Nella steppa kazaka con l’uomo bambino

La fiaba nucleare dell’uomo bambino, Hamid Ismailov
(Utopia Editore, 2021 – Trad. Nadia Cicognini)

La narrazione dell’adolescenza, in letteratura così come nel sentire comune, è inderogabilmente una storia di veloci e spaventose trasformazioni fisiche, di desideri e turbamenti nuovi, di corpi che germogliano con esuberanza e scatenano confusione. Cosa accade, invece, a un corpo che resta cristallizzato proprio alle soglie della pubertà, bloccato in uno sviluppo precoce ma acerbo? 

L’autore uzbeko Hamid Ismailov parte da questa domanda per scrivere La fiaba nucleare dell’uomo bambino, il primo tra i suoi libri a essere tradotto in italiano. 

Il romanzo racconta la storia di Eržan, un bambino che cresce nella steppa kazaka negli anni della Guerra Fredda, in una piccola stazione di transito lungo la linea ferroviaria. Nella prima infanzia tutto il suo mondo consiste di due famiglie, la sua e quella dei vicini, che formano una piccola comunità autosufficiente e isolata dal resto del consorzio umano. Al centro dei suoi affetti c’è la piccola Ajsulu, compagna di giochi e di avventure, già prescelta come futura sposa.

La steppa è un luogo arcaico, rarefatto, un enorme spazio vuoto su cui qualcuno ha sparso una manciata di forme di vita. Un universo che sembra essersi conservato in una bolla attraverso i secoli, in cui le nonne raccontano ai bambini antiche saghe di eroi e demoni e i capelli si lavano col latte acido. Pur evidenziando la bellezza spoglia della natura e l’unità di due nuclei familiari, l’autore non dà una rappresentazione idealizzata di questo mondo, che conosce anche la violenza, l’alcolismo, le durezze della vita – né, a ben vedere, è del tutto impermeabile alla modernità.

Il mondo esterno, infatti, penetra nella vita di Eržan attraverso due strade molto diverse. Una è la musica: la dialettica tra modernità e tradizione si gioca nel contrasto tra i canti dei bardi e il rock di Dean Reed, l’Elvis rosso. Se il nonno si ingelosisce nel vederlo abbandonare la dombra[1] per il violino, in realtà Eržan viene profondamente segnato da entrambe queste culture. La musica occidentale (sia quella classica che il rock) gli fa intravedere un mondo diverso ed eccitante, e il suo straordinario talento di violinista lo rende presto ammiratissimo in famiglia e a scuola. I canti tradizionali, d’altra parte, lo suggestionano con l’inesorabilità cadenzata del destino; e nelle saghe epiche cerca parallelismi con la sua vita, nella speranza di dare un senso a quello che gli accade.  

L’altro squarcio di modernità nella vita di Eržan è molto più inquietante della musica: poco lontano dalla stazione sorge un poligono nucleare, dove continuamente brillano ordigni nel tentativo di raggiungere l’America e superarla – così ripete ossessivamente Šaken, il padre di Ajsulu, che lì lavora e che sembra leggere ogni evento attraverso le lenti della Guerra Fredda. Un giorno, durante una gita scolastica alla centrale, Eržan si tuffa in un lago radioattivo formatosi in seguito a un’esplosione, che lo turba e lo affascina al tempo stesso. Il fatto centrale della sua vita viene raccontato in poche righe e quasi con noncuranza, e in effetti le sue conseguenze non sono immediatamente evidenti. Solo col passare del tempo, via via che i suoi coetanei, uno dopo l’altro, lo superano in altezza e in forza fisica, Eržan si rende conto che l’acqua radioattiva l’ha intrappolato per sempre in un corpo di bambino. In molte culture l’immersione nell’acqua è legata alla purificazione e alla rinascita; per Eržan, al contrario, questo evento segna una contaminazione incancellabile.

Paradossalmente proprio il cristallizzarsi di questo involucro infantile segna, dal punto di vista emotivo, la fine dell’infanzia di Eržan. All’improvviso si sgretola il mondo felice in cui si era crogiolato: l’ammirazione dei compagni per la sua precoce maturità e responsabilità, le grandi speranze per il suo futuro di violinista, il rapporto di simbiosi con Ajsulu. A tutto questo subentra una rabbia sorda: Eržan soffre per l’asimmetria tra i suoi tempi e quelli degli altri, ma soprattutto per il disallineamento interno a lui, lo squilibrio doloroso tra una mente che cresce e un corpo congelato nell’infanzia.

Questo è ciò che Eržan, ormai ventisettenne, racconta al narratore del romanzo, un viaggiatore incontrato in treno. Nella scelta del punto di vista sulla vicenda, dunque, Ismailov usa una cornice apparentemente tradizionale, ma declinata in modo originale e suggestivo. Il narratore non racconta assolutamente nulla di sé e all’inizio sembra avere l’unica funzione di raccogliere la storia di Eržan e riportarla al lettore, quasi scomparendo dentro di essa. Nella terza parte del romanzo, però, Eržan si mette a dormire, ed è quindi il viaggiatore, suggestionato, a immaginare lo sviluppo della sua storia, in una fantasticheria che quasi sconfina nell’incubo, anche se il tono e lo stile della narrazione restano immutati. Quest’ultima parte, forse, ci parla del narratore più di quanto ci parli di Eržan, e ci spinge a chiederci chi sia davvero quest’uomo che racconta: la sua voce si rivela meno anonima e trasparente di quanto sembrasse all’inizio.

Il linguaggio di Ismailov è piano, privo di virtuosismi, ma al tempo stesso ricco e poetico. Questa semplicità avvicina il testo alla fiaba, anche se il mondo raccontato è a tratti crudo e doloroso. Grazie a queste scelte stilistiche, anche gli aspetti politici e civili del romanzo si sublimano in un canto di bardi e vanno oltre la contingenza storica, pur senza perdere urgenza e mordente: il lago radioattivo è intriso di una bellezza magica e irresistibile; le esplosioni nucleari, che turbano l’equilibrio atavico della steppa, sembrano avere la forza distruttrice di una divinità maligna.

Se la parola fiaba compare nel titolo italiano dell’opera, l’originale russo suona come Eržan il bambino prodigio. Una scelta apparentemente didascalica, che però condensa tutta l’amara ironia della storia: Eržan è un bambino prodigio per la sua abilità col violino, ma è anche un prodigio, inteso come freak, a causa della maledizione del suo corpo. Da qui il chiaro parallelismo con Mozart, altro uomo bambino, che entra dentro al romanzo in un modo assolutamente insolito: da personaggio storico non solo diventa personaggio di fiaba, ma si fonde con una mitologia che non gli appartenne, quella slava.

La fiaba nucleare dell’uomo bambino è un’opera straordinaria: fonde la fiaba con la Storia e ci guida in un mondo che non somiglia a nessun altro. Rovescia simbologie ancestrali (come quella legata all’acqua) e generi di lunghissima e consolidata tradizione (come il romanzo di formazione), producendo un senso di alterità che ci parla e ci tocca per vie oblique.

Benedetta Galli

1 La dombra è un strumento musicale della famiglia dei liuti, tipico della tradizione kazaka.

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