Snorri Sturluson. Edda, Marco Battaglia
(Meltemi, 2021)
Questo autunno è stata pubblicata da Meltemi una guida analitica alla lettura – la prima integrale edita in italiano – di uno dei testi più rappresentativi della letteratura del Medioevo nordico, l’Edda in prosa o Edda di Snorri (per distinguerla dall’Edda poetica, di cui una breve introduzione qui). Solitamente (e un po’ riduttivamente) definito un “manuale di poetica”, l’Edda di Snorri è una fonte importantissima sulle credenze delle antiche genti scandinave, nonché il frutto di una sorprendente riflessione grammaticale, che raccoglie l’eredità locale integrandola coi modelli poetici della più blasonata tradizione retorica latina.
Il volume si articola in un’introduzione biografica dell’autore, Snorri Sturluson (1178-1241), e sei capitoli – uno per ciascuna sezione dell’Edda (Formáli, Gylfaginning, Skáldskaparmál, Háttatal*) – più due, in apertura e in chiusura, dedicati rispettivamente alla tradizione manoscritta dell’opera e alla sua riscoperta dal Seicento a oggi. La dizione, i metri, la costruzione dei versi della ‘poesia scaldica’ – raffinata poesia di corte di genere encomiastico, di origine norvegese ma in seguito egemonizzata dagli ‘scaldi’ islandesi – vengono analizzati e in alcuni casi interpretati con l’ausilio delle ricche narrazioni mitologiche locali, senza le quali gli enigmatici traslati poetici e i sinonimi desueti (kenningar, heiti) risulterebbero del tutto incomprensibili. Ne parliamo qui con l’autore del volume, Marco Battaglia, professore di Filologia germanica e Letterature scandinave presso l’Università di Pisa e membro del direttivo dell’Istituto Italiano di Studi Germanici.
L’Edda di Snorri è un testo ricco, complesso, a tratti molto tecnico. Lo consiglierebbe a una persona che si approccia per la prima volta alle letterature scandinave?
Sì, a condizione che il lettore sia consapevole del livello di difficoltà e del fatto che esiste un universo semantico più profondo rispetto a quello che traspare da una prima lettura superficiale. Si tratta di un testo che sviluppa considerazioni di natura teorica, teologica, storica e politica, al di là degli aspetti più eclatanti di carattere esoterico o mitologico.
Tra chi non ha familiarità con la scandinavistica è un errore comune pensare alla mitologia norrena come baluardo incontaminato del paganesimo. Può dare un rapido cenno storico sul motivo per cui questo è di fatto impossibile?
La mitologia nordica antica, che proviene sia da fonti occidentali (islandesi, norvegesi) sia orientali (svedesi, danesi) – non può essere considerata un baluardo dell’antico paganesimo germanico né un modello dello stesso. Infatti, le più antiche testimonianze sui presunti culti di quegli agglomerati ‘barbarici’ che G. Cesare definì ‘Germani’ – e che si scontrarono, si integrarono e infine si sostituirono all’Impero – derivano in primis proprio dalle faziose notizie dell’etnografia latina. Viceversa, le rappresentazioni della mitografia nordica messe per iscritto più di mille anni dopo C. Tacito – e oggi note attraverso rielaborazioni rinascimentali, romantiche, o contemporanee – sono il risultato di una lenta contaminazione alla quale concorse, fin dalle origini, l’intervento di eruditi cristiani. La mitologia germanica originaria, molto probabilmente ordinata secondo un paradigma enoteistico ordinato per singole divinità variamente adorate da clan, etnie, tribù o leghe cultuali, è stata in seguito appiattita nelle fonti letterarie scandinave secondo un improbabile pantheon germanico modellato sul più noto esempio greco-latino.
Quali sono, secondo lei, gli elementi più caratteristici, propri della mitologia norrena?
