“Sommersione”, un inferno fatto d’acqua

Sommersione, Sandro Frizziero
(Fazi Editore, 2020)

 

sommesioneSecondo un detto di Eraclito “Per le anime è morte diventare acqua”, e proprio di “anime annacquate” parla il romanzo Sommersione di Sandro Frizziero da poco pubblicato da Fazi, che ci immerge nell’atmosfera nebbiosa e umida di una sottile isola lagunare ricoperta dal mare per dodici ore al giorno. L’Isola è infestata da detriti osceni, umani e non: i residui putridi rilasciati dal mare e soprattutto i suoi abitanti, che continuano a esercitare il cannibalismo dei loro antenati con le maldicenze e l’ipocrisia. Esistenze disperate e senza progetto, che vivono in un luogo in cui tutto è sempre uguale a sé stesso, in cui non c’è futuro diverso dall’inabissamento totale.

In questa “Palude definitiva” seguiamo un’intera giornata del protagonista, un pescatore in pensione senza nome a cui lo scrittore si rivolge con un “Tu narrante”. Rimasto solo dopo la morte della moglie, la[1] Cinzia, e abbandonato dalla Simonetta, la sua unica figlia fuggita sulla civile Terraferma, il nostro personaggio vive nella totale indecenza, abbandonato a sé stesso e fuori dalla comunità degli isolani, che lo accusano di aver contribuito (non si sa come) alla morte della moglie.  La Cinzia in effetti lui l’aveva sempre picchiata e vessata in tutti i modi, ma in fondo era stata una buona moglie, l’unica possibile per uno come lui che, per usare un eufemismo, non ha vissuto esattamente da persona “raccomandabile”: fedifrago, misogino, omofobo, sessuomane e abitué di prostitute, uccisore seriale di cani e gatti, ubriacone, giocatore d’azzardo e fedele bestemmiatore. Insomma, un satanasso in piena regola che, come ogni cattivo che si rispetti, esercita sul lettore un fascino magnetico.

L’esistenza del protagonista è “impastata con l’odio”: egli non crede a nulla se non alla potenza e all’autenticità di questo sentimento, che è il centro del suo manifesto esistenziale.

‹‹Odi gli alberi, le cui radici distruggono le strade, odi l’erba che screpola il cemento; odi le zanzare e le api, i gatti e i muli, le cimici e gli scarafaggi, le pantegane e i gabbiani, e tutte le altre bestie indegne del creato, prima tra tutte l’uomo. E poi odi l’estate che brucia, il vento che distrugge, il gelo, la pioggia, la neve, le stagioni, che oggi non ci sono più, e l’universo intero che poi è soltanto il cesso di dio. E se c’è davvero un dio che ti ha creato a sua immagine e somiglianza, non può che essere un dio cane, un dio ladro, mandante ultimo di ogni miseria e di ogni ingiustizia.›› (p. 127)[2]

Il pescatore esercita l’odio con un rigore assoluto che appartiene solo ai mistici; con la sua spietata lucidità vede ogni cosa nella sua fondamentale dimensione di materialità e imperfezione, ripudiando il linguaggio vuoto delle parole che la comunità umana ha consumato. La bestemmia è l’unica forma di preghiera che il nostro protagonista conosce e con la quale esce dal suo ego insaziabile, ritrovandosi così in armonia col suono del mondo, quell’ ‹‹insopportabile rumore totale della vita›› in cui tutto sembra lamentarsi. É questa profonda visione del fondo delle cose che lo allontana dagli isolani, di cui conosce ogni intima meschinità: il prete pervertito, le beghine cornute, il professore accusato di pedofilia, il sindaco ladro, i vecchi amici squallidi e annoiati della Taverna che frequenta. Questa conoscenza totale lo fa soffrire, ma in ciò consiste il suo destino: deve sopportare quest’inferno di odio per scontare la pena di una colpa del passato a cui nel romanzo sempre si accenna e che emerge solo nelle ultime pagine, il cui ricordo però ha contorni offuscati e imprecisi.

L’insolita scelta del racconto in seconda persona infonde un tono giudicante alla voce che narra e che sviscera la coscienza del personaggio in modo crudo e brutale, come si fa con le interiora di un pesce appena pescato. Il tu crea una distanza tra narratore e personaggio che sfuma i confini: non sappiamo esattamente dove inizia la prospettiva dell’uno e quella dell’altro. Il narratore è allo stesso tempo dentro e fuori la coscienza del pescatore, entra ed esce dalla sua mente come un’onda. In Sommersione la distinzione tra interno ed esterno non è netta, tanto che i luoghi (l’Isola, la Taverna, la Terraferma) sono sempre in lettera maiuscola, come se fossero essi stessi persone.

La scrittura anfibia di Frizziero è in grado di mettere il lettore in una posizione scomoda: da un lato attrae con la sua scorrevolezza, scivola come una barca sulla superficie del mare calmo, ma al tempo stesso ci toglie l’aria, è dotata di una spietatezza respingente in cui nulla viene edulcorato, in cui il Male ha assoluto campo libero. Sommersione è un romanzo morale perché non lascia indifferenti, ma ci obbliga a scegliere, interpretando ricordi sfocati e cercando piccolissimi spiragli di Bene in questa foschia malefica che sa di sogno. Ad esempio, il fuoco che si accende nel finale, dopo pagine di sola umidità, potrebbe essere letto come un processo purificatore, che asciuga un’anima dannata dall’acqua; oppure nell’epilogo si potrebbe intravedere persino un miracolo, anche se forse troppo piccolo rispetto al mare di meschinità su cui galleggia questo atollo del Male. Ma in fondo, come ci ha insegnato Massimo Troisi in Ricomincio da tre, non esistono miracoli che valgono meno di altri. Ci sono i miracoli, e basta.

Giacomo De Rinaldis

 


[1] Nel romanzo i nomi di persona sono sempre rigorosamente preceduti da articolo determinativo, come in uso nell’Italia settentrionale.

[2] Il numero di pagina si riferisce alla versione digitale in formato epub.

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