«Ci fu un tempo in cui era bello vivere/Nella nostra Ucraina…»
Taras Ševčenko, Ivan Pidkova, 1839

Autore: Branko Radovanović
Le statue erette in memoria di Taras Ševčenko costellano l’intera Ucraina, dalle città più popolose sino ai paesi più solitari. Fino al 2014, ciò era vero anche per la Crimea. Tuttavia, dopo il referendum che portò la penisola sotto la giurisdizione della Federazione Russa, commemorare il poeta che aveva incanalato le aspirazioni di indipendenza del popolo ucraino non era più possibile. Nel 2016 già si raccoglievano firme per la rimozione dei monumenti di Ševčenko in tutta la Crimea. A Simferopoli, la capitale della Repubblica, alcuni cittadini posarono dei fiori accanto alla statua del poeta – un tributo prontamente rimosso dalle autorità. Ignoti, in seguito, colorarono i baffi del monumento di giallo e blu, e disegnarono il tridente accostato alla famosa scritta “Gloria all’Ucraina”. Da quel momento, il luogo è stato posto sotto stretta videosorveglianza. Queste rivendicazioni nazionali oggi colpiscono più che mai. L’Ucraina in guerra ritrova nella sua letteratura, e, soprattutto in Ševčenko, le sue fondamenta spirituali.
Taras Ševčenko nacque il 9 marzo 1814 a Morynci, un villaggio dell’Ucraina centrale. I genitori erano dei servi della gleba al servizio dell’astronomo russo Vasilij Engelhardt, e l’unica eredità che potevano lasciare ai figli era la loro condizione e le catene che essa comportava. Così Ševčenko, terzo figlio di sei, divenne ben presto il domestico di Engelhardt. Fortunatamente, il suo padrone scorse in lui la scintilla dell’artista e si premurò di affidarlo al pittore Vasilij Širjaev in qualità di suo apprendista. Il giovane si formò disegnando i monumenti e le statue di San Pietroburgo, che nell’Ottocento era il polo culturale dell’impero russo nonché sua capitale.
In questa fervente città, Ševčenko incontrò molti suoi compatrioti, grazie ai quali poté iscriversi all’Accademia Russa di Belle Arti. Fu però il pittore Karl Brjullov ad avere un ruolo fondamentale nel suo percorso non solo artistico, ma di vita: dopo aver proposto come premio della lotteria un suo ritratto del poeta Žukovskij, Brjullov utilizzò il ricavato per riscattare l’amico dalla servitù. E così, il 5 maggio 1838, dopo ventiquattro anni al servizio di un padrone, Taras Ševčenko divenne un uomo libero.
La prima raccolta poetica vide la luce nel 1840. Il titolo, Kobzar, si rifaceva alla tradizione cosacca, e in particolare ai menestrelli che narravano le loro storie con l’aiuto di uno strumento affine al liuto – il kobza, appunto. Comune agli otto componimenti che formavano il nucleo originario della raccolta era l’elemento romantico: l’esaltazione di un passato glorioso in contrasto con un presente misero, la lode alla bellezza della natura e l’attenzione ai personaggi poveri e afflitti dal destino. Tuttavia, la componente più saliente era la lingua delle poesie. Si dice che con Kobzar la letteratura ucraina sia ufficialmente nata. Questo perché Ševčenko è riuscito ad innalzare al ruolo di lingua poetica l’ucraino, fino a quel momento etichettato dai russi come una sublingua, un idioma contadino e una parlata provinciale. Ciò naturalmente non significa che prima di Ševčenko non fossero esistiti autori ucraini che scrivevano nella loro lingua, ma coloro che ci avevano provato erano stati soffocati dalla predominante cultura russa.

Nell’estate del 1844, Ševčenko poté fare ritorno in patria. Si trattava della prima delle sue tre visite nell’amata terra natia. Lì venne accolto con calore e celebrato come profeta del popolo ucraino grazie alle sue poesie pregne di orgoglio nazionale. La sua reputazione di bardo – o kobzar, come ancora oggi è soprannominato – lo precedeva. E in effetti non sarebbe un’esagerazione affermare il ruolo pionieristico e sacralizzante della prima raccolta poetica di Ševčenko, in quanto grazie ad essa la lingua ucraina acquisì la sua tanto agognata dignità.
