Cos’è lo stato di emergenza?, Mariano Croce e Andrea Salvatore
(Nottetempo, 2022)

Il virus della semplificazione – traversale, demagogico, illusorio, insondabile – è l’elemento cogente del dibattito politico italiano. Dopo due anni di pandemia reale, la sintomatologia è allarmante. L’oggetto della querelle è spesso e volentieri lo stato di eccezione/emergenza[1]. Il bel saggio di Croce e Salvatore prova a ristabilire il primato dell’indagine teoretica, da Carl Schmitt ai giorni nostri. Se l’attualità è il parametro che più ci interessa, le coordinate da tenere a mente di Cos’è lo stato di emergenza? credo siano molteplici e di grande valore.
Si inizia con una precisazione semantica – spacciata per malinteso -: «parlare di stato di eccezione non solo contribuisce a ridurre ogni emergenza a eccezione – mentre è concettualmente e pragmaticamente raccomandabile tener separate le due – ma, paradossalmente, alimenta la forma inglobante e gelatinosa dello stato di eccezione come categoria onnicomprensiva e autogiustificantesi[2]». Al contrario, lo stato di emergenza prevede la sussistenza di una condizione socio-politica straordinaria, è imprevedibile, non regolabile preventivamente e richiede una gestione eccedente gli strumenti di amministrazione ordinaria (previsti dalla Costituzione).
La distinzione non è nominale: l’emergenza[3] rientra nei margini del diritto ordinario; l’eccezione comporta una sospensione «dell’ordine vigente». A ragione storica, gli autori citano l’esempio della dittatura romana. Tra il 501 a.C. e il 202. a.C. le dittature autorizzate furono settantasei; il lemma all’epoca romana non sussumeva l’applicazione derogatoria dell’età repubblicana, tant’è che rappresentava un potere «eccezionale ma disciplinato», e imponeva che «le autorità che avevessero il compito di determinare la necessità [dittatoriale] non potessero in alcun modo autoinvestirsi dei poteri che esso comportava».
Ci si chiede: il governo dell’emergenza rientra [quindi] nei limiti del governo ordinario, anche allorché determina inevitabili (ma transitori) squilibri nella distribuzione delle competenze, oppure costituisce una rottura, un’eccezione sospensiva? Secondo Macchiavelli e Rosseau, riconsiderando l’esempio dell’età romana, il quid dell’istituto giuridico è nella durata; anche per Montesquieu la dittatura romana «è legittima in quanto utile a proteggere la Repubblica». Lazar[4] raggrupperà queste posizioni sotto il cappello teorico-genealogico dell’eccezionalismo repubblicano; così l’emergenza si fa esistenziale: «nel senso che il governo dell’emergenza subentra alla politica ordinaria allorché la sussistenza dello Stato è in pericolo e ne va dell’esistenza stessa di un intero regime». L’architettura costituzionale dello stato moderno è comprensiva della dittatura (“romana”); il distinguo semantico, dunque, neutralizza il paralogismo che vizia il rapporto emergenza/eccezione – il combustibile dei Governi autoritari che presentano misure eccezionali come inevitabili.
Le coordinate semantiche intimano una riflessione anche sul piano normativo/preventivo: «chi garantisce che l’emergenza non si saturi e non imploda in eccezione?». Uno degli obiettivi dei processi di costituzionalizzazione tra ‘800 e ‘900 fu proprio quello di vincolare le crisi esterne al selciato costituzionale, riducendo «la distanza tra ordinarietà ed emergenza». L’11 settembre 2001 ha cambiato le carte in tavola[5]; le misure dell’allora amministrazione Bush– secondo i critici – perseguivano la trasformazione dell’emergenza in eccezione mediante l’adattamento «degli strumenti giuridici tradizionali e l’introduzione di nuove forme procedurali». Secondo Oren Gross, le conseguenze sul versante culturale e giuridico sono state poietiche: «la panoplia di misuree antiterrorismo messe in atto negli Stati Uniti a partire dall’11 settembre 2001, quale parte della guerra globale al terrorismo, rapprensentano un sistema alternativo di giustizia, […] una nuova normalità emergente[6]».
La teoria eccezionalista si fonda sui criteri di indeterminabilità e vaghezza; definizione allusive e dispersive del concetto di emergenza favoriscono, senza opportuna giustificazione, strumenti e politiche eccezionali. Il saggio, come esempio di «lampante di trasformazione surrettizia ma di straordinaria capacità di radicamento», ricorda la recente risposta dell’Eurozona alla crisi del debito sovrano nel 2010. Gli ingranaggi del meccanismo eccezionalista sembrano esserci tutti: l’auto-investitura di poteri emergenziali da parte delle autorità politiche; l’elusione delle regole[7]; la pressione degli stati forti su quelli deboli (in assenza di norme costituzionali ad hoc), l’inibizione del potere giudiziario tramite l’architettura dei poteri d’emergenza.
In questo quadro, il parallelismo con la pandemia di Covid-19 è presto fatto. Per il filosofo Giorgio Agamben l’emergenza attuale permette un’applicazione «pervasiva e perversa» dello stato di eccezione; detto in altro modo, con la pandemia «si è raggiunta l’acme della metamorfosi dell’emergenza in eccezione». Non solo, la dimensione poietica, di cui si accennava, diventa il laboratorio sociologico eccezionalista. Lo stato di eccezione non è l’approssimativa degenerazione normativa del dispositivo emergenziale, bensì una tecnica governativa che adduce poteri normopoietici e di ingegneria sociale. Con Wittgenstein diremmo che fonda nuove forme di vita, plasmate da una «sperimentazione sociale» tout court.
