Le imperfette “Stagioni scalene” di Edoardo Olmi

Stagioni scalene, Edoardo Olmi
(Ensemble, 2021)

Stagioni scalene è il terzo libro di Edoardo Olmi, dopo Il porcospino in pegaso (Felici, 2010), poi ripubblicato per Ensemble nel 2017, e R: exist-stance (Ensemble, 2017). Il libro ha una prefazione di Antonella Sarti Evans e si divide in quattro sezioni principali, ispirate alle stagioni: Primavere, Estati, Autunni e Inverni. Ogni sezione ha delle sottosezioni, spesso riguardanti alcune località italiane.

Durante la prima e la seconda sezione del libro, risulta difficile capire se l’opera sia una raccolta di poesie o un poemetto. È vero, nella prefazione viene subito annunciato che «la poesia non finisce, continua». Tuttavia, risulta complesso individuare il termine di una composizione e l’inizio di un’altra; non perché si confondano i temi, che più o meno sono gli stessi, ma per una questione di tempi. Quasi in tutto il libro è complesso cogliere il momento in cui il poeta vuole che il lettore prenda respiro. Potrebbe c’entrare l’impaginazione? Sicuro, ma anche questa è una scelta di chi scrive.

In Stagioni scalene, Edoardo Olmi usa grandi parole: come “verità”, “millenni”, “rivoluzioni”, e molte altre, assieme a termini contemporanei, spesso considerati piccoli perché non ci piace tanto il nostro tempo: “iPhone”, “WhatsApp”, “Wi-Fi”. Questo gioco di alternanza è molto ambizioso e performativo. Non è chiara l’intenzione del poeta; dove vuole portarci, oltre a una contemporaneità evidente, ma anche vuota, priva di agganci.
A volte, purtroppo, alcune delle poesie di Olmi appaiono “composizioni sporche”. E il gioco di voler mettere tante, troppe occasioni quotidiane solo citando applicazioni per lo smartphone o social network, ci lascia in balìa di un vuoto composto d’immagini inafferrabili.

Parlando più direttamente: Olmi sembra aver composto le poesie in questo libro per raccontare la modernità, lo stato confusionale e apparentemente estatico in cui molti si trovano, ma ciò che accade, dal mio punto di vista, è che quell’eccessiva superficialità che lui stesso racconta sarcasticamente si legge anche nelle sue poesie. Dunque rimane poco chiara la motivazione che ha spinto Olmi a scrivere e cosa dovrebbe portare un lettore a leggere.

Olmi ha una notevole capacità di comporre testi con musicalità. La maggiore qualità di questa raccolta, soprattutto dalla terza sezione in poi, è proprio la costituzione musicale dei testi. Probabilmente Olmi accoglie tra i suoi maestri Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti (peraltro citato in un’occasione), e in generale i poeti della Beat; quindi poesia fatta d’immagini improvvise e suoni jazz – per Olmi, vista la contemporaneità, pop. Purtroppo però le sensazioni provocate dai testi di Olmi, a differenza di molti dei testi della Beat, arrivano come saette già scariche, come se durante la lettura si perdesse il focus e la potenza immaginativa/fantastica.
Visto il carattere ritmico delle poesie di Olmi, queste appaiono come se fossero state scritte di getto. È poco importante sapere se questo sia vero o meno. Ciò che conta, invece, è che arrivano come ondate, getti d’acqua o cascate.

Nonostante un gusto poetico definito, Olmi è in grado di non stanziarsi in unico stile, il quale potrebbe rischiare di incastrarlo, ma cambiare prospettiva quando anche il tema narrato lo richiede. Spesso siamo abituati a una silloge poetica composta tutta nello stesso stile, riconoscibile, di un determinato scrittore. Credo che invece questa flessibilità, se eseguita al meglio, possa essere una qualità notevole.

Nella sottosezione Roma nasona, così come si può intuire dallo stesso titolo, le poesie attraversano la città in descrizioni tra il pop e l’osservazione colta. Per cui, citando quartieri, piazze e vie della capitale, il poeta, come passeggiando, intuisce ciò che ha intorno, in una forma priva di spazialità o temporalità, colma di oggetti, persone, figure o eventi pseudo-popolari. Ci sono Hemingway, Masaniello, Ferlinghetti e tante altre figure del passato.
Questa sezione appare come una descrizione unicamente visiva nella percezione del poeta. Irriconoscibile a tratti, poiché soggettiva – scontata in altri, poiché oggettiva come potrebbe esserlo dal punto di vista di un turista o di un abitante di passaggio.

Approfondendo il paragrafo precedente, c’è da dire che la maggior parte della poesie in Stagioni scalene è un’intersecarsi di descrizioni, quasi elencate. Sono i paesaggi, le persone o gli eventi che si generano intorno al poeta. In generale, Olmi tende quasi sempre a descrivere, e in questo c’è un’assenza di giudizio. A volte è unicamente il sarcasmo con cui l’autore osserva le cose del mondo che permette al lettore di percepire la personalità del narratore.

Detto ciò, è un peccato che il libro non sia così divertente. Lo fosse stato, esisterebbe una giustificazione all’analisi approssimativa di alcuni tratti della società e della socialità. Non so se l’intento di Olmi fosse la commedia. Tuttavia, a mio avviso, la possibile “grande commedia umana” non si percepisce; al contrario è visibile una perdita, una certa solitudine nel caos della contemporaneità, ma di cui Olmi ha scritto in modo poco convincente.

Credo che nel libro di Olmi ci sia un problema strutturale. In primis, alcune poesie sono tematicamente ripetitive. Spesso si leggono descrizioni di momenti o città o isole, che però sono visualizzate sempre nella stessa modalità un po’ flâneur e soggettiva, molto difficile da scardinare per chi non conosce il poeta, forse, e allo stesso tempo lontane dall’essere una cartolina poiché per quanto spesso sorridente, la narrazione è confusionaria e improvvisa, quasi improvvisata, difficile da inquadrare se non si conoscono abbastanza bene i luoghi, i tempi e le motivazioni descritte nei brani.

In secondo luogo, trovo che il libro sia fin troppo pieno. È troppo. Sembra quasi di non leggere un libro in quanto singolarità, ma varie opere condensate in una sola, e questo lo rende dispersivo. Potrei avere contato almeno tre possibili raccolte diverse. Alcune sezioni possono vivere tranquillamente in solitaria, come la sezione su Roma, sopracitata, o quella sull’isola d’Elba (successiva). Sembra che Olmi abbia voluto mettere tutto ciò che aveva a disposizione in questa raccolta, perdendo di vista ciò che voleva raccontare e come. Perdendo anche la consequenzialità tra una poesia e l’altra.

È un discorso che in realtà si protrae da tempo, quello della raccolta poetica come libro unico, quasi romanzo in versi, che quindi racconta una storia in forma non necessariamente consequenziale, ma sicuramente unitaria. D’altra parte, invece, c’è la visione della raccolta come “sacco” di poesie scritte in un lasso di tempo determinato che, ad esempio, può andare da qui a un anno. Non so come Olmi abbia eseguito la sua stesura o come abbia scelto di comporre Stagioni scalene, ma sicuramente collocherei il suo libro all’interno della seconda descrizione.

Concludendo è assente, purtroppo, una linea generale che il lettore può seguire per comprendere al meglio le composizioni di Olmi, o al contrario una non-linea che permetta al lettore di perdersi nel libro. Ciò che rimane è una confusione indefinibile di tante immagini e visioni che si sovrastano a vicenda, alcune delle quali lasciano un sorriso, altre solo un senso di rammarico.

Vittorio Parpaglioni

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