A Kiev, Ševčenko divenne membro della commissione archeologica della capitale. Cominciò a viaggiare per il paese alla ricerca di leggende, ballate, proverbi, fiabe – una tavolozza, insomma, di materiali folkloristici ed etnografici. L’esplorazione dell’Ucraina comportò una conoscenza ancora più approfondita del suo spirito. Ševčenko maturò la consapevolezza dello stato di prostrazione della sua terra, sfruttata e violata dallo zar e dal suo popolo. Ed è proprio a quel popolo che qualificava l’Ucraina come ‘Malorossija’, ovvero ‘Piccola Russia’, che Ševčenko indirizzò dei componimenti patriottici, in cui si serviva della satira per denunciarne la tirannia. Le poesie sarebbero poi state radunate in una raccolta intitolata Tre anni (Try lita).
Nel 1846, Ševčenko entrò a far parte della Fratellanza di Cirillo e Metodio, una società segreta con sede a Kiev. I suoi membri, che si erano ispirati proprio alle poesie del bardo che inneggiavano all’indipendenza dell’Ucraina, si proponevano di abolire la servitù e di istruire il popolo. La Fratellanza venne però scoperta per opera di una spia, e il 5 ottobre del 1847 Ševčenko venne arrestato e condotto a Pietroburgo. Del resto, uno zar così intransigente come Nicola I non poteva non indignarsi di fronte a dei versi che paragonavano l’Ucraina a Prometeo, il titano che era riuscito a ingannare Zeus e a sopportare le atroci punizioni cui il re degli dèi l’avrebbe poi condannato.
Ševčenko fu spedito a Orenburg, città della Russia sud-orientale, in qualità di soldato. Gli fu proibito di scrivere e di dipingere per tutta la durata del suo esilio. Ma il bardo non si fece imbavagliare facilmente: continuò a scrivere in segreto su dei taccuini fatti a mano. Ebbe persino l’occasione di partecipare a una spedizione scientifica sul lago d’Aral, durante la quale fu ufficiosamente nominato illustratore di bordo. Aveva, insomma, il compito migliore che potesse desiderare – osservare il paesaggio e riprodurlo su carta. Tuttavia, di ritorno a Orenburg la sua trasgressione venne scoperta, e Ševčenko fu mandato in una colonia penale sul lago d’Aral, dove trascorse sette anni terribili.

Soltanto la morte di Nicola I, nel 1855, poteva porre fine alla prigionia di Ševčenko. Dopo essersi trasferito a Pietroburgo, egli tornò in patria, per esserne poi scacciato con l’accusa di blasfemia. I suoi ultimi anni furono quindi trascorsi nella capitale russa tra poesie, dipinti e disegni, fino alla morte sopraggiunta nel 1861. Benché la sua ultima volontà – espressa anche nella poesia Testamento – fosse di riposare in Ucraina, Ševčenko venne sepolto a Pietroburgo. Passarono due mesi prima che i suoi resti venissero spostati nella sua amata terra, a Kaniv, sui fianchi di una collina allora nota come “Monte dei Monaci”. Oggi questo luogo è conosciuto come “Collina di Taras”.
Se il popolo ucraino fosse stato in grado di fare poesia, avrebbe scritto come Ševčenko. Questa è l’opinione condivisa da numerosi storici e critici letterari, che hanno nominato la genuinità come caratteristica principale dell’autore di Kobzar. Questa sincerità di contenuti era però controbilanciata da una complessità di stile che poggiava su convenzioni romantiche e innovazioni moderniste. La consapevolezza dell’effetto degenerativo del dominio russo sull’Ucraina accendeva i versi di Ševčenko di un bagliore talora iroso, talora tenero. Era convinto che solo gli ucraini potessero liberarsi dal giogo straniero, grazie alla forza innata delle loro radici cosacche. Gli anni passati in catene – fossero esse quelle della servitù o quelle della colonia penale – avevano innestato sui suoi versi un anelito di libertà pervadente, come se Ševčenko si fosse ormai rassegnato alla ricerca della sua propria emancipazione, ma credesse ancora che quelli dopo di lui avrebbero potuto ottenerla. Su questa tensione è fondata la sua opera, e in particolare il componimento Testamento.
