Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, Enrico Macioci
(TerraRossa Edizioni, 2022)
Se esiste un momento in cui l’infanzia – era di extraterrestri, basi spaziali e mondi possibili – diventa altra cosa, lo sforzo del narratore di Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia sembra proprio quello di raccontare questa transizione, metterla in parole. Ma più che un percorso da attraversare, la trasformazione suona più come uno strappo, un brutale interrompersi della conversazione che stavamo intrattenendo col nostro migliore amico, che ha sei anni come noi, e poi improvvisamente non li ha più, è un bambino vecchio, dallo sguardo saggio e corrugato. E così anche noi.
Nella trama del romanzo si amalgamano due piani temporali: c’è un Francesco che ha sei anni, nell’estate del 1981, come Christian Crèoli, il suo migliore amico; e c’è un Francesco quarantacinquenne, che racconta del passato disseppellendo materiale utile tra i ricordi, acciuffando quelli che può, fabbricando quelli che mancano. Malgrado i suoi sforzi, alcune scene rimangono istantanee di pixel sgranati, sciami di granelli anarchici che prudono sullo schermo della memoria – personale e collettiva.
Se, da un lato, nella memoria individuale del protagonista – per quanto fallace e piena di buchi neri che inghiottono verità e dettagli – lo spartiacque traumatico è rappresentato dalla data del 10 giugno 1981, quando cioè il suo migliore amico Christian scompare nel nulla, negli stessi giorni un altro evento terremota la coscienza collettiva del Paese: Alfredo Rampi, loro coetaneo, cade in un pozzo artesiano in località Vermicino, in provincia di Roma. Per salvare il bambino viene apparecchiato un arsenale di sistemi di soccorso, si trivella e si scava, si interrogano speleologi e si ascolta ossessivamente il resoconto di giornalisti dalle tv accese in tutte le case d’Italia; è la prima vera esperienza condivisa di spettacolarizzazione della morte, mandata in diretta (prima che sia morte) e cannibalizzata dalla curiosità nazionale.
La morte assumeva una forma, la forma del racconto di ciò che succedeva all’interno del pozzo e che i telespettatori non potevano vedere. La morte veniva esorcizzata frugando nelle sue luride tasche, tra la sfortuna e gl’imprevisti. La morte era uno spettacolo e dunque lo spettacolo diventava morte. (p. 52)
Per il protagonista bambino è quella la scoperta della morte in senso più ravvicinato e “domestico”: una morte che può entrare in casa sua, inscatolata dentro il parallelepipedo sdraiato del suo televisore o infiltrata nei discorsi dei grandi, che la considerano come concreta ipotesi, abbinata al nome di Christian. Da lì per Francesco si schiude lo scenario di un nuovo mondo, giacché cambia irreversibilmente il modo in cui guardiamo la realtà da quando ci percepiamo finiti, al di qua di una porta che ci separa dal budello di una stanza buia. Il racconto procede poi attraversando le ore interminabili successive alla notizia della scomparsa di Christian; il protagonista subisce l’assedio di incubi agghiaccianti, fa ipotesi, le confida ai grandi che stentano a crederlo, e percepisce così quanto inattendibili e fallibili siano a volte gli adulti.
Atmosfere torbide e paure bambine alla Io non ho paura di Nicolò Ammaniti si mescolano a una precisissima postura critica nei confronti del medium del televisore, che invece fa ripensare al modo in cui alcuni personaggi di Aldo Nove se ne erano sfamati, mescolando alla rinfusa tasselli dell’immaginario degli anni ’70-80: penso a Michele, protagonista di Puerto Plata Market (1997) che racconta di come per lui, da piccolo, Aldo Moro e Pippi Calzelunghe facessero parte dello stesso dominio del reale – d’altronde, erano tutti e due abitanti del variegato paesaggio televisivo, separati al massimo da una striscia di réclame. La voce di Francesco adulto interviene spesso a denunciare la viziosità del nostro rapporto con la tecnologia, anche mettendolo in relazione con il presente e sostituendo all’egemonia della tv quella più attuale degli smartphone; il suo tono non annuncia apocalissi al di là da venire, ma nota gli effetti di quelle che sono già dentro le maglie della nostra Storia.
Enrico Macioci attinge a diversi generi letterari senza cercare necessariamente l’armonizzazione, ma lasciando anzi le specificità di ognuno a spuntare come spigoli o schegge dal testo, che mantiene così intatta la sua inquieta originalità. La sua scrittura sfonda davvero porte e s’interra in stanze senza luce, non perché lasci nell’ambiguità assoluta quanto racconta; al contrario, la sua lente mette a fuoco perfettamente le cose proprio perché, assuefatta al buio, ne distingue i contorni e getta dappertutto sguardi chiarissimi e disarmanti.
Il lettore, nell’addentrarsi in questa prosa, sperimenta ciò che si prova ad entrare a tentoni in una stanza interrata: oppressione, fiato corto, sguardo tappato. Il viaggio attraverso le parole di Macioci non è una rincorsa per la salvezza, è piuttosto una lunga catabasi, un reportage fosco di ciò che succede dietro le porte che sfondiamo e nei grembi bui in cui abbiamo il coraggio di guardare.
Viviana Veneruso
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