La nave faro, Mathijs Deen
(Iperborea, 2022 – trad. Elisabetta Svaluto Moreolo)

La nave faro inizia con un evento inatteso che smuove le acque ferme, attirando l’attenzione di un disorientato protagonista, e con un controsenso quasi ontologico: una nave, luogo del viaggio per eccellenza, dell’avventura verso il lontano, della traversata dell’ignoto, ferma al largo: una nave destinata a non muoversi, a servire alle altre navi senza condividerne la sorte. Una nave che dal suo equipaggio è considerata un carceriere e una malinconica inutilità, sradicata e inconcludente.
La storia è breve, ma densa di simboli. Una manciata di marinai che, a bordo della nave faro, aspettano in una lenta agonia spirituale il momento in cui potranno andarsene e il cuoco di bordo, uomo di poche parole con un passato nelle Indie orientali, che decide di preparare un piatto della sua infanzia: il gule kambing, pietanza indonesiana a base di carne di capra.
Porta dunque a bordo con sé un capretto, sfidando il divieto che impedisce di tenere animali sulla nave. La presenza nuova desta inquietudine: alcuni mostrano indifferenza, altri preoccupazione, altri si limitano a pregustare il pasto esotico, alcuni vengono incaricati di prendersi cura dell’animale e nutrirlo, alcuni vedono in lui una presenza diabolica, destinata a sconvolgere definitivamente un equilibrio già precario.
Superata l’attitudine alla fuga, riflesso dell’analoga spinta che anima l’equipaggio, la bestia si adatta alla vita di mare. Il cuoco si raccomanda di non darle un nome. Di non addomesticarla, di non affezionarsi. Ma c’è forse qualcosa di più: dare un nome, dire il nome, ha una valenza speciale nel pensiero magico-simbolico, e la creatura viene da un mondo rurale dove il tempo sembra essersi fermato, ribellandosi al progresso e alla modernità. È una creature selvaggia di un’altra epoca; è forse un anelito di libertà in una gabbia collettiva chiusa da sbarre tanto fisiche quanto mentali.
La nave faro diventa una narrazione inquieta di viaggi mentali e allucinazioni, con una tensione crescente accompagnata da una degenerazione dell’atmosfera stagnante – che implica tuttavia una tranquillità, una rassicurazione. Tutto crolla quando il cuoco, quasi fosse una incarnazione delle fondamenta di un edificio, comincia a stare male, per una malattia cronica che a tratti torna a tormentarlo di febbri e deliri sottraendolo alla vita per diversi giorni.
Tutto va a rotoli da quel momento: si organizzano turni per sostituire il cuoco in cucina, la gente dorme meno, il tempo, descritto con cura maniacale dal marinaio Gerrik Snoek, peggiora. Il capretto sparisce, sfuggendo alla macellazione, e sembra anzi prendersi gioco dell’equipaggio, sparendo e ricomparendo come una presenza infestante. Alcuni uomini lo proteggono, gli parlano, come fosse diventato un loro compagno; non è forse un prigioniero della nave anche lui, come loro? Non è forse anche lui destinato ad essere nutrito e usato per un corto periodo di tempo?
Il ritmo si fa nervoso e spezzettato. Gli eventi si susseguono interrotti da flashback e pensieri schizofrenici fino al climax decisivo, seguito da una parziale distensione che non ha nulla di sereno ma anzi, apre a nuovi interrogativi, a nuove miserie umane. Un viaggio nei luoghi oscuri della mente, condotto mentre la nebbia mette in pericolo la nave faro e i suoi maledetti inquilini.
La sensazione è che Deen non abbia detto tutto quello che voleva dire. Il lettore è lasciato a se stesso con più interrogativi del necessario e vuoti che non può riempire da solo. Manca qualcosa: la tensione, l’inquietudine sono ben rese, ma personalmente ho sentito il bisogno di approfondire la conoscenza con i personaggi, di sapere di più. Questa mancanza potrebbe essere una deliberata scelta dell’autore, dichiarata tra l’altro quasi esplicitamente da uno scambio dialogico nel penultimo capitolo. La conclusione arriva con una certa laconicità, che ho trovato insoddisfacente per i motivi qui dati. Probabilmente un lettore più ermetico avrebbe apprezzato questo silenzio, in fin dei conti emblematico degli uomini di mare; anche di quelli che non hanno viaggiato più della distanza tra base faro e porto.
Alessia Angelini
Foto di Vladyslav Dukhin da Pexels: