La vita fuori di sé, Pietro del Soldà
(Marsilio Editori, 2022)
Che cosa accomuna Erodoto, Platone, il naturalista Alexander von Humboldt e l’esploratrice Isabelle Eberhardt? Si tratta di personaggi che, in modi diversi, si sono spinti oltre il muro delle abitudini, sconfinando quella che oggi definiremmo comfort zone, per imbattersi verso un ignoto che li ha condotti a una profonda comprensione di loro stessi. Pietro del Soldà, filosofo e conduttore di Rai Radio3, nel suo ultimo libro La vita fuori di sé (Marsilio Editori) racconta le storie di queste figure avventurose, traendo da esse una vera e propria filosofia dell’avventura che può rispondere alle questioni più impellenti della contemporaneità. Ho avuto il piacere di chiacchierare con l’autore riguardo a questo avvincente saggio-romanzo.
L’avventura è un oggetto d’indagine particolarmente insolito per la filosofia, per quanto se ne siano occupati pensatori come Simmel e Jankélévitch, che infatti citi nel libro. Perché hai scelto proprio questo argomento? Da dove nasce l’idea di occuparsene?
La scelta di parlare dell’avventura nasce dalla constatazione che la condizione contemporanea umana sia contraddistinta da una tendenza a chiudersi, a trincerarsi dentro uno spesso guscio protettivo fatto delle nostre poche certezze, delle poche relazioni con le persone di cui ci fidiamo, sostanzialmente delle nostre abitudini. Costruiamo questo guscio per difenderci da un mondo che si fa sempre più incomprensibile e incerto, e in questo senso la pandemia e la guerra non hanno fatto che peggiorare le cose.
Questo guscio ci rende meno liberi perché soggetti alla tirannia dell’Io, un’identità individuale che noi erigiamo a sovrano della nostra esistenza e che si impone separandosi da ciò che è diverso e che non rientra nelle nostre abitudini. Il rifiuto dell’ignoto è una caratteristica di questo Io, che è spesso patologicamente narcisista e competitivo e che riduce gli altri ad avversari, oppure a pubblico. I social network hanno alimentato questo narcisismo di fondo, che ci rende schiavi dell’immagine di noi che forniamo agli altri, quasi come se fosse quella la nostra vera identità, ciò verso cui va sacrificato ogni nostro sforzo.
Il problema è che questa identità perde di vista molto: in realtà idolatra gli altri e non ci consente un’autentica e piena relazione con loro, e nemmeno con noi stessi. Questo Io si impone sacrificando molta della complessità che abita dentro di noi. Abbiamo tanti desideri e inclinazioni che sono divergenti rispetto a questo Io, però ne facciamo a meno nella convinzione che vada conservato ciò che contribuisce a farlo brillare agli occhi degli altri nel modo migliore, ritagliando le parti che non vanno bene alla ricerca di una condivisione che è fasulla, perché in realtà ci stiamo esibendo al giudizio e alla valutazione. È quella che nel libro chiamo “la trappola delle aspettative”: siamo ossessionati dalle valutazioni altrui dei nostri comportamenti, ma anche delle valutazioni che diamo noi, come se una giuria invisibile interiorizzata ci seguisse sempre dando un voto alle nostre performance nella vita professionale e privata.
L’avventura è l’esperienza che io pongo al centro della mia riflessione come risposta a questo problema, come l’antidoto alla chiusura nello spesso guscio dell’Io; essa rappresenta una rottura che fa filtrare una luce nuova e ci espone all’esterno, al “fuori di sé”.
Credo che la tua sia una descrizione piuttosto realistica della condizione contemporanea, ma quando nel libro parli di “noi” a chi ti riferisci esattamente? A quali fonti hai fatto riferimento per studiare questo “noi”?
