Le affatturate, AA. VV.
(Rina Edizioni, 2022)
Negli ultimi mesi sul Rifugio dell’Ircocervo ci siamo occupati spesso di letteratura di recupero e, in particolare, dell’attenzione per la riscoperta delle voci delle donne, un fenomeno che sta diventando sempre più imponente nel panorama editoriale e che porta con sé un bagaglio di questioni complesse. Perché dovrebbe aver acquistato valore oggi quella che per decenni è stata dismessa come letteratura rosa? Quale affinità ci può essere tra il tentativo femminile di affermare la propria indipendenza nel secolo scorso e il femminismo della quarta ondata? È una forzatura attingere al passato per comprendere meglio il presente?
Rina Edizioni, la casa editrice romana che si occupa di riportare in libreria le scrittrici del passato, ha creato una preziosa occasione per analizzare la questione con la pubblicazione de Le affatturate, antologia di racconti scritti da ventidue scrittrici italiane attive tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Accanto a pochi nomi noti – l’unico riconoscibile dal lettore medio è quello di Grazia Deledda; i lettori forti individueranno Ada Negri, Amalia Guglielminetti, Carolina Invernizio, Paola Drigo, Annie Vivanti e poche altre – spiccano autrici che è impossibile conoscere se non si frequenta abitualmente il polveroso mondo delle bancarelle dell’usato e delle riviste antiche, la cui produzione letteraria è ora interamente fuori catalogo.
Le affatturate del titolo sono donne dominate dalla passione, ammaliate e stregate dal sentimento amoroso che la tradizione ha individuato come primo motore immobile della vita femminile. Con un gesto quasi provocatorio, in linea con le coraggiose scelte editoriali di Rina, la raccolta non si propone di negare questo stereotipo e ne fa invece un manifesto. È vero: le protagoniste di questi racconti spesso sono dominate da emozioni incontrollabili e incontrastabili; ondeggiano tra una confusa consapevolezza del proprio diritto di emanciparsi e l’abbandono ad un ruolo sociale da cui sembra impossibile sottrarsi. Ma proprio nella tensione tra consapevolezza e rassegnazione sta il valore di questa operazione di recupero.
La scelta di raccogliere insieme così tante voci bandisce ogni tentazione di semplificare e banalizzare il problema del ruolo della donna nella società italiana dell’Ottocento: così come le autrici hanno avuto vite e hanno sostenuto idee diversissime tra loro, allo stesso modo questi racconti propongono modelli femminili variegati e complessi. Accanto alle giovani folli d’amore e costrette in un modo o nell’altro a disilludersi, come La moglie ingenua di Anita De Donato e le protagoniste de Il dubbio di Amalia Guglielminetti e La commedia dell’amore di Bruno Speraz,incontriamo infatti donne ben consapevoli del valore della propria libertà e pienamente intenzionate a difenderla da tutto, soprattutto da quel che gli uomini chiamano amore. È il caso ad esempio di Nerina, protagonista di Convegno d’amore di Flavia Steno: sfiorando il tema dell’aborto, delicatissimo per l’epoca, l’autrice dipinge una figura femminile pronta a tutto per salvaguardare la propria indipendenza, disillusa che un uomo possa darle una vita migliore di quella vive da sola. Ancora più estremo è il personaggio di Luisa, protagonista di Nella piccola vita di Elda Giannelli, straordinario ritratto di una donna risoluta e razionale, forse l’unica non affatturata della raccolta, che antepone la propria sicurezza economica ad ogni possibile sentimentalismo con uno squisito senso pratico:
Non voglio nessuna noia su la mia strada, di nessun genere. Ho bisogno d’avere la testa libera la mattina dal lunedì al sabato, ci tengo a star bene. L’amore, caro mio, può dar molte seccature e io non ho tempo da perdere.
