Rogozov, Mauro Maraschi
(TerraRossa Edizioni, 2021)
Alle 22:00 di una gelida nottata di aprile del 1962, Leonid Ivanovič Rogozov si trovò nella necessità di doversi praticare un’appendicectomia. I dolori lancinanti al basso ventre non lasciavano spazio a equivoci: se non fosse intervenuto subito, sarebbe morto a breve. Essendo l’unico medico presente sul luogo – la stazione Novolazarevskaja, in Antartide, dove si era recato per prendere parte alla sesta spedizione antartica sovietica – si iniettò un anestetico e si operò da solo. Dopo due ore di intervento, durante le quali rischiò di svenire più volte a causa della grande quantità di sangue persa, riuscì a rimuovere l’appendice e a richiudere la ferita, e infine a sopravvivere.
Il romanzo di Mauro Maraschi non parla tuttavia di questo incredibile personaggio, anche se il richiamo nel titolo non è ovviamente casuale. Il protagonista è invece Ruggero Gargano, un uomo che crede fermamente nei principi della medicina orientale e che è convinto che il corpo umano sia perfettamente in grado di guarirsi da solo, anche se questa è solo una delle tante sfaccettature della sua eccentrica filosofia di vita.
La prima volta che incontriamo Ruggero è all’interno del Sanatorio di Castrop, una specie di comune salutista in cui si è rifugiato dopo aver abbandonato la figlia e la compagna incinta. La voce narrante è quella di un uomo esterno ai fatti, che per motivi che non conosciamo – se non alla fine della storia – si è spinto fin lì per ritracciare Gargano e per porgli alcune domande.
Le disavventure del protagonista sembrano iniziare quando Ania, sua figlia, lo convince a portarla da un vero medico per risolvere i suoi problemi di meteorismo. Questo evento rappresenta la prima grossa rottura dei principi morali di Gargano; infatti, secondo lui «uno non ci dovrebbe neanche mettere piede negli ospedali», perché «ci entri sano e ci esci malato» (pag. 11). Il responso del dottore non convince Ruggero; secondo lui, le cause del malessere di sua figlia sono altre, prime fra tutte l’aria malata di Roma e il consumismo divorante della città (perché per funzionare «la medicina orientale ha bisogno di un contesto salutare» (pag. 17)).
Gargano decide così di racimolare dei soldi per potersi trasferire ad Altavilla, dove un amico gli ha trovato un appezzamento di terra che sembra essere un affare. Ma la sua stabilità economica è a dir poco precaria e, soprattutto, non dipende da lui, ma da una serie di personaggi altrettanto sconclusionati e grotteschi, che ricoprono al contempo il ruolo di vittime e di carnefici.
Il primo di questi è Ennio Jacurso, un cieco che scrive articoli per alcune riviste specializzate; per diversi anni Gargano ha lavorato come “segretario” per lui, aiutandolo a scrivere al computer e riordinando la sua casella di posta. Jacurso è un uomo irascibile e fanatico, che sfrutta la sua posizione di superiorità sociale per vessare Ruggero fino all’esasperazione.
La seconda è Carla Crusich, una donna con cui il protagonista ha una relazione alimentata unicamente dalla sua necessità di essere mantenuto e dalla testardaggine di lei, che è convinta di poterlo in qualche modo cambiare («Pensava che prima o poi sarebbe riuscita ad “aprire la scorza”, ma la verità è che non c’è mai stata nessuna scorza, gliel’avrò spiegato un milione di volte ma lei no, per anni ha continuato imperterrita» (pag. 27)). Infine c’è Taddeo Tebaldi, forse il più particolare dei tre: un intellettuale che rimedia a Gargano alcuni lavoretti salutari, ma che in realtà lo sfrutta per portare avanti una sorta di “esperimento sociale”, volto a documentare quanto in basso può arrivare un uomo che si trova in condizioni di difficoltà economica.