Io parto sempre da due fonti empiriche: me stesso e il lavoro che faccio. Ho la possibilità di affiancare al mio lavoro speculativo e di riflessione una pratica quotidiana alla radio, che mi permette di confrontarmi con le inquietudini, i problemi e le domande delle persone. Da lì parto per ragionare su temi che mi sembrano corrispondere a una descrizione della realtà, una sorta di “fenomenologia” dell’individuo del ventunesimo secolo, e in particolare di questo terzo decennio che si è aperto con la pandemia, la guerra ed una crisi economico-sociale.
Ho quindi arbitrariamente scelto di affiancare una riflessione sul tema dell’avventura e delle storie avventurose ̶ che forse sono lo specifico di questo libro ̶ di epoche e contesti completamente diversi dal nostro, nella convinzione che queste riflessioni su persone molto diverse ma accomunate dalla tendenza a uscire oltre la frontiera siano utili ed efficaci anche per noi, per aiutarci a rompere quel guscio dentro cui siamo chiusi.
Il “noi” quindi è un noi generico entro il quale ciascuno si può identificare. Sicuramente io ho uno sguardo privilegiato sulla società italiana, che è quella entro cui mi muovo, ma non vedo differenze particolari all’interno delle democrazie avanzate.
Tra gli elementi propri dell’avventura inserisci una buona dose di “improvvisazione” e, aggiungerei, di incoscienza. Perché essa sia possibile non basta andare in un altro luogo: i viaggi organizzati e le crociere ad esempio sono tutt’altro che avventure, anzi ne rappresentano l’esatta negazione. Lo spazio per l’improvvisazione e l’incoscienza nel mondo attuale mi sembra sia però molto ridotto, dal momento che oggi esistono strumenti che permettono di calcolare e prevedere ogni minimo aspetto della vita. Com’è possibile ancora l’avventura in un contesto così inospitale?
Nel definire l’avventura faccio mio il ragionamento di Georg Simmel riassunto in un saggio che si intitola Una filosofia dell’avventura, come il sottotitolo del mio libro. Simmel dà una definizione paradossale dell’avventura, come esperienza “eccentrica e centrale”. L’avventura si distingue nel corso della biografia di una persona in quanto tende a spezzare il ritmo concentrico della nostra vita: noi abbiamo un centro di gravità attorno al quale si snodano i nostri interessi e abitudini come delle orbite, secondo un ritmo che segue una prevedibilità di cui abbiamo bisogno, altrimenti non riusciremmo nemmeno a vivere. Le esperienze avventurose invece escono dall’orbita e prendono la tangente, come fossero schegge impazzite; ma non sono solo questo, altrimenti sarebbero esperienze avventurose anche un incidente, una disgrazia, una gioia inattesa. L’avventura può avere qualunque forma – un viaggio, un incontro, la scoperta di un’opera d’arte – e ha la peculiarità di essere un’esperienza che fa emergere qualcosa di diverso, ma che ha un rapporto molto intenso e misterioso (aggettivo che Simmel usa più volte) con il centro del nostro sé: è un’esperienza extra-ordinaria che mostra chi siamo veramente meglio ancora dei nostri gesti quotidiani.
Quindi come è possibile vivere queste esperienze nel mondo di oggi in cui, come dicevi tu, tutto è programmato? In realtà l’uomo tende da sempre alla programmazione e alla costruzione di un muro di abitudini per una questione di sopravvivenza. Forse è vero che oggi è più difficile, ma è altrettanto vero che il nostro tempo – pandemia e restrizioni a parte – consente di esporci alle novità: si viaggia molto di più, quindi la possibilità di andare incontro al diverso è ampliata. È ovvio che il mondo che conosciamo viaggiando non è più quell’alterità radicale di cent’anni fa quando hanno viaggiato alcuni protagonisti del mio libro, come Alexander von Humboldt o Isabelle Eberhardt. La natura umana tende però a questo: così come ha bisogno della costruzione delle abitudini così, quasi per bilanciare, si espone a questa imprevedibilità, perché ha bisogno di questa tensione che, come dice Jankélévitch, “inarca la vita” e fa esprimere davvero sé stessi.
