Il nostro sig. Wrenn tra mediocrità e ironia

Il nostro sig. Wrenn, Sinclair Lewis
(Antonio Mandese editore, marzo 2022 – Trad. Guido Lagomarsino)

il-nostro-sig.-Wrenn-coverSinclair Lewis fu il primo autore americano a ricevere nel 1930 il Nobel per la Letteratura. Solo pochi anni prima, nel 1926, aveva declinato con cordiale fermezza il Premio Pulitzer, preoccupato che l’ambizione a riconoscimenti internazionali rischiasse di trascinare gli scrittori dentro una viscosa dipendenza: stregati dal miraggio ipnotico del trofeo, quelli avrebbero smesso di spremere succo e polpa dalle proprie opere, deprezzando il parametro della loro qualità letteraria. Un atteggiamento del genere fa già presentire, in sottofondo, il tono che attraversa tutta l’opera di Lewis, la quale già nei suoi primissimi stadi di sviluppo vibrava di entusiasmo e spregiudicato senso critico.

A causa di quelle imperdonabili miopie che a volte affliggono il mercato del libro, l’opera prima di Lewis, Il nostro sig. Wrenn, Le avventure romantiche di un gentiluomo americano (pubblicata negli Stati Uniti nel 1914) è rimasta fuori catalogo per cinquant’anni in Italia, dopo la sua prima comparsa nel 1931 nella traduzione di Cesare Pavese. Di recente è stata ripubblicata da una piccola casa editrice indipendente tarantina, Antonio Mandese Editore & Figli, nella a traduzione di Guido Lagomarsino. Il volume inaugura la nuova collana intitolata I salvati; dal nome già si intuisce il fiuto sottile che guida l’editore nel progetto: la volontà è quella di far confluire in un tale contenitore la grande letteratura dei sommersi, i tralasciati, i testi sgusciati fuori dal canone e rimasti in quella zona d’ombra del ‘fuori catalogo’ per decenni. Dall’energica passione del giovane editore deriva anche la scelta di proporre una ritraduzione dell’opera, impresa che ha visto quindi il traduttore misurarsi con la sbrigliata personalità del ‘volgare americano’: l’intemperante lingua di Lewis, meno pepata dello slang ma forse più indisciplinata, è ritratto mosso e bizzoso del parlato.

Oggi, la rilettura de Il nostro sig. Wrenn è un’esperienza densa di autenticità. Lewis erode dall’interno la ‘buona forma’ di cui il vanto americano codificava le apparenze, smitizzando così un orizzonte culturale che, fin troppo conscio della propria grandezza, non riusciva a prendersi gioco dei propri tic o delle proprie ridicole manie. La narrazione procede con un’ironia metodica che sbullona gli ingranaggi fondanti di un dato ambiente: in particolare, in questo romanzo, il lettore assiste alla decostruzione scrupolosa del contesto lavorativo di Mr. Wrenn, della sua miserabile pensione in affitto a Manhattan, del suo stesso soffocante paesaggio mentale tappezzato tutto di sogni al condizionale.

Denominatore comune di questi luoghi è il grigiore amorfo e routinario in cui il protagonista si sente impantanato; ed è su questi luoghi, fusi nello “spazio vissuto” dal nostro William Wrenn, che interviene l’atteggiamento caustico e tuttavia clemente dell’autore, il quale per i suoi personaggi sembra confessore pietoso piuttosto che giudice, pronto a sputare sentenze o condanne. Infatti, l’ironia che informa il testo non ha mai il piglio accanito della satira, piuttosto è sguardo sarcastico e bonario: Lewis è sempre clemente e disponibile a compatire i suoi personaggi per qualunque goffaggine.

William Wrenn è goffo persino quando sogna: lo fa nei momenti più importuni, e a tentoni prova a dar corpo ai suoi desideri in maniera altrettanto maldestra e sgraziata. Quando il lettore fa la sua conoscenza, all’inizio del romanzo, è un giovane addetto vendite alla Souvenir Company, chino sulla sua scrivania tutto il giorno a far quadrare conti e bilanci. Scapolo e senza amici, nei suoi momenti di svago Wrenn si concede di abbandonarsi a pochi, soliti svaghi: il cinematografo e un’overdose di vagheggiamenti di un’Europa idealizzata. Il continente oltreoceano non è che un pretesto, per Wrenn, per sgattaiolare fuori dalle griglie mediocri della sua quotidianità.

Nella prima metà del libro, s’incaponisce di raggiungere la meta tanto sognata con mezzi rocamboleschi, e lo fa davvero, per poi scoprirla però estranea e inospitale, perché è più faticoso trapiantarsi in un nuovo orizzonte culturale piuttosto che limitarsi ad arredare il proprio di esotici desideri. Raggiunge l’Inghilterra imbarcandosi con improbabili manovre su un carro bestiame: ed ecco che la sua confortevole abitudinarietà salta in aria, e il mondo gli si spiattella di fronte offrendogli migliaia di possibilità.

Proprio in un delle sue picaresche avventure britanniche, Wrenn si invaghisce di un’intellettuale emancipata e cinica, Istra Nash, simbolo di tutto quanto lui non riuscirà mai a raggiungere: mentre lei rappresenta disinvoltura, sfrontatezza e libertà, lui è e rimane soltanto la moderata caricatura di un piccolo-borghese americano. Questa condiscendente moderazione per cui l’autore non va fino in fondo nell’impastare di satira il suo personaggio deriva forse dal fatto che, nel plasmarlo, impiega più che altro umanità oltre a un evidentissimo amore nei confronti del popolo americano, che Lewis sa come prendere in giro con fare giocoso, ma perdonandolo sempre.

Perciò, dopo aver seguito il protagonista in tutte le sue avventure, persino quelle più inverosimili e fallimentari, quello che rimane a fine lettura è soprattutto un senso di tenera compassione per le penose situazioni in cui il protagonista si ritrova impantanato con la sua impacciata e ingenua gioie de vivre. Wrenn è un personaggio mediocre, che non sa uscire dalla sua comfort zone, non gonfia il petto e non si finge migliore – o, se lo fa, poi è costretto a fare i conti con la realtà e riconoscersi per com’è davvero, senza troppe illusioni. In molti momenti, il lettore desidererebbe dargli una pacca sulla spalla per incitarlo a proseguire, oppure aiutarlo a rientrare nella confortante sicurezza del perimetro a lui noto. In ogni caso, non si può non volergli bene.

Nel saggio che Pavese dedicò a Sinclair Lewis (contenuto ne La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, 1951) l’autore piemontese riconosce affinità e costruisce genealogie tra i personaggi che sempre lo fanno risalire al loro creatore, come se Lewis avesse ridistribuito qualcosa di sé in ciascuno di loro. È innegabile quanto questa tesi ci appaia suggestiva, ché sempre a noi lettori ingolosisce la possibilità di conoscere l’autore attraverso il difforme gioco di specchi dei personaggi in cui il suo ritratto è esploso. Questa direzione interpretativa si somma allora a tutte le altre che pure, oggi, rinnovano l’esperienza di rileggere di Lewis con consapevolezza e umorismo –perché Mr. Wrenn ha un portamento clownesco e divertente; quasi da comica caricatura celatiana, si fa voler bene, si ribella a una macchina che lo ingoia, e nella sua «umana e giornaliera ribellione all’ambiente e a se stessi»[1] è proprio come ciascuno di noi, seppure in un altro tempo e un’altra storia.

Viviana Veneruso

[1] C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Il Saggiatore, 1962, p. 8.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...