Il giorno di Natale del 1845, Ševčenko pensava alla morte. Si era ammalato di polmonite e il suo corpo era allo stremo. L’uomo che lo ospitava lo esortò a recarsi a Perejaslav, una città a sud di Kiev, per farsi curare da un certo dottor Kozačkovskij – al quale in futuro avrebbe dedicato persino una poesia. Convinto di essere vicino alla sua fine, Ševčenko si affrettò a stilare le sue ultime volontà: nacque così Testamento (Zapovit), di cui di seguito si riporta il testo integrale in traduzione italiana:
Seppellitemi, quando morrò,
In un alto tumulo
Nell’Ucraina amata
In mezzo all’immensa steppa,
Dove gli sconfinati campi,
Il Dniprò e le rive sue scoscese
Si vedano, e ascoltar si possa
Il ruggente Dniprò ruggire.
Quando il sangue nemico
Egli avrà portato dall’Ucraina
All’azzurro mare… allora soltanto
Lascerò tutto, e campi e monti,
E volerò fino all’Altissimo
Per pregarLo… Ma prima d’allora
Io non conosco Iddio.
Seppellitemi e ribellatevi,
Spezzate le catene,
E del sangue dei nemici impuro
Irrorate la libertà.
E anche me, nella famiglia grande,
Nella famiglia libera e nuova,
Non vi scordate di ricordarmi
Con parola fraterna e mite.
In questo monologo lirico, l’io narrante si lascia andare a considerazioni di morte. Non si tratta di una scomparsa tragica e dolorosa, bensì di una dipartita solenne, soffusa da orgoglio patrio. Una rassegna degli aggettivi lo può confermare: “alto”, “amata”, “immensa”, “sconfinati”, “scoscese”, “ruggenti” e “azzurro” sono associati alla maestosità dell’Ucraina, terra-madre; “grande”, “libera” e “nuova” sarà la famiglia che si plasmerà dopo la rivolta; “fraterna” e “mite” sarà la parola con la quale il popolo si ricorderà di lui, del poeta che li ha incoraggiati a ribellarsi. La sintassi inizia a farsi più sconnessa negli ultimi versi, dove l’io poetico afferma di poter credere in Dio soltanto dopo la sconfitta, peraltro sanguinosa, dei nemici. “Seppellitemi e ribellatevi”, dice allora, “Spezzate le catene”: prima i ribelli dovranno seppellire lui, che ormai ha adempiuto al suo dovere di ispiratore, e poi potranno insorgere. Nella nuova Ucraina affrancata e indipendente, insomma, non c’è posto per il poeta, che è già salito in cielo per ricongiungersi con Dio. “Non vi scordate di ricordarmi/Con parola fraterna e mite” – il componimento si chiude con questa efficace figura etimologica, dove l’augurio dell’io poetico è quello di sopravvivere, seppure nella memoria dei suoi compatrioti.
Testamento è la poesia che incarna al meglio il grande dramma di Ševčenko, nonché l’apice tragico della sua opera: per tutta la vita egli sognò un paese libero, pur sapendo che non sarebbe vissuto abbastanza per vederlo. Di questa fatalità sono impregnati i suoi versi, che oggi sono ricordati da tutti quegli ucraini che, come lui, vogliono soltanto tornare a casa.
«E sulla rinnovata terra/Non vi sarà più il despota maligno,/
E ci sarà il figlio, e sarà la madre,/E ci saranno gli uomini sulla terra.»Taras Ševčenko, Né Archimede né Galileo, 1860
Un approfondimento di Caterina Cantoni
Immagine in evidenza: dipinto ad opera di Taras Ševčenko ( — 1847)
Bibliografia:
- Il testo integrale di Testamento e le citazioni a Né Archimede né Galileo sono state prese dal volume Taras Ševčenko – dalle carceri zariste al Pantheon ucraino, di Giovanna Brogi e Oxana Pachlovska, Milano 2015
- Per la citazione in cima all’articolo di Ivan Pidkova si è tradotto in italiano il testo inglese nel volume Kobzar – Ukrainian poetry of Taras Shevchenko, edito dal Taras Shevchenko Museum di Toronto, 2014
- com
- Ivan Franko, Taras Shevchenko, in “The Slavonic Review”, vol. 3, n.7, 1924, pp. 110-116
- George G. Grabowicz, Taras Shevchenko: the making of a national poet, in “Revue Des Études Slaves”, vol. 85, n.3, 2014, pp. 421-439
- Olena Makarenko, Taras Shevchenko. The case of a personal fight against the Russian Empire, articolo su euromaidanpress.com del 10 marzo 2016
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