Questo carosello di personaggi sui generis è solo una delle cose interessanti del romanzo; Rogozov è infatti un libro che affronta diversi temi, utilizzando al contempo uno stile innovativo. Il centro della narrazione può comunque essere riassunto in un unico concetto: nella società moderna, sopravvivere seguendo i propri principi e senza soccombere alle continue tentazioni è un’impresa che è destinata al fallimento. Maraschi dimostra bene questa tesi mettendo in evidenza tutte le contraddizioni del proprio protagonista.
La narrazione si muove infatti attraverso due binari, entrambi incentrati sul personaggio principale: da una parte le sue idee salutiste e la sua rigida filosofia di vita, dall’altra le sue azioni distruttive. Gargano vorrebbe essere un uomo migliore per sua figlia, vorrebbe smettere di bere, trovare una cura ai problemi di Ania e abbastanza soldi per farle vivere un’esistenza felice, ma sembra totalmente incapace di rispettare i rigidi principi morali che lui stesso si è imposto.
La relazione con Marlena (la madre di Ania), è un altro degli esempi di questa tendenza autodistruttiva. Gargano la sceglie come compagna perché rivede in lei la sua stessa disperazione, ma soprattutto perché è astemia, e stare con lei gli sembra l’unico modo possibile per rimanere lontano dai problemi di alcolismo. In realtà, Ruggero sostituirà semplicemente una dipendenza con un’altra, e rimarrà intrappolato in un meccanismo autolesionistico che lo porterà infine a venir meno a tutte le sue convinzioni.
L’altra riflessione centrale del libro è quella legata al rapporto padre-figlia. Tramite le lunghe riflessioni di Ruggero, Maraschi mette in luce uno degli aspetti più controversi dell’essere genitori, ovvero quello legato alla consapevolezza della morte:
«Vigilare sui figli è una tortura, pensi in continuazione che potrebbero morire da un momento all’altro, che potrebbero investirli, e così sei sereno solo quando sei con loro, o sai dove sono. Come si fa a vivere tutta la vita con il pensiero che potrebbero morire da un momento all’altro?» (pag. 171).
In questo passaggio, si sente vagamente l’eco di Javier Marías, che in Domani nella battaglia pensa a me ha sviscerato magnificamente il tema della morte, anche in relazione al rapporto con i figli (basta citare il magnifico incipit di quel romanzo: «Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome.»). Anche l’andamento della prosa, che segue il ritmo dettato dal monologo del personaggio, asseconda questa analogia con lo scrittore spagnolo. L’utilizzo di questo espediente stilistico, inoltre, aumenta il grado di immedesimazione del lettore, che può ritrovarsi spesso a convenire con le opinioni Ruggero, persino quelle più radicali.
Al di là della trama e dello stile, un altro elemento interessante del romanzo è la sua struttura. Ad ogni capitolo corrisponde infatti un’epigrafe dedicata, riportata alla fine del libro; oltre a questo, l’autore fa un massiccio uso delle appendici per approfondire alcuni aspetti della narrazione e per dare voce a diversi personaggi. Questo espediente ha il pregio di rendere la lettura più dinamica, e di offrire diversi punti di vista (anche se molte delle appendici servono comunque ad arricchire la figura di Gargano).
Ed è proprio in una di queste appendici che Maraschi utilizza la storia di Rogozov come una sorta di manifesto del pensiero di Gargano:
«Un individuo è forte solo quando è solo e non deve preoccuparsi dei più deboli, quando non ha bisogno di nessuno e nessuno ha bisogno di lui. È per questo che tutti dovrebbero imparare a curarsi da soli, per liberarsi innanzitutto dai medici!»
Il punto non è pero semplicemente essere autosufficienti, ma piuttosto liberarsi dalla paura della morte stessa. È davvero possibile riuscirci? Attraverso il suo romanzo, Maraschi sembra suggerire il contrario. Per quanto cerchiamo di impegnarci, ci sono alcune dinamiche ineluttabili che ci spingeranno a ripetere sempre gli stessi errori, e a rimanere vittime delle nostre stesse paure (come in una sorta di profezia che si auto-avvera), fino ad incappare in quelli che Gargano chiama “cronotopi”: «snodi esistenziali risolutivi nei quali la vita deraglia dai suoi “binari originari” e intraprendere un percorso del tutto diverso».
Francesca Rossi