Corpi celesti: l’Oman tra modernità e tradizione

Corpi celesti, Jokha Alharthi
(Bompiani, 2022-Trad. G. Longhi)

Copertina di Corpi celesti

Corpi celesti è l’ultimo romanzo di Jokha Alharthi, docente di letteratura araba presso la Sultan Qaboos University, non lontano dalla capitale omanita, Mascate. Oltre a essere una particolare saga familiare che copre l’arco di quattro generazioni, è stato anche il primo libro in lingua araba ad aver vinto, nel 2019, il Man Booker International Prize.

Il racconto gravita intorno alle vite di tre sorelle, Mayya, Asma’ e Khawla, e a quelle delle persone, principalmente donne, della loro famiglia. Per famiglia si intendono anche gli schiavi che hanno vissuto per generazioni nelle stesse case di calce insieme agli omaniti liberi. Dunque è una saga familiare che non si limita alla narrazione di un nucleo di persone, dei suoi segreti e dei non detti, per altro pesantissimi, ma che parla di libertà, di schiavitù e delle diverse possibilità di amare, costruendo un dialogo tra generazioni, tra modernità e tradizione.

La storia di Mayya, che sposa ‘Abdallah pur non essendone innamorata e che da lui avrà tre figli, London, Salim e Muhammad, si inserisce in un intreccio dall’ampio respiro, che comprende Asma’, appassionata di letteratura e decisa a ribaltare le credenze bigotte della moglie del muezzin attraverso la lettura del Corano stesso, e Khawla, la più bella delle tre, che sposerà Nasir dopo aver tanto atteso il suo ritorno dal Canada, decidendo di chiudere gli occhi di fronte all’evidenza della sua doppia vita. Ma comprende anche Zarifa, schiava e concubina del mercante Sulayman, padre dispotico di ‘Abdallah che, rimasto vedovo in circostanze misteriose, tiranneggia sul figlio fin da bambino.‘Issa l’Emigrato, costretto ad andare a vivere al Cairo con la sua famiglia per essere stato dalla parte sbagliata della storia, ossessionato dalla grandezza dei suoi avi. ‘Azzan Ibn Mayya, padre di Mayya, Asma’ e Khawla, che perde la testa per Najiya, chiamata anche Qamar, Luna, un’affascinante beduina libera di vivere l’amore senza regole.

Ogni capitolo è dedicato ad uno di loro. Insieme a Khalid, il marito di Asma’, ‘Abdallah è l’unico a raccontarsi in prima persona, durante un volo aereo verso Francoforte che attraversa tutto il romanzo. Per questo, e dato che Khalid compare ben oltre la metà del libro, dà l’impressione di essere la voce narrante dell’intero romanzo, la memoria di famiglia che non dimentica ma accumula dentro di sé i gesti e le parole di chi vive intorno a lui.

Nell’alternarsi di voci torna frequentemente il dibattito su un concetto che sembra avere origine dalla riflessione aristofanea sull’amore nel Simposio di Platone, quella secondo cui due persone che si amano sono le due parti di un unico tutto. Sebbene la riflessione abbia origine dalla lettura di Asma’ del Libro del fiore, è proprio lei ad accorgersi, poco dopo il matrimonio, che:

Le persone non sono entità incomplete in cerca della loro metà mancante. Che né i corpi né le anime sono divisi in due. […] [Che] Khalid era un corpo celeste completo in sé e per sé.

Per questo rivolge presto attenzione e amore ai figli avuti dal marito, che arriveranno ad essere quattordici. Khawla, invece, rimane legata a questo presunto ideale più a lungo, anche quando nessuno oltre a lei riuscirà a comprendere la sua scelta di rimanere con Nasir. Oltre a questi, vengono presentati altri modi di amare. C’è l’amore di Zarifa per il suo padrone, Sulayman, incondizionato e devoto fino alla fine, pronto a nascondere il terribile segreto che avvolge la morte della moglie legittima di lui. C’è quello appassionato e libero da qualsiasi tipo di vincolo di Qamar per ‘Azzan, che si nutre di poesia e di notti passate tra le dune nelle abitazioni ormai semi-stabili dei beduini. C’è quello che ‘Abdallah, dopo aver inutilmente tentato di essere ricambiato dalla moglie, rivolge alla figlia, London, medico che ha rischiato di farsi annullare da un uomo violento, in nome dell’amore.

Se l’Oman, come dice l’autrice in un’intervista per il Corriere della Sera, deve la sua unicità all’essere, insieme al Bahrein, l’unico Paese del Golfo che esiste da migliaia di anni, conta, però, un altro triste primato: è stato l’ultimo Paese al mondo ad abolire legalmente la schiavitù, solo nel 1970. Corpi celesti fa i conti con il passato schiavista dell’Oman dando voce a donne e uomini che, deportati dalla loro terra, sono stati al servizio di un’unica famiglia per generazioni. Senghor, il bisnonno di Zarifa, venne catturato dai pirati nei pressi del suo villaggio kenyota per essere venduto ad uno shaykh di ‘Awafi dopo un viaggio in mare. Erano gli anni Sessanta del 1800 e la schiavitù era stata legalmente abolita una ventina d’anni prima da un trattato firmato bilateralmente dal sayyid Sa’id idn Sultan e dal Regno Unito.

