Il faraone d’Olanda, Kader Abdolah
(Iperborea, 2022 – Trad. E. Svaluto Moreolo)

Kader Abdolah, iraniano classe 1954, da quando è rifugiato politico nei Paesi Bassi per via delle persecuzioni del regime di Khomeini, scrive in olandese, la «lingua della libertà», come ama chiamarla. Per questo viene pubblicato da Iperborea, casa editrice che cura sapientemente il panorama della letteratura nord europea in Italia.
Protagonista di quest’ultimo romanzo è l’amicizia tra Herman Raven, anziano egittologo affetto da Alzheimer, e Abdolkarim Qasem, egiziano emigrato più di mezzo secolo fa in Olanda per lavorare come operaio in una ditta che produce lavatrici. Nonostante Zayed Hawass, pseudonimo arabo dello studioso di archeologia, non ricordi più distintamente né il legame familiare che lo unisce ai suoi due nipoti, figli di sua figlia Merie, né le tante conoscenze apprese in una vita di ricerche, ciò che non può dimenticare è la strada che lo porta a casa del suo amico di lunga data e le loro passeggiate lungo gli argini del Vliet. A mano a mano che la memoria gli sfugge è Abdolkarim a prestargli la sua.
Le persone con cui hanno a che fare quotidianamente, i loro figli in primis, trattano i due anziani come individui non più lucidi che, in fondo, non meritano di aspettarsi più nulla dalla vita. In realtà i due amici nascondono un progetto segreto: riportare alla sua terra d’origine la mummia di una regina egiziana vissuta alla fine del IV millennio che da tempo riposa nella cantina del celebre egittologo olandese, tra le pareti decorate come quelle di una tomba nelle sabbie nord africane da Abdolkarim stesso, sotto la guida di Zayed.
Quando la memoria dell’egittologo inizia a cedere vertiginosamente, si rendono conto che devono agire in fretta. Per questo coinvolgono Jansen, il direttore del museo delle Antichità di Leida, ex studente del Professor Raven. Non tutti credono all’autenticità della mummia, anche per paura della possibile dannosa ripercussione che la scoperta di un vero reperto egiziano in una cantina sul Vliet potrebbe avere sulla reputazione dello stimato egittologo, ma Jansen è disposto ad acquistare l’intera camera funeraria, compresi i pannelli parietali dipinti, per esporla al museo. Non è ciò che auspicavano i due amici. Il tema del ritorno nella terra d’origine dopo un’emigrazione forzata è ben presente anche ad Abdolkarim, che spera di poter accompagnare la mummia in quel viaggio a ritroso, riscattando una vita di lavoro in terra straniera con un ritorno trionfale. Perché «tutti torniamo al luogo da dove siamo venuti» (pag.32).
Ora che la memoria di Zayed si è inceppata, è proprio l’egiziano che più si impegna per la riuscita dell’impresa, nonostante tutto ciò che sa sulla storia della sua terra d’origine gli sia stato spiegato dall’olandese. O forse proprio per questo, per una conoscenza dei suoi luoghi e di sé mutuata da uno studioso straniero che tentò di mimetizzarsi tra gli autoctoni, per quanto possibile. Che la mummia sia autentica o meno non ha importanza. La realtà è surclassata dall’eventuale fantasia, quando dà un senso al quotidiano, specialmente quando si tratta degli ultimi anni di vita di due persone.
In antitesi alla bella amicizia tra i due uomini, uno dedito alla sua cantina-tomba reale, l’altro al suo orto egittizzante, ci sono i famigerati «uomini d’oggi», vittime di una retorica negativa che li presenta come incapaci anche delle più genuine (e normali) relazioni umane. «[Papà] invidio la vostra amicizia autentica, l’amicizia di una vita. Noi ci affidiamo sempre più alla memoria dei nostri computer» (pag.57), sentiamo dire al figlio di Abdolkarim. «Invidio il vostro cameratismo», aggiunge in un altro passaggio Marcel, genero di Zayed, «oggi questo spirito non esiste più. […] Neanch’io ho dei veri amici. Il mio amico è il mio computer.» (pag.104) Oltre a ciò essi pensano solo al profitto, meglio se facile e immediato: «Agli uomini della sua generazione [del figlio di Abdolkarim] interessava fare soldi in fretta. Una volta era tradizione divina scalare una montagna con corde e picozze, mentre gli uomini d’oggi […] preferivano arrivare in cima con la funivia.» (pag.179) Arrivano a lodare l’America, dove «se è necessario loro radono al suolo i vecchi palazzi e i vecchi ponti e ne costruiscono di nuovi», non come «l’Egitto, [che] è così povero perché continua a puntare su quelle tombe millenarie». Tutte queste riflessioni risultano semplicistiche, infondate e portatrici del pericoloso messaggio che svilisce generazioni intere cristallizzandosi su un’opinione un po’ populista, certo non all’altezza di uno scrittore del calibro di Abdolah e, per questo, spiazzano il lettore.