Ad eccezione di Luisa e poche altre, le affatturate di questi racconti sono accomunate da una inevitabile trasformazione in vittime: sembrerebbe che lasciar entrare l’amore nella propria vita sia, per quanto inevitabile, la via d’accesso ad un destino di sicura sventura, per alcune addirittura la strada verso la tomba. Il tema emerge bene ne Il giogo, il racconto di Sfinge in cui una giovane vedova scopre la passione per la prima volta e si accorge rapidamente delle fatiche che l’amore porta con sé, e di come la fatica di star vicino ad un uomo che manifesta la propria passione tramite gelosia e mania del controllo superi ampiamente il piacere che se ne ricava: eppure, è impossibile non desiderare quel sentimento nella propria vita.
È questo dunque l’amore, il decantato amore, quello che tutte le donne sognano, che rimpiangono se perduto, che sospirano se non raggiunto? Ahi! Ahi! Che soma! Che peso mortale!
Anche quando sono profondamente consapevoli che l’amore di un uomo, passato il momento iniziale di entusiasmo, aggiunge solo tribolazioni ad esistenze altrimenti perfettamente equilibrate, la spinta verso un amante o una passione è per queste donne irresistibile, un modo per definire la propria identità.
È quel che emerge ne La fine dell’amore di Clelia Pellicano, dove Giorgina scopre la sua vocazione letteraria con disappunto e la gelosia del suo compagno, che la vorrebbe mediocre e silenziosa a sostenere la sua arte. Nonostante la sicurezza della propria vocazione e la certezza dell’abiezione dell’uomo che credeva di amare, alla fine Giorgina deve scacciare via il pensiero che, in quanto donna, vorrebbe solo essere amata.
La stessa idea, ma declinata con un approccio molto più terribile, si ritrova anche ne La cicatrice di Ada Negri, in cui una madre arriva a rivendicare davanti alla propria figlia la grandezza di un amore violento: «non lo troverai certo, tu, un marito o un amante che ti ami al punto di ferirti per amore!»
La fattura, il giogo ammaliante da cui non è possibile slacciarsi, raggiunge poi il suo vertice ne L’oscura passione di Carola Prosperi: dopo una lunga battaglia da parte della sua famiglia per sottrarla ad una situazione domestica degradante e pericolosa, Elena sceglie volontariamente di tornare dal marito violento, con la confusa ma salda motivazione che è pur sempre suo marito. Lo sgomento della madre di Elena davanti a questa scelta è lo stesso di chi legge, la spietatezza con cui si abbatte sulla figlia è quella che ancora oggi viene riservata spesso alle donne che non denunciano, che non vanno via: siamo ancora troppo impotenti davanti all’incantesimo che allaccia Elena al suo aguzzino, al punto che questo racconto appare forse come il più contemporaneo della raccolta.
Cos’hanno da dirci dunque queste donne apparentemente prive di una loro salda forza di volontà, abbandonate al flusso della mascolinità fragile di uomini che hanno bisogno di possederle totalmente per affermare la propria virilità? La risposta emerge chiaramente dalla natura stessa dell’opera: le ventidue autrici qui riunite hanno trovato le parole per raccontare con chiarezza le sfumature più insidiose dell’amore, smontando di ogni frivolezza l’esigenza di raccontarlo e anzi svelando la straziante condizione di schiavitù da cui quest’esigenza muove. La scrittura si conferma quindi come la strada più sicura per emanciparsi dal ruolo di vittime e diventare protagoniste della propria storia.
Infine, leggere Le affatturate nel nostro tempo regala un’ultima, sottile soddisfazione: le storie di queste donne sono attuali e taglienti, le considerazioni sui rapporti tra i sessi che ne emergono potrebbero essere ancora oggi oggetto di dibattito. Vuol dire che l’approccio femminile alla narrazione dell’amore, lo sguardo critico e spietato che oggi tende ad essere catalogato sotto il nome di letteratura del #metoo, non è stato inventato negli ultimi dieci anni ma esiste almeno da un secolo e mezzo: semplicemente, ci fa comodo dimenticarcene.
Loreta Minutilli
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