Attraverso l’eleutheria, cioè il concetto greco di libertà, mostri come i greci avessero un’idea di identità dinamica e plurale, che ammetteva l’alterità: leggendo Erodoto apprendiamo come essi riconoscessero ciò che di straniero vi era nella loro identità, come ad esempio l’alfabeto, che era fenicio. Da un punto di vista storico però le loro società erano organizzate in modo rigido (oggi diremmo che erano “classisti”) e prevedevano la schiavitù e la diffidenza per il “barbaro”. Ciò sembrerebbe quindi ricondurre ad un’idea di identità molto forte ed esclusiva. Come si tengono insieme questo aspetto storico ed il concetto di eleutheria?
In realtà nel libro non pongo i greci a modello né ritengo che questa coscienza dell’alterità fosse loro patrimonio comune, ma al contrario sottolineo come queste caratteristiche emergono dalla narrazione di Erodoto, che ci sorprende quando mostra le origini barbare di tante conoscenze greche, anche a volte inventando. Mi piace Erodoto proprio per il suo distinguersi dalla vulgata del “suprematismo greco”, esattamente come Socrate – cui ho dedicato i miei libri precedenti – che propone idee sulla libertà, sul rapporto con gli altri, sulla messa in discussione di sé che non erano però dei greci, ma anzi si ponevano in contrasto con l’opinione comune (che infatti lo mise a morte).
Ho messo Erodoto al centro di due capitoli la cui intuizione fondamentale nasce dalla battaglia di Maratona, che raccoglie in sé un’immagine dell’andare fuori di sé. L’esercito persiano invade la Grecia per punire Atene ed Eretria della colpa di aver aiutato i rivoltosi dell’Asia minore qualche anno prima. Erodoto racconta come Atene si prepara a difendersi dall’arrivo dei nemici e descrive come esempio negativo quello che hanno fatto i cittadini di Eretria, saccheggiata pochi giorni. L’errore di Eretria è di aver scelto davanti al nemico che incombe la strategia peggiore: quella del rinchiudersi in sé stessa, nel guscio di cui parlavo prima appunto. Questa condizione viene descritta in una parola: stasis, che vuol dire guerra civile, cioè il dissidio che dilania dall’interno un organismo collettivo come la polis, ma anche – con Aristotele – l’anima del malvagio, che non sa governare le passioni che si agitano dentro di sé. Ad Eretria succede proprio questo: non uscire fuori porta la città a dividersi in fazioni. Il suo popolo non è stato sconfitto soltanto dai persiani, ma anche da sé stesso con questa non scelta; questo è un esempio per noi di fronte alle sfide della vita, di fronte alle quali dobbiamo reagire uscendo dalle mura. È proprio questo che faranno gli ateniesi, seguendo il motto del generale Milziade: “Bisogna uscire”, cioè essere protesi verso il fuori per difendere la propria libertà. Questa strategia sarà poi vincente e gli ateniesi con un assalto di corsa quasi folle sconfiggeranno i persiani.
Tutte le storie di avventura che racconti sono in qualche modo legate al superamento di un confine: Erodoto viaggia in giro per il mondo per svolgere le sue ricerche, Platone va in Sicilia nel tentativo realizzare il suo modello politico, von Humboldt giunge fino in Sudamerica spinto dalla sua curiosità. La frontiera – che nel libro ma anche nel modo di pensare abituale ha un’accezione negativa – rappresenta quindi una condizione necessaria perché ci sia l’avventura?
Dal punto di vista etimologico l’avventura prevede un andare verso le cose future, quindi oltre la frontiera del tempo presente, verso l’ignoto. L’avventura si configura come un’esperienza di rottura ed è inevitabile che preveda un superamento di una frontiera, che può essere fisica come le mura di Atene, oppure astratta come quella dell’identità individuale.
