Tutto finisce con me, Gabriele Esposito
(Wojtek, 2022)
Fra tutti i tropi utilizzati dalla narrativa ce n’è uno particolarmente delicato: il last man on earth, di cui Io sono leggenda (tanto il romanzo, quanto le trasposizioni cinematografiche) è probabilmente l’esempio più celebre. Disponendo di un solo vero personaggio, c’è sempre il rischio di realizzare una storia noiosa. Se si considera, poi, quante storie di questo genere siano già state scritte, a quello della noia si aggiunge il rischio della banalità e del cliché.
Leggendo le prime pagine di Tutto finisce con me, romanzo d’esordio di Gabriele Esposito, edito da Wojtek, si ha l’impressione, forse anche a causa del titolo, di essere incappati nell’ennesima storia di questo tipo. L’aria che si respira, però, non è tanto apocalittica, quanto surreale. L’assenza di chiunque, ad eccezione dell’anonimo protagonista, è improvvisa. Fino alla sera prima ognuno era al proprio posto.
La reazione del protagonista è perturbante. Sin dal momento in cui si sveglia nella sua camera d’albergo, si ritrova a vivere una serie di contraddizioni emotive: è confuso, ma curioso, allarmato ma risoluto. Razionalizza quello che gli sta capitando, cerca spiegazioni plausibili. L’assurdità del momento deve smentirgliene diverse prima di potersi imporre alla sua coscienza, prima di fargli finalmente ammettere di essere rimasto da solo.
Così, accetta il suo destino. Salta la fase della disperazione, per approdare direttamente a quella della libertà assoluta. Fa pipì nella sala di un ristorante stellato e ruba un Monet, per poi concludere la giornata nella stanza di un altro albergo, più lussuoso.
Già in questo primo capitolo l’autore dimostra una grande originalità stilistica, che sembra reggere il peso della pericolosa ambientazione. L’io narrante non perde occasione per mostrare al lettore i suoi tratti ossessivi. È preciso nel descrivere i dettagli: dalle distanze che deve percorrere (misurate in metri), alla velocità del suo passo (in chilometri orari).
Nella prima pagina compaiono anche due elementi che saranno ricorrenti. Da una parte ci sono i puntali riferimenti a opere di musica classica; dall’altra i paper delle riviste accademiche sugli argomenti più disparati: da un articolo su come raccontare le barzellette, apparso sulla rivista Humor, a uno sul rapporto fra sudorazione delle mani e depressione della rivista Percetual and Motor Skills. Le riviste in questione, anche quelle apparentemente più assurde, esistono tutte.
Per il lettore, il primo capitolo si conclude con alcune domande sul proseguo: potranno una scrittura misurata e delle trovate sceniche divertenti reggere il peso di un mondo senza più nessuno? Sarà un romanzo psicologico e introspettivo sulla solitudine?
È proprio a questo punto, all’inizio del secondo capitolo, che l’autore fa rispuntare tutti quanti, mettendo il protagonista di fronte alle conseguenze delle proprie scorribande solitarie (la stanza d’hotel di cui si è appropriato, per esempio, era già occupata da qualcuno).
Ciò che ha vissuto il protagonista sembra essere del tutto vero. A risvegliarsi da un sogno è più che altro il lettore, che da adesso comincia a fare la conoscenza dell’ambientazione del romanzo, che consiste in un frenetico ingranaggio aziendale, all’interno del quale il protagonista sembra trovarsi a suo agio, se si escludono i tic, le manie e la discutibile caratura morale che gli scorrono dentro. È un ambiente fatto di agguerrite competizioni per il ruolo di team leader, condite da una dose massiccia di ipocrisia; è fatto di opportunismi e tradimenti, dei ritmi serrati e alienanti del capitalismo che conosciamo bene.
Il protagonista riprende a rivivere normalmente tutti i suoi rapporti: quello con Giova, soprattutto, collega e amico di sempre con cui è professionalmente in competizione, ma anche quello con la moglie Veronica e con sua madre. Presto scopre che mentre viveva quella peculiare esperienza di solitudine ha continuato, non si sa come, a vivere la sua vita di sempre, a competere e a ottenere successi. Di tanto in tanto, all’improvviso, si ritroverà di nuovo in quella assurda condizione solitaria, in un altro mondo in cui a parte lui non c’è nessuno (o quasi).
Tutto finisce con me è un romanzo di frontiera. Gioca sul confine fra interno ed esterno dell’io, fra la solitudine introspettiva e l’agonismo sociale. Quando è da solo la figura del personaggio principale si fa più eterea, riflessiva, incline a un certo atteggiamento esplorativo e contemplativo. Con gli altri invece è concreto e pragmatico, orientato all’obiettivo. Da un certo punto in poi, mentre è nella condizione di “normalità”, attenderà l’assenza di tutti, per mettere in pratica i suoi piani, sfruttare quella condizione di assurdità per ottenere qualcosa di utile nella sua vita normale. Ma poi finirà spesso per abbandonarsi all’inutile, all’edonismo e al bizzarro.
Ci sono altri due temi che percorrono tutta la storia, il primo dei quali è il corpo, anch’esso concepito in maniera ossessiva. Infatti, da una parte è declinato in termini di continuo miglioramento (abbondano i riferimenti a varie tipologie di esercizio fisico, sempre intese come allegoria di un ruolo di potere o di uno status), dall’altra è connesso al sesso e al suo ruolo sociale. Il secondo tema è la tecnologia, unico ponte fra i due mondi, anch’essa rilevante per il ruolo sociale che possiede. Sono molteplici i riferimenti ai social network, al controllo maniacale dei profili altrui: soltanto attraverso i video che realizza e pubblica il protagonista tiene traccia di ciò che fa quando non c’è nessuno.
Fra le righe, ma neanche troppo, Tutto finisce con me è anche un romanzo politico. Il mondo che descrive è intriso della logica produttivistica che caratterizza il nostro presente. Il titolo non è un riferimento a una trama apocalittica o solipsistica, ma all’individualismo imperante del nostro tempo.
Il protagonista è l’alter ego di un’umanità che brama un futuro paradisiaco, escatologico, che sia la rivoluzione o il regno dei cieli. Ma come gli dice Veronica: «Sei stressato, devi restare di più nel presente. Il futuro che vuoi non arriva mai: lo aspetti giorno dopo giorno e così facendo ti dimentichi di vivere.» (p. 115).
Il mondo senza più nessuno, invece, è l’allegoria di uno spazio possibile, che però è anche uno spazio ambiguo: da una parte può essere lo spazio del tempo autentico, di una solitudine pacifica che si riappropria del presente; dall’altra rischia di essere l’assurdo, l’ultima frontiera dell’individualismo solipsistico in cui «percepisco il fatto di essere solo al mondo, solo fino all’ultimo dei miei giorni, qui, nessuno a ricordare le cose che ricordo io, nemmeno parzialmente, non c’è prole, ed è meglio così. Tutto finisce con me.» (p. 128)
Tanto il protagonista quanto tutti noi siamo chiamati a scegliere fra le due alternative. Ma forse, purtroppo, abbiamo già scelto.
Giuseppe Vignanello
Immagine in evidenza: Foto di Vojtech Okenka da Pexels: https://www.pexels.com/it-it/foto/sagoma-di-uomo-in-piedi-sul-corridoio-399772/