesso vengono additati dai media e dal senso comune) mi stanno molto simpatici, proprio perché penso che dentro abbiano molto di più rispetto all’etichetta di mostro.

Inoltre, a romanzo finito mi sono accorto che c’era qualcosa di più profondo, che riguardava anche me: non era la pedofilia di Leo, ma il suicidio di Andrea, il bambino protetto da Don Leo. È come se in molti dei miei libri io avessi avuto voglia o bisogno di far suicidare un bambino. Non so perché, forse perché volevo far fuori il bambino che c’era in me. Questo a partire da Troppi paradisi in avanti. Evidentemente era un discorso che dentro di me circolava molto, come se avessi bisogno di fare i conti con l’infanzia e capire che i bambini possono essere così disperati che si possono anche suicidare.

C’è qualche mostro personale che non andrebbe mai a dissotterrare, un punto profondo in cui non si sente in grado di scendere?

Una cosa c’è, e ho provato a dirla in quel romanzo breve uscito per Einaudi l’anno scorso, ovvero la bontà. Una cosa in cui non riesco a entrare bene è la pulsione della bontà, non so cosa pensa un uomo buono. Più che un sentimento è una visione del mondo: qualcuno che pensa che la sua vita non ha senso se non hanno senso le vite degli altri. Conosco alcune persone fatte così, persone che piangono per i dolori altrui molto di più che per i propri: io lì non riesco a entrare, anche se mi piacerebbe molto. Per me è ancora una porta chiusa. È il contrario dei mostri.

In Resistere non serve a niente lei dice: “Non si scrive quello che si vuole, si scrive solo quello che si può”. C’è qualcosa che le piacerebbe scrivere, ma non si sente in grado di farlo? E qualcosa che ha scritto e le è uscito male, perché non poteva fare di più?

Questa frase è un plagio da Carmelo Bene, che disse: “Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può”. Lo penso soprattutto per i poeti. Nelle carriere di molti poeti ci sono dei momenti di silenzio inesplicabili, anche ai più bravi e affermati capita che per sei o sette anni non riescono a scrivere una riga: come se non gli venisse. Quando uno zio di Leopardi chiese al poeta di scrivere un sonetto per la monacazione di una ragazza, lui rispose che non sarebbe stato in grado di farlo perché non era come gli altri poeti, che erano in grado di scrivere poesie su tutto: da parte sua, chiedergli un sonetto era come chiedergli un principato. Credo funzioni così anche per i romanzieri.

A me è capitato con una parte di Resistere non serve a niente, per esempio: in questo romanzo c’è il personaggio di Morgan, un mafioso internazionale. Per entrare appieno nel personaggio sarei dovuto entrare in contatto davvero con un membro della criminalità organizzata, ma i tentativi sono andati tutti a vuoto. Questo nonostante io fossi disposto a mettermi al loro servizio, anche a depistare se era necessario: non si è fidato nessuno, e quindi ho dovuto inventarmelo un po’ librescamente e non ne sono stato affatto contento.

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Walter Siti (fonte)


Ha mai pensato, davanti al libro di qualcun altro, “Cavolo, questo avrei voluto scriverlo io” o “Ora mi devo impegnare per superarlo”? La rivalità e l’invidia la fanno correre al lavoro?

Penso che ognuno abbia la sua strada e in quella fa il meglio che può. Però sì, davanti a certi libri ho pensato che avrei voluto scriverli io. Per esempio, Limonov di Carrére, o Leggenda privata di Mari. Mi capita anche per scrittori viventi, non solo di classici: è una cosa di sana invidia.

E infine arriva l’ultimo romanzo, La natura è innocente, in cui ha provato a raccontare due vite vere: Filippo, il matricida, e Marcello, il pornoattore gay. È un po’ una svolta nel suo percorso come scrittore: per decenni si è dedicato all’autofiction, mentre questo è stato dichiarato un tentativo di romanzo–verità. Cosa è successo?

Da un certo punto di vista già ci avevo provato: per esempio Don Leo non mi somiglia per niente, così come il protagonista di Resistere non serve a niente. L’impulso definitivo è derivato da Carrére, e dal suo libro Vite che non sono la mia. E quando mi sono capitate addosso, in modo un po’ imprevisto, queste due storie, mi sono detto che era una scommessa che alla soglia dei settant’anni mi sentivo di accettare. L’idea era proprio di provare a uscire da me stesso, anche perché avevo la sensazione che di me stesso avevo già detto tutto, e mi ero un po’ stufato di quel personaggio che si chiamava Walter Siti. Non sapevo che in Walter Siti ci sarei ripiombato dentro nelle ultime trenta pagine del romanzo, ma queste sono le sorprese che ti danno i libri.

Mi sono reso conto che per quanto in un romanzo tu dica “io”, non riuscirai mai a raccontare le cose che non sai di te stesso.