Tenendo sempre presente la differenza tra mito e religione e l’innegabile evoluzione dei sentimenti religiosi che segue lo sviluppo di ogni società (si pensi alla stessa Roma), va ricordata la responsabilità di eruditi e chierici scandinavi nel processo di testualizzazione dal XII secolo in avanti. Tralasciando un attimo le grandi divinità ispiratrici di storie, leggende e genealogie politiche, cosa colpisce in effetti è la ‘straordinaria’ normalità dei culti quotidiani meno noti al pubblico, ognuno col proprio cerimoniale, che presentano elementi trasversali in moltissime culture – penso agli spiriti degli antenati, familiari, territoriali o ad altre entità divine di protezione o fertilità, ad es. fylgjur o landvættir, culti analoghi, tra gli antichi Germani, a divinità ‘minori’ come le Matronae o le figure sottoposte a reinterpretazione romana (Mars Thincsus, Hercules Magusanus, Mercuris Hanninis, Baduhenna, Vihansa, Tanfana etc.). Nella Scandinavia medioevale si osservano casi che assomigliano a ‘doppioni’ divini, oltre a figure come Norne o Valchirie, di cui si riscontra traccia solo parziale (o nulla) tra i Frisi, gli Anglosassoni o le popolazioni germaniche continentali. Nella stessa tradizione letteraria nordica si ha la sensazione che alcune di esse siano sconosciute a una parte delle testimonianze, come se certi miti, svuotati del loro valore con l’avvento del Cristianesimo intorno al Mille, fossero stati recuperati per ragioni estetiche, formali o strumentali da poeti che probabilmente ne avevano ormai una conoscenza limitata. Nella stessa Germania di Tacito, tra miti di antica memoria, si nomina un certo Tuisto, nato dalla Terra, e la sua discendenza, della quale però non si sa niente, trattandosi di divinità che già all’epoca non erano più oggetto di venerazione.
A pagina 87, parlando delle kenningar, afferma che gli studi intorno alla loro origine presentano «ancora ampie zone d’ombra, non risolte dal confronto con forme analoghe della poesia indoeuropea (anglosassone, celtica, sanscrita e greca), con il genere dell’enigma e del certame sapienziale, col tabù linguistico o coi meccanismi cognitivi che regolano la costruzione del linguaggio astratto […]». Con la consapevolezza che sia una questione meritevole di un saggio autonomo più che di una risposta in poche righe, potrebbe dare un’estrema sintesi dei punti essenziali del problema?
L’analisi di quelle strutture metaforiche composte, definite con l’appellativo di kenningar e presenti in molte tradizioni poetiche (ad es. anglosassone o irlandese), rientra a mio giudizio in un perimetro di natura prevalentemente cognitiva. Come possiamo catalogare un composto come ‘il figlio di Odino’? Siamo sicuri che sia un vero e proprio traslato di natura metaforica? Se è vero che dovrebbe avere un significato terzo rispetto ai suoi componenti, è altrettanto indiscutibile che i nomi dei molti figli del dio non sono così oscuri e non richiedono un grande sforzo ermeneutico. Si tratta in tal caso di capire il rapporto che intercorre tra il singolo nome e le proprietà semantiche che gli sono riconosciute come proprie, anche attraverso un’analisi comparata delle ricorrenze per ogni singolo referente. Vi sono poi i ‘nomi semplici’ – heiti – che a dispetto del loro nome destano perplessità non meno tortuose: ad esempio, ‘il mascherato’ è un appellativo che può essere attribuibile a Odino, ma non soltanto; lo stesso è valido per langbardr ‘barba lunga’, allusivo di nuovo di Odino ma anche di un serpente, un falco, un caprone o addirittura una spada: un sinonimo poetico che viceversa ha in sé la complessità di una metafora. Ne consegue che il sistema di costruzione nominale alla base dei traslati nella poesia scaldica, così come è presentato da Snorri, pone problemi di referenzialità e contraddizioni (in particolare tra le sezioni degli Skáldskaparmál e del Háttatal) tali da indurre gli studiosi a supporre che al momento della sua morte Snorri non avesse completato l’opera, alla quale lavorava da lungo tempo. Un team di studiosi basati a Sidney, attorno a una esperta del valore di Margaret Clunies Ross, sta illuminando da anni le varie problematicità di questo linguaggio, avvalendosi giustamente anche di strumenti computazionali.
Con le sue perifrasi oscure e una sintassi tutt’altro che intuitiva, la poesia scaldica era senza dubbio elitaria e per pochi. Ma il suo pubblico era in grado di comprenderla facilmente?