A parte ciò, l’autore ha scritto un libro avvincente, in cui spicca la narrazione pura e il gusto per gli intrecci originali da antico cantastorie e affabulatore che sa coniugare sapientemente Oriente e Occidente. Certamente il tema dell’egittologia viene sfruttato per il fascino che esercita almeno sull’emisfero ovest, per non dire sull’intero globo. Da “addetta ai lavori” mi permetto di sottolineare che, sebbene nel colophon sia dichiarato il coinvolgimento di un’egittologa per la consulenza storica e linguistica, non sembra essere stata effettivamente interrogata per l’interezza del romanzo. Se infatti divinità, generalità storiche e persino il nome completo della (fittizia) regina egiziana della cui mummia Zayed sarebbe in possesso siano plausibili (Merneith era effettivamente un nome femminile in uso nella prima dinastia), Abdolah compie alcuni errori più o meno significativi che, però, intaccano la veridicità storica dell’opera. Probabilmente l’intenzione dell’autore non era quella di raccontare in modo storicamente accurato il primo periodo dinastico, e per questo è giusto non aspettarsi uno studio meticoloso su alcuni aspetti della vita del tempo, quali, per esempio, il metodo di sepoltura. Pertanto alcune lacune sono più che accettabili per chi non si occupa di determinati studi. Certo è che la scelta di Tolomeo e Arsinoe come nomi dei genitori della fittizia regina Merneith rappresenta uno scivolone rintracciabile anche da chi si interessa solo superficialmente di storia antica, dato che sono tra i nomi regali più caratterizzanti del periodo Tolemaico, momento successivo alla frammentazione dell’impero costruito da Alessandro Magno, quindi post 323 a.C., in cui sul trono d’Egitto c’era una dinastia macedone parlante greco. Nulla a che vedere, dunque, con la prima dinastia, indigena e precedente ai Tolemei di quasi tremila anni. La finzione letteraria è un diritto sacrosanto e indiscusso dell’autore, ma quando si avvale di un errato presupposto storico risulta fuorviante.
In opposizione a ciò, invece, quanto di pertinente al mondo arabo e islamico è invece come sempre molto curato e attento, sia nelle espressioni idiomatiche, sia nella quotidianità dei gesti, espresso in modo puntuale e coinvolgente, anche per chi non ne ha un’esperienza diretta. Lo stile sintattico di Abdolah è scattante, dalle frasi brevi e dinamiche. Le descrizioni, invece, sono spesso minuziose, soprattutto quando si tratta di raccontare attimi di vita dei personaggi. Alcuni passi risultano gonfi dalla sovrabbondanza di particolari, e sono funzionali alla caratterizzazione dei personaggi; inoltre, ripetuti, hanno un effetto quasi comico. Viene specificato, per esempio, che ogni volta che Merie, la figlia di Zayed, sale in auto, allaccia la cintura sua e di tutti i passeggeri prima di accendere il motore; di Abdolkarim, invece, viene evidenziata l’abitudine di cucinare con le verdure del suo orto, che cura minuziosamente e del cui stato, di pagina in pagina, viene informato il lettore.
La caratterizzazione dei due personaggi principali risulta essere la più curata, così come il loro rapporto di amicizia, costruito su un equilibrio armonioso di antitesi e somiglianze. In entrambi c’è un attaccamento ai figli e un amore per loro che oltrepassa persino la malattia cognitiva dell’egittologo. La pungente ironia di Abdolkarim si mescola alla saggezza sagace che viene da una vita di esperienze più che di studio e che, per questo, si contrappone a quella di Zayed che, sebbene ormai abbia perso buona parte di memoria, talvolta conserva ancora un ironico brillio sommerso e sommesso.
Eleonora Mander
Immagine di copertina di Peggychoucair.