I nostri lettori più attenti ricorderanno il nome di Alessandro Busi: il suo racconto Chi siamo noi? è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista L’Ircocervo. Siamo felici di ritrovare Busi sugli scaffali delle librerie con il suo romanzo d’esordio, Fino all’inizio, edito da pièdimosca edizioni. Ambientato in un presente ucronico e distopico in cui dopo l’11 settembre 2001 gli attentati sono diventati la normalità e ogni passante potrebbe essere pronto a farsi esplodere in qualsiasi momento, Fino all’inizio è la storia di Luca, un trentenne che come altri europei disperati decide di abbandonare l’Italia per cercare un futuro migliore negli Stati Uniti.
Prima di partire, Luca ha accuratamente distrutto tutte le relazioni della sua vita: con i suoi genitori, con la sua ex fidanzata Arianna, persino i rapporti di lavoro. L’ossessione per gli attentati è diventata un pensiero totalizzante e l’unica speranza possibile è costruire un nuovo inizio nel continente da raggiungere. Salire su un aereo, però, è diventato estremamente complicato e Luca è costretto a partire da clandestino, chiuso per nove ore in una cassa gettata nella stiva dell’aereo. Non è solo: nella cassa c’è anche Marta, una ragazza che condivide forzatamente il viaggio e le paure con lui. Spiazzante e divisivo, il romanzo è plasmato dalla narrazione di Luca, il cui punto di vista sul mondo ne determina fin dalle prime righe l’atmosfera. Ne abbiamo parlato direttamente con l’autore.
All’inizio del romanzo l’ossessione per gli attentati sembra una prerogativa di Luca: il lettore ha la sensazione di trovarsi di fronte a un narratore disturbato, solo dopo le prime pagine realizza che la sua paura è motivata da una situazione effettivamente emergenziale. Perché la scelta degli attentati come espediente narrativo?
È una scelta legata a quello che per me e la mia generazione ha rappresentato l’11 settembre. Nel 2001 avevo sedici anni ed è stato un anno pieno di scossoni. Per prima cosa il G8 di Genova: scoprivamo che era possibile essere ammazzati per essere scesi in piazza. Questa situazione era assurda per noi, figli del pensiero da “fine della storia” tipico degli anni Novanta: il Muro è caduto, la Guerra Fredda è finita, c’è il capitalismo e da ora in poi non ci saranno più scossoni. Invece non era vero e la caduta delle Torri Gemelle ha definitivamente segnato un prima e un dopo. Prendere un aereo non era più banale, viaggiare non era più facile. In questo senso gli attentati hanno fatto da spartiacque, e per un personaggio come Luca era inevitabile esserne ossessionato. Entra poi in gioco anche il mio interesse personale: mi incuriosisce molto il pensiero delle vite singole dentro questi grandi eventi. Ad esempio, c’è un corto di Sean Penn sull’11 settembre, è la storia di un uomo anziano a cui muore la moglie e dedica le sue attenzioni ad una piantina. Ad un certo punto la luce ricomincia a filtrare dalla finestra: l’uomo viveva in una casa ai piani bassi e le Torri Gemelle gli toglievano il sole. Ecco, questo tipo di narrazione è il mio riferimento.
Nel romanzo, gli attentati sembrano quasi un espediente narrativo per raccontare il protagonista: chi sceglie di farsi esplodere sta prendendo posizione e Luca, che si ritiene incapace di decidere da che parte stare, quasi invidia questa capacità di schierarsi. Questo atteggiamento sembrerebbe legato al rapporto con i suoi genitori, che lo hanno sempre spinto, anche con gesti estremi e incuranti per i suoi desideri, ad affermare sé stesso ed essere libero.
Luca prova terrore e invidia per gli attentatori. Il terrore è legato alle implicazioni, e se vogliamo leggerlo come una metafora del rapporto con i suoi genitori possiamo notare che lui conosce bene quelle implicazioni ideologiche così forti: da bambino lui si è sempre sentito in mano a delle prese di posizione che, dal punto di vista dei genitori di certo avevano anche una ragione affettiva, ma che per lui restano comunque difficili da comprendere se non come richieste di adeguatezza. Penso ad esempio ad un ricordo d’infanzia in cui Luca viene abbandonato alla stazione perché impari a tornare da solo a casa: lì possiamo sentire sia l’affetto dei genitori che lo spingono a crescere, ma anche il terrore del bambino che si trova solo in un posto che non conosce. C’è quindi una continua tensione tra fiducia e paura. Lo stesso vale per gli attentati: per Luca sono da un lato fonte di invidia per chi prende posizione in maniera così netta e ottusa, dall’altro uno strumento per provare a immaginare le altre persone. A partire dalle cronache degli attentati, infatti, lui inizia a fantasticare sui loro protagonisti, si chiede come potrebbero aver vissuto, come si sarebbe comportato al loro posto. È la sua porta per accedere a relazioni che, però, rimangono sempre immaginarie.
Infatti è molto interessante che l’empatia di Luca sia limitata ai protagonisti degli attentati e non si estenda mai alle persone reali della sua vita.