Ma l’emergenza funziona? L’uso sovversivo dell’emergenza ha effetti sociali ad ampio spettro? Per Croce/Salvatore no: «lo stato di eccezione è uno strumento diagnostico pericolosamente autoimmune». La ragione è duplice: da un lato, la regola emergenziale non è un buon strumento di costruzione della normalità, dall’altro, «al riparo da derive eccezionaliste, le emergenze possono fornire il terreno per un confronto politico». La ricognizione del pensiero Schmittiano – dapprima fermo esponente dell’eccezionalismo e poi critico severo – è funzionale a questa impostazione. Se la prima edizione di Teologia Politica (1922) conserva la famosa e controversa asserzione «chi decide sullo stato di eccezione è sovrano[8]», l’introduzione all’edizione del ’33 conferma la svolta istituzionalista che caratterizza il successivo I tre tipi di scienza giuridica (1934). Insomma: dal sovrano come «grammatico sociale», che sospende un ordine e risponde all’esigenza organizzativa del disordine nichilista, Schmitt comprende che lo stato di eccezione – inteso come evento generatore di un ordinamento giuridico – non può essere fautore di una nuova normalità; per il giurista tedesco la dinamo dell’ipotesi istituzionalista è la decisione – che è sempre normoconservativa. Il punto d’arrivo della parabola schmittiana è lontanissimo da quello di partenza: «una democrazia meramente procedurale è un lusso che, in tempi di crisi, non possiamo permetterci».
Lo sguardo del saggio sulla contemporaneità è puntualissimo: è la corruzione della forma emergenziale a determinare lo stato di eccezione; per Croce e Salvatore l’emergenza non è per forza reagente della formula eccezionalista: «una data emergenza, per quanto grave, non può mai di per sé determinare uno stato di eccezione», in quanto «il ricorso alla legislazione emergenziale non corrisponde al rito opaco che segna la degenerazione delle democrazie liberali in autoritarismi». L’esempio è quello della pandemia in corso: «un conto è se le misure di emergenza per il contenimento della pandemia verranno adottate per un tempo limitato, altro conto è se misure di distanziamento sociale e richieste di autorizzazione saranno confermate anche una volta cessata l’emergenza[9]».
Ca va sans dire, la natura contestuale è co-fondante del concetto di emergenza; ma la definizione di contesto è tra le più problematiche, dalla linguistica al diritto. Questo, credo, il nodo inestricato del saggio: se il contesto è conditio sine qua non affinché l’emergenza sia posta in essere, la corruzione del primo determina la natura inquinata dell’emergenza stessa; è quindi la definizione di “contesto di emergenza” a giocare un ruolo chiave nel gioco dell’emergenza. In una domanda: chi decide che l’emergenza è finita? Chi sceglie i parametri oggettivi che la determinano? Che intendiamo per “oggettivo”?
Certo, il monito “numerico” di Croce e Salvatore è condivisibile: «non esiste l’emergenza in quanto tale, al singolare, […] le emergenze sono sempre da declinarsi al plurale»; l’emergenza non può considerarsi l’humus infetto dell’ipostasi eccezionalista, non prevede «una sperimentazione sociale su larga scala, non è l’innesco di un apparato di cattura, non è il nodo scorsoio che tende la corda di un assoggettamento comunitario [10]; [deve essere sempre] esaminata nella sua specificità, con un’analisi delle diverse modalità di gestione». Ma così si torna da capo: l’«analisi delle diverse modalità di gestione» è in base al contesto che va delineandosi ed è delineato. Assurdo ravvisare che l’intero magma argomentativo attorno al tema emergenza/eccezione è provocatoriamente risolvibile (o irrisolvibile) con un atto lessematico. È l’aporia delle operazioni inevitabilmente ex post che tendono a confondere – per prassi – uso, strumento e struttura.
Davide Spinelli
[1] Lo stato di emergenza è normato dal codice della protezione civile (D.L. 1/2008), il comma 3 recita: «la durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi» (la proroga è reiterabile oltre i 24 mesi, se il decreto legge del Cdm è convertito dal parlamento, passaggio non necessario per la proroga entro i 24 mesi).
[2] Va sottolineato che per Schmitt lo stato di eccezione non equivale alla sospensione di parte rilevante delle garanzie costituzionali, e il suo fine non è quello di imporre una nuova normalità e di plasmare le categorie percettive e valutative di una popolazione.
[3] Da sempre, per filosofi e giuristi, una questione fondante della teoria dello stato.
[4] Cfr. Lazar C., Must Expectionalism Prove the Ruel? An Angle on Emergency Government in the History of Political Thought, in Politics & Society (34, pp. 245-275).
[5] Data che per Croce e Salvatore indica il casus belli della cosiddetta “guerra al terrore” e delle conseguenti azioni emergenziali preventive che hanno portato, in base alla tesi eccezionalista, alla creazione del due process exceptionalism.
[6] Gross O., What Emergency regime?, in Constellations (1, pp. 74-88).
[7] Per esempio, ricordano Croce e Salvatore, la creazione del Fondo Europeo di stabilità finanziaria (che esula dal quadro giuridico dell’UE).
[8] A ragione storica, Croce e Salcatore ricordano che l’analisi dell’eccezionalismo di Schmitt non può sottrarsi da quella del contesto di crisi determinato dalla grande guerra, con particolare riferimento alla vicende della neonata Repubblica di Weimar e la sua costituzione.
[9] Da questo punto di vista, è evidente la problematica che pone il rinnovo dello stato di emergenza oltre la sua scadenza “convenzionale”.
[10] Croce e Salvatore fanno riferimento al lavoro di Tom Ginsburg e Mila Versteeg, che prova la non correlazione tra l’emergenza di Covid-19 e la diffusione di sistemi autoritari: https://academic.oup.com/icon/advance-article/doi/10.1093/icon/moab059/6308959 .