Zarifa e sua madre ‘Ankabuta condividono il destino di essere date in moglie, per nulla consenzienti, a uno schiavo per volere dei loro padroni. Le due donne contano e hanno contato soltanto nel deserto fuori ‘Awafi, oltre i confini delle piantagioni, dove ‘Ankabuta veniva chiamata “Gran Mama” e ogni mese presiedeva ai rituali zar dei beduini, con un’energia e un ruolo che nessuno, ad ‘Awafi, avrebbe mai potuto immaginare per lei. I beduini, gente che da tempo vive nel deserto che si estende fino alle città, fianco a fianco con gli abitanti delle stesse, rappresentano la controparte senza vincoli della popolazione omanita, e godono di una libertà che non viene meno soltanto perché ormai anche loro vivono in case di muratura.

Il tentativo di instaurare un dialogo tra le generazioni di un Paese che, prima di dovere la sua ricchezza al petrolio, l’ha dovuta alla tratta di esseri umani è praticamente impossibile. I giovani vogliono partire e dimenticare, Zarifa si infuria quando suo figlio Sanjar le dice che se gli fosse nato un maschio l’avrebbe chiamato ‘Abdallah, come il figlio di quello che era stato il loro padrone. Lei lo considerato un disonore verso il loro padrone di un tempo, mentre lui, che si sente ormai un uomo libero, lo vede come una provocazione. Anche per la moglie di Sanjar è troppo continuare ad avere davanti agli occhi la gobba di sua madre, simbolo dell’oppressione del mercante Sulayman su di loro, causata dai troppi pesi portati alla casa del mercante.

Per la descrizione del passato schiavista dell’Oman, Jokha Alharthi è stata accusata da molti omaniti di non rappresentarli [1]. Sicuramente l’autrice non si risparmia sulla descrizione dei lati più oscuri della storia omanita, specialmente quando si tratta di raccontare la tratta degli schiavi. Anche in Corpi celesti le nuove generazioni tendono ad abbandonare ‘Awafi, la cittadina dove vivono le loro famiglie d’origine, preferendole la più moderna Mascate e dimenticando ciò che furono e ciò che fecero i loro avi. Sono quelli della generazione di Zarifa che continuano a non individuare alternative allo stile di vita ereditato dallo stato dei propri genitori, che sono liberi solo durante i rituali tra i beduini.

La stessa frattura tra generazioni è evidente anche tra ‘Abdallah e suo padre, il mercante Sulayman. Entrambi ereditano il mestiere paterno ma, se ‘Abdallah diventa un uomo d’affari, il profitto di Sulayman non deriva certo dal commercio delle armi, come quello di suo padre prima di lui, e nemmeno da un rinato interesse per i datteri, bensì proprio dalla tratta degli schiavi. Non solo, il mercante Sulayman dispone delle vite degli schiavi e di suo figlio, esercitando potere su tutti loro con la fredda aggressività di chi pensa di essere padrone indiscusso – convinzione supportata dalla legge, almeno fino al 1970. ‘Abdallah differisce da suo padre anche nel modello di uomo che incarna, modello che, sebbene dalle vecchie generazioni sia considerato quello di una persona debole che lascia alla moglie le scelte familiari, in realtà è consapevole, nella sua dolcezza, del cambiamento in atto. È lui che supporta la scelta della figlia di avere una carriera e, quindi, un ruolo sociale che prima alle donne era precluso.

La lingua, colloquiale e molto scorrevole, costruisce flussi di pensiero continui che, forse, avrebbero potuto essere maggiormente differenziati a seconda dei personaggi, date le differenze di genere e di status sociale. Nell’edizione italiana, i termini lasciati in arabo sono minimi e non viene riportata in nota la traduzione, perché facilmente comprensibili anche da chi non ha una conoscenza della cultura e della società araba. Alharthi, dal suo punto di vista di omanita che ha compiuto parte del percorso di studi in Europa, a Edimburgo, fa il possibile per condurre il lettore, anche occidentale, nella conoscenza delle tradizioni del suo Paese natio, facendo uso di termini fortemente evocativi e connotanti di un Paese in mutamento e descrivendo i rituali che marcano gli eventi della vita.

Verso la fine del romanzo il racconto si fa più veloce e incalzante, lasciando l’impressione che Alharthi abbia voluto chiudere in fretta una storia che, fino ad allora, aveva avuto un ritmo ben orchestrato, lasciando poco spazio a personaggi che ne avrebbero meritato di più e dando al lettore la sensazione di non sapere abbastanza. Nonostante ciò, il quadro che ne esce, anche per chi, da lettore occidentale, poco sa dell’Oman, è quello dato da uno sguardo attento e consapevole della propria terra: lo sguardo di un’autrice che tiene a costruire una storia che sia plausibile e che mostri in modo accurato la congiuntura di un tempo dai contorni nuovi, ma che affonda le radici in un passato buio, aprendosi, al tempo stesso, verso ambienti, profumi e stili di vita per noi esotici e, per questo, affascinanti.

Eleonora Mander


[1] Il riferimento è alla già citata intervista a Jokha Alharthi a cura di Viviana Mazza per il Corriere della Sera

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