Sì e no; esistevano vari livelli di lettura e piani semantici diversi all’interno della strofa scaldica. Non si dimentichi che, per la sua natura enigmatica, questa poesia rappresentava anche uno strumento in grado di pronunciare in modo velato accuse terribili o allusioni velenose senza offendere o ledere palesemente l’onorabilità di persone potenti, ed evitare così di incorrere nelle reazioni più estreme (A: «Tipo un’ascia in faccia»), esatto, come pure nelle precise e durissime sanzioni stabilite dai codici di legge. Le immagini evocate potevano quindi essere fruite per gradi di complessità crescenti, a seconda delle capacità ermeneutiche di chi componeva e di chi recepiva.
Sono stati fatti tentativi moderni o contemporanei di composizione secondo i modi e le norme della poesia scaldica?
Se si prescinde dal livello amatoriale e folkloristico, spesso frutto della passione un po’ malsana di noi studiosi, certi elementi fanno parte di correnti poetiche presenti nell’Ermetismo, come pure in autori quali Thomas Gray, William Blake, Ann Radcliffe, Walter Scott o Friedrich G. Klopstock e Ernst Jünger. L’attività in sé ha riscosso particolare enfasi in circoli ristretti, oggi come allora, destinata a soccombere dinanzi a prodotti narrativi di più immediato consumo, come allora furono le saghe, antesignane – nelle parole di J.L. Borges – del romanzo occidentale moderno.
Più in generale, qual è l’opera della letteratura norrena che predilige?
A parte l’Edda di Snorri? (ride)
Benché un sapore ‘norrenizzante’ pervada molta pop-culture di successo, come approfondito dall’ultimo capitolo del volume – si pensi ad esempio al metal scandinavo, ai Thor e Loki marveliani, a prodotti cinematografici o serie come Vikings, a Neil Gaiman, per non parlare dell’universo tolkieniano – la filologia germanica e la scandinavistica sono ambiti relativamente meno frequentati in Italia oggi. A cosa è dovuta questa discrepanza, secondo lei?
Questo è un punto dolente. L’Italia è l’erede principale della cultura classica, un paese che ha dato origine a uno dei più straordinari e rivoluzionari fenomeni culturali, il Rinascimento, illusione della rinascita di un’epoca aurea dopo i mai esistiti “Secoli bui” del Medioevo, concetto inventato a posteriori dagli umanisti. Con tanto materiale e tanta bellezza prodotti, e per fortuna ancora presenti nel nostro Paese, è più difficile che ci si rivolga ad aspetti così distanti e meno raffinati, legati a lingue e culture ignote alla maggioranza del pubblico. Pertanto, ci si imbatte nell’universo culturale germanico – laddove ‘germanico’ si riferisce alla macroregione che va dalla Germania meridionale alla Scandinavia, Inghilterra, Paesi Bassi e alcune aree dell’Europa orientale oggi slavofone ma un tempo germanofone – solo se all’università si affronta lo studio della Filologia germanica, che di quelle tradizioni culturali, linguistiche e letterarie (antiche o più recenti) studia i meccanismi di origine e trasmissione. La scelta di tale disciplina è tuttavia subordinata allo studio dell’inglese e del tedesco, o, più raramente, del nederlandese o, appunto, delle lingue scandinave, oggi divenute purtroppo materia di nicchia negli atenei italiani: manca il coraggio di investire in nuove cattedre e insegnamenti specifici per le solite ragioni di risparmio sulla spesa pubblica, e questo comporta inesorabilmente un progressivo allontanamento da quelle culture, che in altri contesti poi finiamo per celebrare in modo improprio e inconsapevole.
A cura di Alessia Angelini
*Rispettivamente Prologo, L’inganno/la creazione di Gylfi, Dialoghi sull’arte poetica, Computo metrico
Immagini usate in ordine di apparizione:
“L’inganno di Gylfi” in un manoscritto islandese, visibili Gylfi dinanzi alla triade composta da Hár “l’Alto”, Jafnhár “L’Ugualmente Alto” e Þríði “il Terzo”
Copertina di un manoscritto islandese del XVIII secolo che mostra Odino, Heimdallr, Sleipnir e altre figure della mitologia norrena
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