In quelle trenta pagine finali dice di aver capito quello che le due storie hanno in comune: i due protagonisti sono riusciti a fare ciò che lei non è mai riuscito a fare, e cioè uccidere la madre e avere tutti i culturisti del mondo. Ma se ha potuto scavare così a fondo solo attraverso vite che non sono la sua, possiamo dire che la fiction è più potente dell’autofiction?

Io credo di sì. È una convinzione che ho cominciato a formulare al tempo di Bruciare tutto. Mi sono reso conto che per quanto in un romanzo tu dica “io”, non riuscirai mai a raccontare le cose che non sai di te stesso. Non è un caso che Freud chiami il livello inconscio Es e non Io. Per cui se vuoi raccontare la tua parte inconscia, quello lo puoi fare solamente usando degli stuntmen, persone che fanno scene pericolose per te: allora lo feci fare a Don Leo, e ora anche a Filippo e Ruggero. In realtà, penso che il punto più delicato e più intimo dell’autobiografia tu possa raccontarlo solamente in terza persona, e non in prima.

Allora perché c’è questo trionfo dell’autofiction, al punto che sembra lo strumento letterario più potente e sensato oggi?

Perché è molto facile da fare. Tenuta a livello superficiale è molto facile, perché è una materia che possiedi benissimo e ti dà l’impressione di essere sincero, anche se in realtà quando si parla di sé si mente sempre. L’illusione di molti è far vedere quanto si è sinceri, ma in verità molto spesso si sconfina nel gossip, e da sinceri si diventa pettegoli, ed è una cosa molto diversa. Mi viene sempre in soccorso Oscar Wilde, che in questo aforisma mi ricorda un po’ Miss Italia: “Sii sincero, tutti gli altri sono già presi”. Devo dire che è stato un po’ anche questo diluvio di autobiografie che mi ha portato ad allontanarmi: non ne potevo più.

Io consiglio ai giovani di rischiare, buttarsi in un’impresa che può sembrare disperata nonostante le indicazioni degli editor. Fidarsi del proprio istinto, e andare avanti.

Torniamo all’inizio. Esordire oggi. Alcuni consigliano di pubblicare racconti sulle riviste, altri di trovare un agente letterario; poi ci sono il self–publishing, i concorsi, e tante altre modalità. C’è una “ricetta” che lei ritiene migliore?

No. In questi quattro anni nella scuola di scrittura Belleville ho visto una cinquantina di aspiranti scrittori – i quali, tra l’altro, non sono tutti giovanissimi, ci sono anche signore di mezz’età, o dei manager che si son presi un anno sabbatico… Ma comunque la maggior parte degli studenti e studentesse hanno un’età sotto i trent’anni. Le persone che io ho trovato più dotate e più capaci di esordire realmente e con una voce propria erano persone che non avevano bisogno di essere insegnate: una era una ragazza venuta solo per trovare un’attività durante l’estate, lavorava in un chioschetto e diceva di non essere capace. Quando le ho dato i primi esercizi da fare invece ho capito che era l’unica della classe che sapeva scrivere: gliel’ho detto e lei non ci credeva. Ed è finita a scrivere un libro niente male, uscito con la DeAPlaneta l’anno scorso.

L’altro era un ragazzo che era arrivato già con il suo romanzo in tasca, e quando l’ho letto ho capito che era un romanzo di un esordiente, con una voce nuova e fresca, sicché gli ho procurato un contratto con Rizzoli. L’unica cosa che ho potuto fare con lui è stata togliere gli errori dettati dall’inesperienza, o cambiare qualcosa che avrebbe potuto essere scritta in modo migliore: piccolezze, comunque. Se parliamo di letteratura – per chi insegna sceneggiatura, cinema o tv è una cosa diversa: lì davvero c’è bisogno di insegnamento, perché ci sono tecniche precise e quant’altro; se parliamo di letteratura in senso forte, dicevo, quelli che riescono non riescono grazie alla scuola ma nonostante la scuola.

In generale trovo che siano più interessanti quelli che si scavano la strada con le loro mani, piuttosto che le scritture glamour: io consiglio ai giovani di rischiare, buttarsi in un’impresa che può sembrare disperata nonostante le indicazioni degli editor. Fidarsi del proprio istinto, e andare avanti.

Chiudiamo questa intervista sulla falsariga dell’epilogo di La natura è innocente, in cui Walter Siti si guarda indietro e realizza cosa è stato il suo percorso di scrittore. Se lei insegnasse in una scuola superiore e dovesse fare una lezione su Walter Siti, come introdurrebbe l’autore e quale passaggio esemplare leggerebbe agli studenti?

Partirei dicendo che Walter Siti ha scritto dodici, tredici romanzi; l’ultimo che ha scritto forse non è proprio l’ultimo, perché gli piacerebbe prima di morire scrivere un romanzo che abbia come protagonista un ragazzo nato dopo gli anni Duemila. È uno scrittore che si è sempre occupato della realtà sua contemporanea, cercando di trovare le magagne di cui la società non si stava accorgendo. E leggerei quel pezzo di Troppi Paradisi che si intitola Io sono l’Occidente.

Intervista di Pierpaolo Moscatello e Michele Maestroni.

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