La frontiera che supera Platone è quella della teoria astratta. Platone valica la frontiera costituita dalle idee pure che non hanno radicamento nella realtà e non vuole morire portandosi dietro la nomea di filosofo che se ne sta chiuso nella sua torre d’avorio, che non ha accettato la sfida della realtà e dell’impegno politico. La frontiera in questione qui è quella che separa la teoria dalla prassi, il pensiero dall’azione.
Questo rapporto tra teoria e prassi mi sembra fondamentale: una delle conclusioni più importanti de La vita fuori di sé è infatti che l’avventura non solo è una pratica filosofica, ma possiede un’essenza politica. L’avventura di Platone in Sicilia però va incontro ad un fallimento che tu stesso definisci “inevitabile”. Se il risultato di questa operazione non conta, in cosa consiste il suo senso? Dov’è che teoria e prassi possono incontrarsi?
Nel caso di Platone il tentativo di varcare il confine tra la teoria e la prassi fallisce perché pensa di colonizzare la prassi a partire dalle idee; rimane quindi il problema della filosofia come un pensiero elaborato in astratto che vede poi l’applicazione, come se la prassi fosse una dimensione di secondo rango, una creta grezza da plasmare con la forma dell’Idea. Così inteso il tentativo politico fallisce, ma noi leggiamo di questo fallimento in quanto è descritto da Platone stesso, che attraverso il testo autobiografico della Settima lettera diventa consapevole del fatto che non è così che si supera la frontiera tra la teoria e la prassi. Dobbiamo quindi interpretare quel fallimento non come un’impossibilità di vivere un’avventura politica, ma come una lezione: l’avventura politica non significa calare dall’alto le proprie convinzioni e principi astratti per applicarle con forza alla realtà.
Hugo – il protagonista de Le mani sporche di Sartre di cui mi occupo in quel capitolo – compie lo stesso errore, in quanto intellettuale di partito farcito di grandi convinzioni con cui vuole piegare la realtà. Questo personaggio sente che finché è rinchiuso nella bolla di teorie non vive veramente la vita, ma è come se stesse in una scenografia in cui tutto è posticcio e all’interno della quale è impossibile assaporare fino in fondo il sapore vero delle cose.
All’inizio di La vita fuori di sé scrivi che ‹‹Ai fini della nostra felicità, il porto sicuro può rivelarsi molto più pericoloso del mare aperto.›› (p. 40). In mare aperto però è naturale perdersi, in quanto l’uscire da sé contiene sempre il rischio di smarrire sé stessi. Credi si debba vivere in toto questo spaesamento oppure c’è qualcosa che può svolgere il ruolo di bussola nel muoversi fuori dal proprio Io?
Per essere felici dobbiamo arrischiarci fuori dal guscio di cui parlavo prima e quindi il pericolo di perdersi è ovvio; è importante però capire che ci perdiamo anche nel porto sicuro, perché se rimaniamo soggetti alla tirannia dell’Io smarriamo tutta quell’intensità di noi stessi che non viviamo. La prospettiva della perdita c’è sia nel dentro che nel fuori, ma la bussola esiste, in quanto l’uscita da sé non è qualunque gesto folle che ci porta via dal consueto, ma corrisponde alle nostre passioni, in quanto l’avventura porta finalmente alla luce le nostre inclinazioni più profonde. Ciascuno di noi sa dove si accende il fuoco della propria passione, ed è lì che sta la bussola per non perdersi.
Per capire questo discorso veramente dobbiamo però riportarlo alla nostra vita, esattamente quello che Platone chiedeva di fare al suo lettore: bisogna rifuggire dalle astrazioni pure. Capiamo quindi cosa sono il porto sicuro, il mare aperto e le nostre inclinazioni più profonde solo calandole nel nostro vissuto concreto.
a cura di Giacomo De Rinaldis