Perché le persone vere portano con sé delle richieste: Luca vuole evitare a tutti i costi di trovarsi in una situazione in cui deve soddisfare delle aspettative, perché questo porta con sé un vortice di dubbi e domande che non vuole affrontare. L’altro immaginato permette di stabilire i confini della relazione, mentre l’altro nel mondo reale cerca di metterlo di fronte alle sue responsabilità. È quello che succede con Arianna, la sua ex fidanzata: la ragazza rifiuta di assecondare la dinamica per cui Luca cerca in tutti i modi di farsi lasciare, gli dice che deve essere lui a prendere questa decisione.
Tutti gli altri personaggi sono poi filtrati attraverso lo sguardo di Luca: i suoi genitori sono descritti come delle macchiette, Arianna rimane sempre sullo sfondo, persino Marta, unica a comparire sulla scena insieme a lui, fatica a imporsi come una persona e resta un personaggio. Plasma un mondo narrativo in cui vale solo la sua verità.
È vero: tutto viene filtrato attraverso gli occhi di Luca. Questo ci dice molto sulla sua necessità di raccontare gli altri e di raccontarli nei termini che sceglie, ossia con una narrazione che lo pone nell’area semantica della vittima. Luca sa muoversi solo nella misura in cui è vittima e gli attentati gli danno la possibilità di rimanere in questa dimensione: è il mondo che sceglie per lui. Anche la relazione con Arianna si basa sul bisogno di Luca di avere un’altra persona che si assuma la responsabilità al posto suo: inizialmente Arianna ha una vocazione complementare alla sua e si crea un equilibrio che funziona, poi per lei cambia qualcosa e mette in discussione questa dinamica. A questo punto per Luca la relazione non è più possibile.
Questa caratteristica del protagonista è probabilmente legata al fatto che i suoi genitori lo crescono in un’ingiunzione paradossale: tu devi essere libero. La libertà tuttavia non può essere imposta, questa richiesta non può essere soddisfatta e, portata in una relazione di dipendenza come quella tra genitori e figli, genera il terrore di Luca. Nella prima scena, Luca bambino chiede ai suoi genitori di essere rassicurato dopo aver visto immagini di guerra in televisione, teme che anche suo padre dovrà andare a combattere. Lui gli risponde: «non ho intenzione di versare nemmeno una goccia del mio sangue per l’impero del capitale e del petrolio». Alla richiesta di vicinanza, replica con l’ideologia. Possiamo quindi capire la necessità di Luca di raccontarsi in questo modo.
Fino all’inizio è il tuo primo romanzo, ma sei autore di molti racconti pubblicati su riviste: oltre al Rifugio dell’Ircocervo, anche Grafemi, Tuffi, Tre Racconti, inutile, Altri Animali, Risme, Split, Clean, Fillide, I Libri degli Altri, Atomi, settepagine. Come sei passato dalla forma breve a una narrazione lunga?
In realtà questo romanzo nasce come un racconto. L’idea di fondo era la parte centrale, quella della scatola nella stiva dell’aereo: volevo raccontare di alcune persone chiuse dentro una cassa che stanno cercando di emigrare. La storia era molto diversa, c’erano più personaggi e alla fine uno è emerso rispetto agli altri e ha iniziato ad imporsi con una storia che mi premeva raccontare. Poi gli attentati si sono intromessi nella trama.
La prima stesura è stata molto rapida, ci ho messo solo un mese e mezzo a completarla, ma mancava la parte finale. Era l’estate 2017. Poi – questa è una peculiarità del mio modo di scrivere – ho lavorato su quest’opera per i quattro anni successivi. Rispetto alla scrittura dei racconti mi sono reso conto di essermi concesso più libertà, mentre nei racconti di solito c’è spazio per più sperimentazione. In un racconto riesco a vedere l’inizio e la fine, posso concedermi di fare esperimenti; il romanzo invece lo vedo a pezzi e quindi mi sono concentrato sulla coerenza stilistica, mi importava che la voce di Luca restasse credibile.
A proposito del finale: senza fare anticipazioni, possiamo affermare che si tratta di un momento di crescita per il personaggio, finalmente costretto a fare una scelta, e di un colpo di scena divisivo. Come sei arrivato a questo epilogo e come è stato recepito?
Non me lo aspettavo, ma il finale sta spaccando molto i lettori. Per me il capitolo più difficile da scrivere è stato il penultimo, mi sentivo dentro l’indecisione di Luca e ho fatto la scelta più coerente con il personaggio di Luca. Volevo che ci fosse un cambiamento nel protagonista, ma non credo nella profondità dei cambiamenti drastici, da bianco a nero: spesso sono i più superficiali, quelli che avvengono perché ci spaventa troppo il bianco e quindi ci buttiamo sul nero. Luca, in realtà, fa continuamente delle scelte, anche quando sembra che non stia scegliendo, e inserisce tutte queste scelte in una narrazione in cui sente di dover restare immobile, di non poter agire. Nel finale Luca doveva quindi fare una scelta che poteva sentire come propria, ma sempre mantenendo questa dimensione tipica del personaggio.
A cura di Loreta Minutilli
In copertina foto di Thomas Svensson da Pexels
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