L’archeologia dell’amore. Dal Neanderthal al Taj Mahal, Cătălin Pavel
(Neo Edizioni, 2022 – trad. B. Mazzoni)
Prima dei boombox a palla sotto le finestre, prima degli appuntamenti galanti, delle rose e delle liriche stilnovistiche, le tracce dell’espressione dell’amore che ci rimangono sono soprattutto visive. E sono dure: vasi, affreschi, incisioni, bassorilievi, ma anche mausolei, palazzi e templi. Non bisogna pensare subito però a un amore degno di Matusalemme, solo perché le testimonianze che lo recano sono vecchie giusto di qualche millennio. Bisogna sforzarsi di scorgere la vita ancora insita negli oggetti archeologici, per permettere loro di raccontare davvero una storia.
L’intento di Pavel è chiaro fin da subito: mettere assieme «un piccolo catalogo archeologico che documenti l’amore di coppia». Il risultato è un saggio ricco, ma brillante e piacevolissimo, che passando per implicazioni molto diverse fra loro (iconografiche, storicistiche, artistiche, ma anche psicologiche e mitologiche) ripercorre le molte rappresentazioni dell’amore attraverso la storia.
Un primo merito dell’Archeologia dell’amore è senz’altro quello di permettere al grande pubblico di godere di racconti e particolari che difficilmente sono messi a disposizione, al di fuori della cerchia degli studiosi. E senza che per questo la scrittura risulti meno piacevole: Pavel, infatti, mescola sapientemente informazioni storiografiche e aneddoti curiosi, inframmezzando la mistura con agili stoccate ironiche, che allontanano il saggio da qualsiasi impressione paludata e accademica. Genuinamente divertente, ad esempio, è la sezione che riguarda i sortilegi d’amore dell’antico Egitto di cui sono stati ritrovati i testi; o la descrizione della forma fallica di certe costruzioni volute da Augusto e Cesare, e la loro posizione, che secondo i pettegolezzi romani del tempo potrebbe o non potrebbe rassomigliare un certo atto fisico fra i due…
Vi sono alcune parti più tecniche, in cui l’autore utilizza un linguaggio specialistico – faccio riferimento, ad esempio, ai capitoli dedicati al passaggio di testimone tra l’uomo di Neanderthal e l’homo sapiens. Nulla, però, è fine a se stesso: anche le nozioni che a prima vista appaiono più strettamente scientifiche sono necessarie alla comprensione del discorso di lungo respiro che Pavel si propone di distendere.
Le due identità di Pavel, archeologo e scrittore, s’intrecciano dunque in maniera davvero armonica: è evidente che la qualità narrativa è abbastanza forte da sostenere il discorso storico. E in effetti è l’autore stesso a scrivere che:
Tutte le scoperte archeologiche, che siano affreschi, scheletri o monili del tipo saltaleoni, richiedono una narrazione che le faccia vivere. Troppe volte questa narrazione è una monografia solida e specialistica, con un disegno sobrio e originale sulla copertina. Perché gli oggetti trovati nello scavo rivivano, è necessario far partire il motore dell’empatia e trasporre in parole ciò che è successo qui, giusto nel punto in cui siamo in questo istante […] ma con una fuga all’indietro, diciamo pure esattamente a cinquemila anni fa.
Per parlare della “vita delle cose morte”, insomma, serve una certa qualità narrativa. E condirla con un po’ di sana ironia non fa certo male.
Si perdona facilmente allora a Pavel di definire Paride di Troia come “un marpione carino” con cui Elena fugge, perché il tema dell’amore non viene penalizzato dall’occasionale concessione all’umorismo. Estremamente umani ci fa sentire, dunque, l’attenzione con cui Pavel descrive la costruzione del Taj Mahal da parte dell’imperatore moghul Shah Jahan per la defunta compagna Momruz: siamo trascurabili, è vero, ma nel momento in cui scegliamo di immortalare negli oggetti il più antico dei nostri sentimenti, forse non lo siamo poi del tutto.
In effetti, parlare di archeologia dell’amore non pone limiti così restrittivi al campo d’indagine: l’archeologo sublima le tracce del sentimento dalla pittura, dall’architettura, dall’urbanistica, ma anche dalla morte e dai rituali funerari. È una vera manna dal cielo per i curiosi cronici: perché alcune vestigia preistoriche sono state ritrovate circondate da fiori e offerte, e altre no? Come mai alcune tombe recavano dei corpi intrecciati e abbracciati, che non possono esser state semplicemente frutto della pressione del terreno su una qualunque fossa comune? E perché gli studiosi si ostinano a paragonare ogni coppia di cadaveri fossilizzati a Romeo e Giulietta?
Non è allora solo il concetto di amore a diventare fluttuante e dubbio, ma anche quello di uomo preistorico: antico, sì, ma non per forza rozzo e primitivo. Come ricorda Pavel, il semplice gesto di seppellire i propri morti sottende una coscienza di sé e della sostanziale finitezza tali da poter parlare di un essere umano.
Nella trattazione di Pavel non manca poi anche la prospettiva di tipo sociale e antropologico. Estremamente interessante, in questo senso, è l’excursus che riguarda Adamo ed Eva, le cui rappresentazioni artistiche sono ben lontane dall’aura di peccato di cui la mitologia religiosa li ha circondati. Pavel arriva addirittura a definirli possibili patroni della “goffaggine sessuale”: spesso raffigurati in una totale mancanza di dialogo e complicità, come due adolescenti che ancora non hanno imparato a toccarsi. Questo ci spinge a porci delle domande su come l’amore veniva inteso agli albori della civiltà in cui viviamo, a quale paradigma della prima coppia sia stato scelto, dalla cultura occidentale cattolica, come futuro termine di paragone per tutti i futuri amori.
O ancora: Achille e Patroclo, e Odisseo e Circe (personaggi ulteriormente significativi se pensiamo al recente successo dei romanzi di Madeline Miller), le cui identità sono ben diverse a seconda che si guardi al mito o alla sua raffigurazione artistica. Poche descrizioni sapienti di Pavel sono sufficienti per evocare il grado di tenerezza dell’Achille che, su una coppa Sosias, fascia la ferita di Patroclo; o ci si trova di fronte a risvolti sorprendentemente femministi quando Pavel fa riferimento, con consapevolezza e lucidità, alla condizione sociale che si può dedurre da certe scritte sui muri di Pompei.
Se lo scopo dichiarato di Pavel, dunque, era ridare vita agli oggetti che siamo abituati a vedere solo in fotografia, o coperti da un velo di polvere dietro le teche di un museo, è fuor di dubbio che abbia avuto successo. In un periodo di ipertrofia della narrativa come è quello che viviamo, può essere riposante guardare alla dolce tranquillità mitica degli affreschi e delle incisioni, che necessitano solo di un po’ di quiete – e, ovviamente, del giusto narratore – per essere capite e apprezzate come meritano.
Emma Cori
Immagine di copertina: https://pixabay.com/photos/ostia-antica-love-rome-domus-2660869/