Andrea Tarabbia, Il continente bianco
(Bollati Boringhieri, pp. 244)
L’adagio secondo cui le storie si intrecciano spesso attorno a problemi legati all’amore o alla morte è quasi sempre vero, soprattutto se ragioniamo sul fatto che i due ostacoli si diramano in milioni di varianti. Del resto, è proprio amore – declinato in un senso etereo di fascinazione – quello che il narratore ha per Marcello Croce, protagonista del romanzo di Andrea Tarabbia, Il Continente bianco. È un’altra forma di amore, questa volta perverso e maleodorante, quello che lega Silvia (la moglie del dottor P***, psicoterapeuta del narratore che lo coinvolgerà nella vicenda che poi darà corpo all’intero sviluppo) a Marcello. C’è anche la morte però in questo romanzo di riscrittura, che aleggia per tutta la vicenda svolgendo il ruolo sia di uno spauracchio, ma anche di un oggetto a cui anelare. Amore e morte sono però costretti a loro volta a specchiarsi nel male, un male intestino che ha come unico scopo quello di rovesciare il mondo in cui si trova ad operare. Non per una rivalsa qualsiasi, ma più per un bisogno di esplicarsi, di rendersi cosa tra le altre cose del mondo.
La storia prende velocemente avvio da una confidenza che il dottor P**** fa a Tarabbia (scrittore e alter ego dell’autore) durante una seduta, trasgredendo quindi le regole deontologiche che dovrebbe tenere uno psicoterapeuta col proprio paziente. Il dottore gli fa notare che, sempre più spesso, c’è un uomo fuori dal palazzo in cui vive e riceve i pazienti: questo uomo si ferma, osserva, aspetta. È un ragazzo bellissimo ma inquietante. I due lo osservano dalla finestra, lo scrutano per cercare — anche solo visivamente — di capire il perché di quegli appostamenti. Dopo qualche giorno, il narratore si trova al centro di Roma nel bel mezzo di un comizio di un movimento di estrema destra, durante il quale echeggia una domanda «Una guerra è in arrivo. Tu da che parte stai?» (p. 32).
Ad ascoltare quel comizio c’è Marcello Croce, il venticinquenne bellissimo che – scopriremo nel giro di poche pagine – è a capo del movimento chiamato “Continente bianco” e intrattiene una relazione con Silvia, la moglie del dottor P***: una splendida cinquantenne della borghesia romana, annoiata dalla vita agiata che ha condotto ma ancora capace di sperimentare e sedurre.
«Riprese l’orecchino, tenta di specchiarsi nel vetro del tavolino e, mentre lo faceva, mi sembrò che il suo sguardo soffrisse di uno strabismo lieve e sensuale, che chiedeva attenzione.» (p. 16)
Il narratore, dunque, si mescola al Continente bianco; il gruppo lo accoglie con un sospetto misto a interesse. Le riunioni sono deliri di onnipotenza nelle quali vengono rivendicate teorie per cui il bello sta nel combattimento puro, nella lotta per un’idea in cui si crede davvero: la purezza come bene trascendentale. Entrano in campo personaggi paurosi ma vividi – Ubu, Werner, Franziska –, persone in attesa di una guerra, di uno scontro per lo scontro, di qualcosa che dia corpo e sostanza alle loro idee estreme, proprio per questo impossibili da scalfire.
Le rappresaglie nei confronti del proprietario di un locale bengalese, gli scontri violenti con i frequentatori di un centro sociale, le riunioni con le sedi distaccate nelle altre parti d’Italia, la catalogazione delle azioni in faldoni numerati, sono tutte cose attraverso cui il narratore passa e che descrive non con la volontà di normalizzarle, ma senz’altro dando l’idea che quella possa essere la normalità per qualcuno. In questa esposizione fattuale del male sta la parte più oscena e quindi interessante del romanzo.
Marcello Croce, il vero motivo per cui il narratore decide di avvicinarsi al movimento, si concede raramente, è sfuggente e oscuro. Nei pochi momenti in cui, però, decide di descrivere se stesso e la propria battaglia, per Tarabbia le sue parole sono oro. Gli dice ad un certo punto:
«Noi non siamo dei fascistelli sprovveduti di borgata […]. Noi non siamo una di quelle mezze bande che occupano abusivamente, ma con il tacito consenso di una certa classe politica, locali sfitti del centro, fanno volantinaggio nelle scuole, frequentano le curve degli stadi, picchiano barboni e immigrati e sognano, per lo meno quelli tra loro che hanno un minimo di istruzione, una rivoluzione nera». (pp. 150-151)
Eppure, questa rivendicazione identitaria sembra poi perdersi nell’orrore che tutta la seconda parte del romanzo descrive, fatta di violenze carnali (in cui Silvia torna al centro della narrazione, per poi disperdersi), di un girare a vuoto intorno a degli idoli che però scavano sempre più in basso il livello su cui poter appoggiare i piedi. La storia, infatti, va a sbattere contro le proprie premesse, fino ad esplodere, un po’ come si immaginava fin dall’inizio.
«Ci sono molti modi per dimostrare fiducia»
«Sono tutti modi secondari. L’unico modo vero, autentico, è darsi, dare sé stessi».
«Tu non dai nulla di te stesso però».
«Io do tutto, ogni giorno, alla mia causa». (p. 214)
Lo sviluppo appare quindi “predeterminato”, come fosse già scritto. E lo è, in effetti. Sì, perché il romanzo di Tarabbia è un esperimento (riuscito) di riscrittura: molte delle sezioni che compongono il libro sono citazioni dirette o indirette di testi e contesti che si sono occupati di temi oscuri e lugubri, di connivenza felice fra l’alta borghesia e i sommovimenti fascisti, di violenza e perversione. Il primo e più esplicito riferimento è L’odore del sangue, l’ultimo romanzo incompiuto di Goffredo Parise, nel quale lo scrittore vicentino aveva aperto una fessura sulla storia di Marcello e Silvia, che Tarabbia riprende e prova appunto a scrivere di nuovo attualizzandolo. Ma nelle pagine de Il Continente bianco ci sono anche pagine e temi riscritti di Pasolini e Melville, Malerba e Casseri, Jean Raspail e Dj Stalingrad.
«Scrivere vuol dire anche sopportare il dolore degli altri, e un mondo giusto, dal punto di vista di chi lo vuole raccontare, è una stortura, un abominio.» (p. 200)
La scrittura ha quindi una doppia funzione: descrittiva e riflessiva (del resto, nella finzione narrativa Tarabbia viene assodato come lo scrittore del gruppo che ha il compito di tratteggiare, ovvero inventare, la loro storia). Da un lato essa mette a parte il mondo di uno scandalo, quello del male, che non è da tutti considerato come tale; dall’altra si mostra come mezzo per ragionare su sé stessa. Nel romanzo, quindi, l’attività dello scrivere da parte di Tarabbia (sia il Tarabbia scrittore che l’alter ego) assume la forma di una pratica performativa e autoriflessiva che gli ha permesso di dare vita a un romanzo che per certi versi può sembrare ancora in fieri, ma che in realtà pone costantemente alcune domande a sé: quanto è importante la narrazione nella costruzione delle idee politiche, nella giustificazione di un preconcetto, nella naturalizzazione di qualcosa di artefatto? La risposta sembra inequivocabilmente una: tantissimo.
Saverio Mariani
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