Mostruosa è la madre vittima della sua natura

Mostruosa maternità, Romana Petri 
(Giulio Perrone editore, 2022) 

Romana_Petri_Mostruosa_maternità-COPERTINAQuello della maternità è un tema che, seppur abbia a che fare con la storia dell’uomo dai suoi albori, continua a rimanere pieno di tabù e zone d’ombra: un mistero svelato a metà, che non smette di abitare i territori dell’indicibile. È in questi territori che si addentra la penna sapiente di Romana Petri nel suo ultimo libro, una raccolta di racconti edita da Giulio Perrone intitolata Mostruosa maternità. Il titolo, potente e fatale, è in sé un avvertimento – come d’altronde suggerisce l’etimologia del termine mostro: l’autrice mette in scena, in dodici racconti, undici storie di maternità eccezionali (dove il primo e l’ultimo racconto riprendono lo stesso soggetto), sfidando il lettore a considerarne l’esistenza, terrificante ma pur sempre reale, per tentare, se non di capirla, almeno di vederla. 

La cornice dei racconti è costituita dal caso che vent’anni fa divise l’opinione pubblica italiana, ovvero il delitto di Cogne, un caso di figlicidio che predispone l’assetto tematico dell’opera. Petri assume il punto di vista della Franzoni per provare a capire cosa c’è nella mente di una madre dichiarata colpevole di aver ucciso il proprio figlio, picchiandolo brutalmente sotto lo sguardo minaccioso delle montagne. Dalla cronaca passa al mito e poi all’invenzione, narrando della regina Octuria, vittima di una profezia che la voleva morta assieme al figlio per l’incapacità della regina di essere madre; c’è poi Violante Arreani, bellissima marchesa veneta dagli occhi di molti colori, che un drago di cartapesta vaticinò fossero presagio di strani malefici, e infatti finì per uccidere il figlio e poi sé stessa con addosso un abito bianco da sera. 

Dal medioevo ai giorni nostri, la penna di Petri cuce insieme storie dal Brasile e dalla Lettonia, passando per le fredde terre nordiche e gli afosi paesaggi mediterranei della nostra penisola, disegnando una continuità tra tempi e luoghi data dalla condizione della donna, sempre vittima della sua stessa natura. Le storie di Nadezna – che da un piccolo paese dell’est si trasferisce in Italia per seguire Dario, per essere poi abbandonata insieme a suo figlio e sedotta da un uomo violento –, di Viktoria – che dopo la morte del padre subisce gli abusi del patrigno e i linciaggi della madre stessa, gelosa della sua giovane pelle ancora desiderabile – e di tutte le altre madri della raccolta tentano di indagare l’altra faccia di questa condizione tutta femminile. Mostrano, con drammaticità e liricità, i percorsi della sofferenza, dell’alienazione, della disaffezione per quel corpo che, dopo essersi come sdoppiato dando alla luce una creatura, non ne riconosce la primigenia unità, e finisce per distruggerne una o entrambe le parti. 

L’idea e il desiderio di maternità propinati dalla modernità, che vogliono le donne naturalmente e felicemente predisposte alla procreazione, sollecite nella cura delle loro creature, vengono decostruiti dall’interno grazie a una scrittura che dà vita ai fantasmi che abitano chi diventa madre e non lo sa gestire, arrivando all’atto estremo. Che sia per gelosia, per nostalgia di un sé passato, per orrore del proprio corpo che si deforma in maniera spaventosa, per la bellezza perduta – bellezza, però, sempre definita da canoni stabiliti da uomini, che decidono se un corpo sia desiderabile o meno – queste donne si fanno assassine o coadiuvartici di violenza. E la lenta demolizione dell’idillio di madre sembra non poter fare a meno di atmosfere del fantastico, unico territorio letterario in cui è possibile concepire la presenza di fenomeni restii a essere incastonati entro le barriere logiche e razionali. 

Con abilità e grande sapienza, Petri sembra giocare sulle varie accezioni del concetto di mostruosità. Mostruoso è, letteralmente, ciò che di discosta dalla norma, che col suo carattere di eccezionalità rispetto a una qualsiasi forma istituzionalizzata di immagini tradizionali suggerisce una regressione al caos. Dunque, mostruoso, in questo senso, è il corpo della donna che si fa contenitore di vita, mistero ancestrale della nascita. Lo è il corpo della protagonista di “Un balcone sulla Prenestina”, diventata madre solo per andare contro tutti, che si ritrova allo specchio a ridere convulsamente del suo corpo sformato dopo gravidanza e allattamento: «Di fronte a tutta quella carne mal tagliata sarebbe fuggito via chiunque. E le venne pure da ridere a considerarsi un pezzo di carne mal tagliata, si immaginò appesa a un gancio, ma non intera, si immaginò a pezzi, che so, un quarto, così come si dice un quarto di bue, si sarebbe potuto dire un quarto di lei?» (p. 132)

Mostruosi sono i figli, soprattutto le loro teste da bambini, «che quando sono molto piccoli spesso sono allungate. Hanno la forma brutta di un dirigibile. Teste mostruose» p. 20). Questi corpi deformi descritti spesso con i meccanismi del grottesco finiscono per apparire al lettore talmente innaturali da sfiorare l’orrendo. Allo stesso modo, il legame che c’è tra queste madri coi loro figli va così oltre l’ordinario che non può che suscitare terrore, quel tipo di terrore generato da ciò che non si riesce a concepire. C’è qualcosa di mostruoso nell’amore materno, che è sbagliato negare o addebitare alla pazzia, tentando di ascriverlo alla sfera dell’irrazionale: è, questo, un doppio letterario che l’autrice mette in scena ed esplora magistralmente. 

«Io non voglio giustificare niente, ma non mi piace questo bisogno di andare sempre a cercare una causa, una spiegazione che faccia luce, senza accettare che certe cose avvengono anche perché seguono un destino loro e per motivi che non hanno spiegazione. Non la capisco questa necessità di sentirsi fuori pericolo dicendo che era pazza. Sembra ci sia qualcosa di orrendo nel concepire l’esistenza di una mostruosità ammettendo di ignorarla(p.176) 

Con una scrittura fortemente empatica, che si muove con disinvoltura tra diversi stili narrativi e moduli espressivi, Petri si immerge nel mar mosso che è la psiche di queste madri sconvolte e trascina il lettore nell’oscurità che si cela in tutti noi. A profondi tuffi nell’inspiegabile con punti di vista interni alle protagoniste, si alternano momenti di riemersione e narrazione da un punto di vista esterno, spesso maschile, in cui il racconto delle esperienze eccezionali delle madri assassine viene edulcorato (una velata critica alla cronaca romantica della donna nel ruolo di madre?): erano donne bellissime, mogli e madri felici, che altro potevano desiderare? La potenza della scrittura di Petri sta nella cura che mantiene nel non giudicare mai, e a questo proposito il racconto di chiusura diventa la chiave di lettura della raccolta: due anziane donne dal parrucchiere si trovano a parlare del delitto di Cogne, e tra le due opinioni divergenti che si creano su una tragedia personale che diventa fatto di cronaca, Petri apre lo spiraglio di una terza possibilità. Di fronte a ciò che non concepiamo, e che ci fa paura, esiste l’ipotesi di accogliere l’inspiegabile e accompagnare l’altro, tentando di gettare luce tra le ombre dell’immagine che più ci piacerebbe avere di noi. 

Beatrice Palmieri 

Immagine in evidenza: Medea, con i bambini morti, fugge da Corinto su un carro trainato da draghi – Dettaglio del quadro di Germán Hernández Amores (1887)

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